ISSN 2039-1676


18 luglio 2014 |

Registrazione di comunicazioni e videoriprese in ufficio da parte del datore di lavoro: è interferenza illecita nella vita privata e non mera violazione dello Statuto dei Lavoratori

Corte App. Milano, Sez. V, 26.2.2014 (dep. 24.4.2014), n. 1630, Pres. Guerriero, Rel. Vitale

 

1. La sentenza annotata affronta tre diversi casi di spionaggio sul luogo di lavoro:

a) Il Presidente di una società, dopo essere penetrato (con l'ausilio di 'esperti in apertura porte') all'interno dell'ufficio dell'amministratore delegato, vi fa installare abusivamente (per il tramite di una ditta specializzata in dispositivi di sicurezza) un miniregistratore con annessa microtelecamera e microfono.

b) Il titolare di uno studio dentistico (al fine di verificare se i propri dipendenti "prendessero soldi" direttamente dai clienti) fa installare abusivamente (dalla medesima ditta specializzata), all'interno dei locali in cui veniva svolta la prestazione dentistica da parte dei suoi sottoposti, 11 telecamere nascoste con sistema audio integrato e collegate ad un registratore posto nel proprio ufficio privato che, attraverso il p.c., gli consente l'ascolto e la visione (diretta o differita) di immagini e conversazioni dei dipendenti.

c) Infine. Il titolare di un'altra società (già amministratore di fatto della ditta specializzata in dispositivi di sicurezza del caso b) fa installare abusivamente - con modalità analoghe a quelle del caso a -, all'interno dell'ufficio dell'amministratore delegato, delle microspie, ricevendo, successivamente, dal tecnico installatore un supporto informatico contenente la registrazione delle conversazioni effettuate dalla vittima.

 

2. La sentenza è piuttosto articolata e complessa, anche in considerazione delle peculiarità di ciascun episodio e dei differenti ruoli rivestiti dagli imputati. Il quesito di maggior interesse (in quanto mai affrontato direttamente, a quanto consta, dalla giurisprudenza di legittimità edita) cui era chiamata a rispondere la Corte d'appello sembra, d'altra parte, il seguente: si tratta di interferenza illecita nella vita privata (art. 615 bis c.p.) - come sostenuto dal Procuratore della Repubblica nella formulazione dell'imputazione (che ravvisa altresì l'aggravante del fatto commesso da chi esercita anche abusivamente la professione di investigatore privato, profilo che non si affronterà in questa sede) - o, piuttosto, della meno grave ipotesi di utilizzo di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori, mera contravvenzione prevista nell'art. 4 della l. n. 300/1970 (di seguito Statuto Lav.)[1], come, invece, ha ritenuto il Tribunale di Milano[2]?

 

3. Premesso che la Corte d'appello ha accolto la tesi della Procura, tre sono i motivi che avevano invece indotto il Tribunale a ravvisare nei fatti descritti la violazione dell'art. 4 Statuto Lav.: 1) lo spionaggio è avvenuto in ambito lavorativo (si tratterebbe, dunque, di luoghi tutelati dall'art. 4 Statuto Lav.); 2) sussisteva un rapporto di dipendenza tra autore (datore di lavoro) e vittima (dipendente) (come contemplato dall' art. 4 dello Statuto); 3) il datore di lavoro sarebbe stato mosso dalla finalità di "controllare l'esercizio dell'attività lavorativa" svolta dal dipendente (dolo specifico che sorreggerebbe la condotta di cui all'art. 4 Statuto Lav). In definitiva, il Tribunale ha ragionato in questi termini: le due disposizioni in apparente conflitto (art. 615 bis c.p. e art. 4 Statuto Lav.) vieterebbero entrambe condotte lato sensu di interferenza illecita nella vita privata, ma si tratterebbe di condotte sorrette da finalità diverse, realizzate in "ambiti diversi" e aventi ad oggetto rapporti differenti. L'art. 4 Statuto Lav. sarebbe speciale per specificazione rispetto all'art. 615 bis c.p., prestando tutela contro le attività di spionaggio perpetrate dal datore di lavoro nei confronti dei dipendenti, al fine di controllarne l'attività professionale.

 

4. Secondo la Corte d'appello, la sentenza di primo grado, pur partendo da "pregevoli ricostruzioni delle due figure di illecito e della reciproca interazione ai sensi dell'art. 15 c.p.", era tuttavia "affetta da vizi di fatto" (in alcuni casi il rapporto tra autore e vittima non era propriamente di dipendenza), nonché da "vizi logici", con la conseguenza che in tutte le ipotesi descritte doveva trovare applicazione proprio l'art. 615 bis c.p.

A sostegno di tale soluzione, innanzitutto la considerazione che l'ufficio in cui si svolge attività lavorativa rientra pacificamente nella nozione di 'domicilio'[3], di cui all'art. 614 c.p., cui rinvia l'art. 615 bis c.p. Sul punto la Corte d'appello, richiamando e combinando tra loro gli ultimi approdi giurisprudenziali, ritiene che a caratterizzare i "luoghi di privata dimora" siano l'ammissibilità dell'interclusione al pubblico con possibilità di svolgere attività al riparo da interferenze esterne e la natura privata dell'attività che il luogo è destinato ad accogliere[4]. La Corte, quindi, nell'individuazione del 'domicilio', dimostra di valorizzare, nel solco della giurisprudenza della Sezioni Unite[5], non tanto il luogo in sé, ma il rapporto sussistente tra persona e luogo, precisando, tra l'altro che "gli atti della vita privata non vanno confusi con quella della vita intima e familiare"[6], ma comprendono anche attività "lavorative, ricreative, politiche, culturali, religiose" nelle quali si estrinseca la personalità dell'individuo[7].   

L'orientamento della Corte d'appello, che accoglie una nozione 'ampia' di luogo di privata dimora, non è univoco, ma è interessante evidenziare che proprio in tema di interferenze illecite nella vita privata, dove generalmente, facendo leva sul criterio della stabilità della presenza nel luogo[8], viene adottata una nozione 'più ristretta' (la libertà di domicilio assume rilevanza come diritto alla riservatezza su quanto si compie in certi luoghi, con la conseguenza che ne rimarrebbero estromessi quei luoghi in cui il soggetto, pur vantando uno ius excludendi, non vanta anche un pari diritto alla riservatezza), nondimeno, nessun dubbio sorge circa la natura di 'luogo di privata dimora' dell'ufficio personale. In tale luogo, infatti, il titolare vanta, oltre allo ius excludendi, anche il diritto alla riservatezza di quanto si svolge al suo interno[9].

Un secondo aspetto per cui la Corte d'appello prende le distanze dal Tribunale - e che renderebbe applicabile, nei casi di specie, l'art. 615 bis c.p. - sembra legato alla particolare (e limitata) forma di tutela del bene giuridico nell'art. 4 Stat Lav.: qui, infatti, il "diritto alla riservatezza dei lavoratori"[10] troverebbe tutela contro particolari modalità di aggressione integrate da controlli a distanza (in assenza di accordo con i sindacati) dell'esecuzione della prestazione lavorativa[11]. L'art. 4, quindi, tutelerebbe la riservatezza del lavoratore contro controlli che si caratterizzano per essere "a distanza, generalizzati delle maestranze", "in un luogo pubblico" e sorretti da ragioni particolari ("organizzative, produttive o di salute"); viceversa, prosegue la Corte d'appello, l'art. 4 non sarebbe volto al "controllo del singolo lavoratore". Limpido l'esempio cui ricorrono i giudici per chiarire il loro pensiero: una telecamera installata sopra una catena di montaggio, alla quale è addetto un numero imprecisato di lavoratori, ove non autorizzata, integrerà la violazione dell'art. 4 Statuto Lav., mentre la medesima telecamera installata nell'ufficio di un impiegato, che possa chiuderne a chiave la porta, integrerà il reato di cui all'art. 615 bis, c.p.

Ulteriore elemento di differenziazione tra l'art. 4 Statuto Lav. e l'art. 615 bis c.p. sarebbe rappresentato dall'elemento soggettivo: costituito nel primo caso dalla volontà di bypassare i controlli delle r.s.a. pur di controllare la corretta esecuzione del lavoro, nel secondo dalla volontà (o accettazione del rischio) di procurarsi notizie o immagini relative alla vita privata del soggetto.

Alla luce di tali considerazioni, la Corte d'appello ritiene che in tutti i casi esaminati la norma applicabile sia quella dell'art. 615 bis c.p.

Premesso che il ragionamento della Corte percorre i soli casi a) e c) [in quanto per il caso b) il Tribunale aveva già ritenuto applicabile l'art. 615 bis c.p.], i giudici d'appello rilevano quanto segue. In entrambi i casi, mancherebbe in primo luogo il rapporto di subordinazione tra l'autore dello spionaggio e la vittima: nel caso a), infatti, la vittima, amministratore delegato della società di cui l'autore dello spionaggio era Presidente, svolgeva nello stesso luogo anche il ruolo di Presidente di altra società, di cui l'autore dello spionaggio era, invece, amministratore delegato. Nel caso c) i soggetti 'spiati' risultavano due, di cui uno non più dipendente, l'altro direttore generale/amministratore delegato, della cui posizione di 'subordinazione'  la Corte, quanto meno, dubita.

Decisivo, comunque, nel senso dell'inapplicabilità dell'art. 4 Statuto Lav. appare il luogo in cui sono state effettuate le riprese (visive e sonore): l'ufficio personale delle vittime, un luogo quindi "assolutamente privato", per le ragioni evidenziate sopra.

Peraltro, anche sotto il profilo soggettivo le circostanze deponevano nel senso della volontà degli autori di carpire le conversazioni delle vittime designate e non certo di controllare l'esecuzione della loro attività lavorativa [nel caso a) tale circostanza risultava ulteriormente corroborata dalla collocazione di microspie anche nella vettura della vittima (dove, evidentemente, non si svolgeva alcuna attività lavorativa..)].

La Corte d'appello, pervenendo a conclusioni opposte a quelle del Tribunale, dopo aver dichiarato di condividerne l'esegesi e le considerazioni relative al rapporto di interazione tra norme, ha ritenuto che nei casi di specie, in assenza degli elementi specializzanti individuati dal primo giudice, dovesse trovare applicazione la norma generale.

Tale soluzione, che porta all'applicazione della norma sull'interferenza illecita nella vita privata, senz'altro condivisibile nell'esito, ci sembra in ogni caso imposta a priori dall'art. 38 Statuto Lav.: stabilendo che l'art. 4 si applichi "salvo che il fatto non costituisca più grave reato", la disposizione dello Statuto Lav. già individua, infatti, un'ipotesi di concorso apparente di norme e lo risolve alla stregua del principio di sussidiarietà[12].

 


[1] Tale contravvenzione è sanzionata dall'art. 38 dello Statuto Lav. per effetto del combinato disposto degli artt. 171, 114, d.lgs. n. 196/2003 (T.U. Privacy) e art. 38, l. n. 300/1970 (Statuto Lav.).

[2] Trib. Milano, sez. IX, 22 marzo 2012 (depositata il 21 maggio 2013), sent. n. 3869/2013, che proscioglie gli imputati, o per prescrizione, o per non aver commesso il fatto, o perché il fatto non costituisce reato.

[3] Sulla portata più ampia della nozione penalistica di domicilio rispetto a quella civilistica, di cui all'art. 43 c.c., cfr. Gatta, Delitti contro l'inviolabilità del domicilio, in Viganò, Piergallini (a cura di), Reati contro la persona, Estratto dal VII volume del Trattato Teorico - Pratico di Diritto Penale diretto da Palazzo e Paliero, 2011, p. 271.

[4] Cfr. Cass., 4 giugno 2013, n. 30177, in DeJure che, in tema di utilizzabilità delle prove (integrate, nel caso di specie, da videoriprese effettuate senza autorizzazione del giudice nell'atrio di un ufficio postale), esclude che l'atrio, benché riservato ad ingresso dei dipendenti, costituisca luogo di privata dimora, non presentando alcuna delle caratteristiche dell'ufficio personale del soggetto.

[5] Cass. S.U., 28.3.2006, n. 26795, in DeJure, che (sempre in tema di utilizzabilità della prova) nell'escludere la natura di luogo di privata dimora dei c.d. privées - parti di un locale aperto al pubblico alle quali possono accedere soltanto alcune persone - valorizza l'elemento della stabilità della persona nel luogo (nei privées i clienti erano ammessi per soli 10 minuti e mancava, quindi, una presenza stabile della persona). V. anche la Relazione del Guardasigilli Rocco sul progetto definitivo del codice penale, in Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, vol. V., parte II, Roma, 1929, p. 421, che definiva altro luogo di privata dimora quello "che serve all'esplicazione della vita privata"; sulla volontà del legislatore del '30 di ampliare il concetto di luogo di privata dimora, v. ancora Gatta, Delitti contro l'inviolabilità del domicilio, cit., p. 274.

[6] Testualmente Cass., 5 aprile 2012, n. 28045, in DeJure;

[7] Sul dibattito relativo alla nozione di 'vita privata', in  dottrina, cfr. Magri, Art. 615 bis, in Dolcini, Marinucci (a cura di), Codice penale commentato, vol. III, 3° ed., 2011, p. 5970. A favore della nozione ampia qui adottata dalla Corte d'appello si richiama anche un'interpretazione costituzionalmente orientata che "faccia coincidere le nozioni di domicilio accolte dalla legge penale e dalla Costituzione all'art. 14": v. limpidamente, Gatta, Delitti contro l'inviolabilità del domicilio, cit., p. 273; per un argomento sistematico che porterebbe, invece, ad escludere dalla 'vita privata' i luoghi di lavoro, cfr. Vigano', Sulla nuova legittima difesa, in Riv. it. dir. proc. pen., 2006, p. 221 s.

[8] Cfr. Cass. S.U.,  28.3.2006, n. 26795, cit.

[9] Cfr. Cass. 5 dicembre 2012, n. 10444 in DeJure.

[10] Tale è il bene giuridico individuato anche dalla più recente giurisprudenza, v. per es.: Cass. 12 novembre 2013, dep. 30.1.2014, n. 4331, in DeJure.

[11] In tal senso anche Cass. civile, 23 febbraio 2012, n. 621115, in DeJure, ove si legge che la portata dell'art. 4 dello Statuto Lav. "è mirata e limitata al divieto di controllo della attività lavorativa in quanto tale ovvero al divieto del controllo della corretta esecuzione della ordinaria prestazione".

[12] Tale soluzione era stata esclusa dal tribunale che, da un lato, ha ritenuto diversa l' "oggettività giuridica" delle due norme, dall'altro ha considerato che l'applicazione dell'art. 615 bis c.p. sulla base della clausola di sussidiarietà contenuta nell'art. 38 Statuto Lav. renderebbe "sempre inapplicabile l'art. 114" d.lgs.196/2003, svuotando la norma di significato a dispetto della sua reintroduzione nel 2003 (col T.U. Privacy); sui principi di sussidiarietà e di consunzione quali criteri alternativi a quello della specialità (di cui all'art. 15 c.p.) per individuare e risolvere il concorso apparente di norme, cfr. nella manualistica, Marinucci, Dolcini, Manuale di diritto penale, pt. gen., 4° ed., 2012, p. 455 ss.