3 luglio 2013 |
L'odissea del divieto di reformatio in peius: la parola torna alle Sezioni Unite
Commento a Cass., Sez. IV, ordinanza, 20 maggio 2013 (ud. 23 gennaio 2013), n. 21603
1. L'ordinanza in esame, con la quale la quarta sezione del Supremo Collegio ha deciso di rimettere la questione al giudizio delle Sezioni Unite, muove dalla controversa lettura giurisprudenziale dei margini e delle modalità operative del divieto di riforma in peggio.
In fatto, si tratta del caso di un imputato per concussione e violenza sessuale, commesse in continuazione, condannato in seconde cure ad anni tre e mesi quattro di reclusione, stante un computo della pena fondato sulla ritenuta maggior gravità del reato di violenza sessuale. Sentenza poi annullata, dalla terza Sezione della Corte di legittimità, proprio in ordine all'errata individuazione della fattispecie utile all'applicazione del regime del reato continuato, con rinvio alla Corte d'appello di Perugia per la nuova determinazione del trattamento sanzionatorio. Individuato nella concussione il reato più grave, il giudice del rinvio decide di diminuirne il quantum di pena (passando dagli originari anni sei ad anni cinque), ma contestualmente ridetermina, riducendole, le diminuzioni conseguenti al riconoscimento delle attenuanti generiche e aumenta la pena per i reati satellite (tre episodi di violenza sessuale). Stante, infine, la diminuente processuale determinata dalla scelta del giudizio abbreviato, la Corte decide di applicare una pena pari ad anni tre e mesi quattro di reclusione.
Nonostante l'identità tra i computi finali della pena detentiva in sede di appello e di rinvio, la difesa propone ricorso per cassazione denunciando la violazione degli artt. 627 comma 3 e 597 comma 3 c.p.p., per avere la Corte perugina travalicato i propri poteri di giudice del rinvio, e avere parimenti violato il divieto di riforma in peius, procedendo alla richiamata modifica dell'incidenza relativa delle singole componenti della pena.
2. In diritto, raffrontate le due sentenze di merito, la Corte di cassazione isola l'unica reale variazione relativa occorsa in sede di giudizio di rinvio, laddove la Corte d'appello ha determinato in anni uno e mesi due l'aumento a titolo di continuazione per il reato precedentemente punito con pena pari a mesi tre. Trattasi, quindi, di comprendere se sia in grado di violare il divieto di riforma in peius la decisione di assegnare ai singoli addendi - costituenti la tramatura giuridica della pena - un peso specifico nuovo (rispetto al giudizio precedente l'annullamento parziale), in particolare risultante, a totale immutato, da una variazione in peius dell'incidenza del reato continuato.
Più in generale, il punto dibattuto - oggetto da tempo di dibattito dottrinale e contrasti giurisprudenziali - attiene al raggio operativo del divieto di riforma in peggio: ci si domanda se esso debba fermarsi all'involucro esterno del trattamento sanzionatorio, considerato nelle sole quantità finale e modalità esecutive, oppure possa spingersi sino a esigere che le singole componenti del trattamento non subiscano aggravi tali da compensare variazioni in melius su punti diversi[1].
Registrati due indirizzi giurisprudenziali sostanzialmente divergenti - l'uno, maggioritario, di stampo "analitico", radicato in particolare nella più recente posizione assunta dalle Sezioni Unite[2], l'altro "sintetico", minoritario, ma sopravvissuto anche dopo il 2005[3] - la quarta Sezione ha preferito chiamare nuovamente in causa, ex art. 618 c.p.p., le Sezioni Unite, onde chiarire «se, nel caso di impugnazione del solo imputato, nel giudizio di rinvio che concerna l'applicazione della disciplina del reato continuato, il divieto di "reformatio in peius" riguardi solo la pena inflitta, quale risultante delle diverse operazioni di calcolo, le quali possono essere condotte in modo da produrre addendi diversi da quelli fissati nel provvedimento oggetto di annullamento, ovvero abbia ad oggetto non soltanto il risultato finale ma anche tutti gli elementi del calcolo della pena».
3. Guardando, seppur sinteticamente, la "storia" del divieto di reformatio in peius, appare di immediata evidenza la sua trasformazione da regola eccezionale a (discusso) principio del processo penale: rispetto all'art. 515 c.p.p. 1930, la nuova disciplina estende la portata del divieto all'applicazione di misure di sicurezza nuove o più gravi di quelle contenute nella sentenza appellata e al proscioglimento dell'imputato per una causa meno favorevole rispetto alla precedente decisione. Sulla scia, poi, dell'art. 558 comma 3 Prog. prel. 1978, «se è accolto l'appello dell'imputato relativo a circostanze o reati concorrenti, anche se unificati per la continuazione, la pena complessiva irrogata è corrispondentemente diminuita» (art. 597 comma 4 c.p.p.)[4]. La parabola evolutiva in senso ampliativo si apprezza ancor più ricordando che, ai sensi dell'art. 480 c.p.p. 1913, il divieto era un limite ai poteri decisori del giudice d'appello in ordine alla sola pena: il tempo, dunque, ha irrobustito la presenza del divieto nel sistema, radicando il diritto dell'imputato unico impugnante al non peius, inteso - per dirla con Delitala - come generica situazione di "svantaggio"[5].
Sebbene, poi, anche la Corte costituzionale abbia incidentalmente richiamato il divieto nel ruolo di principio fondamentale dell'ordinamento[6], sembra più corretto escludere che esso rivesta il ruolo di principio generale normativo, presentandosi semmai come mero «principio generale informatore»[7], capace come tale solo di esprimere una funzione interpretativa, indicando di scegliere, tra diverse letture possibili di una norma, quella più favorevole all'imputato.
Sia detto incidentalmente, ma pure l'assunto secondo il quale non vi sarebbero dubbi sull'estensibilità del divieto oltre i confini dell'appello, per raggiungere il giudizio di rinvio, non costituisce un assioma[8]: è una mera costante giurisprudenziale, radicata nella convinzione che esista un rapporto di implicazione necessaria tra devoluzione (attivata dall'imputato) e divieto di riforma in peggio. Anche l'ordinanza in esame non sfugge alla tradizione: richiamando la citata pronuncia delle Sezioni Unite del 2005, ne riprende la trama motiva ancorando i punti della decisione impugnata - che rappresentano il vero devolutum - ai motivi proposti, in risposta ai quali, accogliendo o rigettando le sottostanti domande, al giudice dell'impugnazione spetterebbe decidere.
In realtà, dovrebbe essere noto alla giurisprudenza che la devoluzione parziale, sulla quale è plasmato il nostro sistema dei rimedi penali, non vincola il giudice al riscontro della fondatezza, o no, dei motivi proposti, conferendogli invece pieni poteri di conoscere i punti investiti dai motivi, sebbene con il limite decisionale rappresentato dall'invalicabilità del divieto di riforma in peggio. Tra un giudizio avente ad oggetto la domanda dell'impugnante e uno che riesamina il merito del processo sembra, nonostante la poca chiarezza che regna soprattutto in materia di appello, doversi oggi propendere per il secondo modello; del resto, a riprova basti ricordare che una delle principali "battaglie" intentate contro l'attuale sistema dei controlli penali di merito intende proprio rendere l'appello un grado di giudizio a critica vincolata, imponendovi precisi motivi di doglianza[9].
In effetti, se davvero l'oggetto del "riesame" di merito fosse la domanda dell'impugnante, una volta riscontratone il fondamento, al giudice si imporrebbe di decidere in conformità con le richieste formulate, negandosi ogni reformatio in peius. Al contrario, investito del merito del processo (o di una sua parte), il giudice dovrebbe essere libero di rescindere la precedente pronuncia, sostituendovi in parte qua la propria: nuova cognizione, nuovo giudizio, nuova decisione, magari in peius.
Nemmeno le radici abitualmente poste a base del divieto di riforma in peius sono in grado di restituirne un fondamento che vada al di là della discrezionalità delle scelte legislative: non il diritto di difesa, perché se è indiscusso il diritto della parte di ottenere una nuova pronuncia, appare del tutto indimostrato che essa possa esigere una certa sentenza, né l'interesse ad impugnare, limite di ammissibilità del mezzo ma non guida per la decisione del giudice.
I modelli di riferimento, insomma, poco chiari al legislatore, lo sono forse ancor meno alla giurisprudenza, la quale sembra ignorare che non esiste alcuna relazione di dipendenza tra devoluzione e divieto di riforma in peggio: non fosse altro, perché la prima opera a livello di cognizione, il secondo sul piano della decisione.
4. Come puntualmente rilevato dall'ordinanza che si annota, l'indirizzo sintetico ha avuto la propria massima espansione applicativa sotto la vigenza del codice di rito penale abrogato, dove la giurisprudenza era compatta nel ritenere che il divieto della reformatio in peius di cui all'art. 515 comma 3 c.p.p. concernesse «la pena complessivamente inflitta, ma non i singoli elementi che la compongono e i calcoli effettuati per giungere ad essa», con la conseguenza che, in caso di appello del solo imputato, il giudice d'appello non potesse «travalicare il limite complessivo della pena già inflitta o modificarne in senso peggiorativo la specie, rimanendo, invece, libero di una diversa valutazione della gravità dei fatti o di una non coincidente applicazione dei criteri di cui agli artt. 69 e 133 c.p.»[10].
Parimenti, tale approccio esegetico coinvolgeva il caso del reato continuato, a fronte del quale si riteneva, ad esempio, che qualora fosse stata pronunciata sentenza di condanna in prime cure per reati in continuazione, in secondo grado il giudice avrebbe potuto diversamente qualificare i fatti ricompresi nel reato unificato, rideterminando la pena base per il reato più grave e quella per i reati satellite, entro i soli limiti di una quantità complessiva non maggiore della precedente[11]. O, ancora, si considerava compatibile con il divieto di riforma in peggio la decisione del giudice dell'appello che non riducesse la pena inflitta pur escludendo taluni dei reati riuniti dal vincolo della continuazione[12].
5. Se il tenore letterale dell'art. 515 c.p.p. 1930, confinato al divieto di «infliggere una pena più grave per specie o quantità» e di «revocare benefici», in effetti propiziava una lettura minimalista del divieto di riforma in peggio, l'input legislativo muta assai nel profondo con l'attuale art. 597 c.p.p., dove, ad una formulazione più analitica della portata del divieto, come rappresentata dal comma 3, segue una specifica disposizione (comma 4) che riguarda l'appello del solo imputato «relativo a circostanze o reati concorrenti, anche se unificati per la continuazione», accogliendo il quale al giudice è imposto di diminuire corrispondentemente la pena complessiva irrogata.
Nonostante la portata delle novità, parte della giurisprudenza ha inizialmente mantenuto il tradizionale indirizzo teso a riconoscere nel concetto di pena rilevante ai fini del divieto di riforma in peggio la sola somma complessiva, risultando indifferenti i singoli elementi che la compongono[13].
Più correttamente, altri interpreti hanno valorizzato il tenore dell'art. 597 comma 4 c.p.p., che isola quali elementi autonomi nella dinamica del calcolo finale le variazioni alla pena base dovute alle circostanze e l'aumento determinato dalla continuazione[14]. In conformità con questo indirizzo, poi, si sono pronunciate una prima volta le Sezioni Unite, le quali hanno identificato nel comma 4 dell'art. 597 c.p.p. un quid pluris rispetto ai contorni classici del divieto di riforma in peggio, derivandone in «ogni caso» per il giudice il dovere di diminuire la pena complessivamente irrogata in misura corrispondente all'accoglimento dell'impugnazione[15]. Non solo, ma, in aggiunta alla diminuzione obbligatoria della pena complessiva, risulta precluso elevare la pena per i singoli elementi, pur risultando diminuita quella finale conseguente all'accoglimento dell'appello in ordine alle circostanze o al concorso, sebbene per ragioni differenti. Una linea esegetica, questa, sulla quale si sarebbero attestate dieci anni dopo ancora le Sezioni Unite[16], confermando come violi il divieto di riforma in peggio la decisione del giudice d'appello che, accogliendo il gravame proposto dall'imputato, pur rideterminando, per l'esclusione di una circostanza aggravante, la pena complessiva in misura inferiore a quella inflitta in prime cure, fissi la pena base in misura superiore, nonostante la mancanza di impugnazione sul punto.
In definitiva, l'orientamento dominante ritiene interdette le compensazioni interne al calcolo, che alternino aumenti e riduzioni della pena e delle altre componenti del trattamento sanzionatorio, neutralizzando l'effetto favorevole per l'imputato impugnante, che invece va apprezzato in concreto e con riguardo a ciascun elemento del computo della pena.
A motivo dell'ordinanza di rimessione della questione alle Sezioni Unite, però, la quarta Sezione richiama taluni arresti che parrebbero militare in senso contrario, lasciando affiorare un orientamento minoritario, ma fedelmente ancorato all'indirizzo sintetico. Così, in particolare, vien speso un argomento dotato di un certo fascino, ossia la convinzione che il divieto di reformatio in peius attenga al solo dispositivo, senza attingere la motivazione del provvedimento[17]: pertanto, in motivazione il giudice sarebbe libero di rideterminare le componenti della pena, anche in senso sfavorevole all'imputato, non potendosi configurare vincoli alla libertà di convincimento[18], ma solo un condizionamento decisorio capace di fissare come "tetto massimo", nel dispositivo, la pena già irrogata in prime cure.
Peraltro, il punto non pare controverso, come dimostrato da una costante convergenza di vedute della dottrina e della giurisprudenza[19]. Con la specificazione, tuttavia, che quantificare e motivare sono passaggi logicamente distinti e successivi; e che ogni qual volta si quantifichi una componente della pena non si sta motivando, ma disponendo, anche se la sede in cui materialmente si opera consiste nella parte motiva della sentenza. Paradossalmente, il secondo giudice potrebbe criticare le ragioni poste a fondamento della sentenza impugnata, senza però modificarne il dispositivo[20].
Certo è che lo scollamento tra cognizione e decisione che si realizza in forza del divieto di riforma in peggio non permette al giudice di modificare nel merito gli esiti del processo, assecondando il proprio libero convincimento, ma lo costringe negli angusti confini di una motivazione in malam partem. Più in generale, potrebbe persino profilarsi un attrito con il principio di legalità, ponendosi il divieto come momento di rottura tra accertamento, responsabilità e pena, in contrasto con l'indefettibilità della giurisdizione[21].
6. Il casus belli è concentrato, in sostanza, sui dubbi nascenti dalle modalità di calcolo della pena in presenza di reati uniti dal vincolo della continuazione, qualora sia stato eliminato il reato più grave per assoluzione o estinzione, o un reato satellite o una circostanza, oppure si sia diversamente individuato il reato più grave come base per il computo. La chiamata in causa delle Sezioni Unite dovrebbe far luce sulla capacità, o no, del divieto di riforma in peggio di penetrare nelle maglie delle decisioni giudiziali, in sede di impugnazione proposta dal solo imputato, sino al punto di guidarne in senso favorevole tutti i passaggi strumentali alla rideterminazione finale della pena[22], e non solo quest'ultima[23].
Senza pretesa di preconizzare gli esiti del responso a Sezioni Unite, si può comunque tentare un ragionamento in prospettiva, impiegando quali arnesi esegetici principi e regole in materia.
Il principio è quello racchiuso nella forza espansiva del divieto di reformatio in peius: un criterio guida che esprime un generico favor impugnationis e, con esso, un certo favor rei, quindi capace di orientare in senso massimamente favorevole all'imputato unico appellante l'interpretazione dell'art. 597 comma 3 c.p.p., tanto da imporre l'interpretazione analitica del divieto stesso.
A livello di regole, infine, non va trascurato l'apporto specifico dell'art. 597 comma 4 c.p.p., collocato nel ruolo di ulteriore limite decisorio, imposto al giudice, che persino travalica il divieto di riforma in peius, approdando ad un'obbligatoria diminuzione della pena irrogata in prime cure.
Sebbene si parli di «pena complessiva irrogata», lasciandosi letteralmente affiorare solo il concetto di computo finale, non vi sono ragioni per credere che l'imminente risposta delle Sezioni Unite abbandoni il solco, ormai ben tracciato, di una lettura analitica della portata del divieto.
Del resto, appare quanto mai sterile il tentativo di ridurre il raggio operativo del divieto agendo attraverso il forzato ridimensionamento delle attuali previsioni; anche perché il - criticabile, ma - costante richiamo ad iuvandum, da parte della giurisprudenza prevalente, di fondamenti sistematici del calibro della devoluzione o dell'interesse ad impugnare ha ormai edificato argini insuperabili da qualsiasi indirizzo che intenda volgersi in direzione contraria. Un ripensamento sul divieto di reformatio in peius, insomma, non può muovere dalle sottese dinamiche applicative, ma dalla sua stessa presenza nel sistema[24]; o meglio, e ancor prima, da una nuova riflessione sulla fisionomia complessiva delle impugnazioni.
[1] Per un quadro d'insieme, Belluta, Divieto di reformatio in peius, in Bargis-Belluta, Impugnazioni penali. Assestamenti del sistema e prospettive di riforma, Torino, 2013, p. 3 s.
[2] Cass., Sez. Un., 27/9/2005, William Morales, in Cass. pen., 2006, p. 408.
[3] Per un quadro complessivo del dibattito giurisprudenziale v. Peroni, Commento all'art. 597, in Conso-Grevi, Commentario breve al codice di procedura penale, Complemento giurisprudenziale, VII ed., Padova, 2011, p. 2409 s.
[4] Sul punto v., da ultimo, Pisani, Divieto della reformatio in peius: appunti penalistici retrospettivi e considerazioni impolitiche, in Riv. dir. proc., 2013, p. 279 s.
[5] Delitala, Il divieto della reformatio in peius nel processo penale, Milano, 1927, p. 17.
[6] Corte cost., 14/1/1974, n. 3.
[7] Testualmente, Lozzi, "Favor rei" e processo penale, Milano, 1968, p. 114.
[8] Sul punto, Belluta, Divieto, cit., p. 15 s.
[9] In tal senso, già Spangher, Rito accusatorio: per una nuova riforma del sistema delle impugnazioni penali, in Dem. E dir., 1992, suppl. al n. 1, p. 252; V. anche Carcano, Impugnazioni e prescrizione, in Quest. giust., 2007, p. p. 17 s.; volendo, Belluta, Prospettive di riforma dell'appello penale: tra modifiche strutturali e microchirurgia normativa, in Riv. dir. proc., 2010, p. 1059 s.
[10] Così Cass., 22/11/1985, in Cass. pen., 1986, III, p. 656.
[11] Cass., 6/3/1984, in Riv. pen., 1985, p. 184.
[12] Cass., 20/1/1978, in Cass. pen., 1980, p. 430.
[13] Cass., 6/11/1996, in Arch. nuova proc. pen., 1997, p. 207.
[14] Cass., 3/3/1994, ivi, 1995, p. 477.
[15] Cass., Sez. Un., 12/5/1995, Pellizzoni, in Cass. pen., 1995, p. 3329. Parla di un sostanziale «obbligo, se del caso, di procederealla reformatio in melius» Pisani, Divieto, cit., p. 295.
[16] Cass., Sez. Un., 27/9/2005, William Morales, ivi, 2006, p. 408.
[17] Cass., 13/3/2007, Santapaola, in C.e.d. n. 236433.
[18] Cass., 24/3/2010, Capolino e a., ivi, n. 247739.
[19] Bargis, Impugnazioni, in Conso-Grevi-Bargis, Compendio di procedura penale, Cedam, 2012, p. 960; Nuzzo, L'appello nel processo penale, Giuffrè, 2006, p. 177. In giurisprudenza v. già Cass., Sez. Un., 19/1/1994, in Cass. pen., 1994, p. 2027.
[20] Così Cass., 19/5/2005, in Arch. nuova proc. pen., 2007, p. 225.
[21] Lozzi, "Favor rei", cit., p. 115.
[22] In tal senso, Cass., 7/11/2012, Ancona e a., in C.e.d., n. 254263. In prospettiva parzialmente convergente v. anche Cass., 18/6/2008, Giunta, ivi, n. 240461 (ove si specifica che il giudice di rinvio, ferma l'impossibilità di stabilire, per la violazione ritenuta più grave, una pena maggiorata per specie o quantità, come base per il computo degli aumenti in continuazione, non risulta tuttavia vincolato, nella determinazione della pena per il reato residuo e meno grave, alla misura di essa già fissata come aumento ex art. 81 c.p., in quanto l'annullamento parziale elide il vincolo per il quale opera il cumulo giuridico della pena).
[23] Come invece conclude Cass., 16/6/2009, Buscemi e a., in C.e.d., n. 244793.
[24] Molto critico al riguardo si dimostra ancora Pisani, Divieto, cit., p. 298, che parla di «interdizioni del potere giurisdizionale» da considerarsi «prive di fondamento logico-giuridico».