ISSN 2039-1676


04 dicembre 2015 |

Caso De Magistris: la Corte Costituzionale dichiara l'infondatezza della questione di legittimità  della cd. Legge Severino

Corte Cost., 19 novembre 2015, n. 236, Pres. Criscuolo, Rel. De Pretis

Clicca qui per leggere la sentenza della Corte Costituzionale n. 236/2015

 

1. Con sentenza n. 236 del 2015, la Corte Costituzionale ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 11, primo comma, lettera a) del d.lgs. 31 dicembre 2012, n. 235 (cd. Legge Severino) in relazione all'art. 10, primo comma, lettera c) del medesimo decreto, sollevata dal T.A.R. Campania in ragione dell'asserito contrasto della norma con gli artt. 2, 4, secondo comma, 51, primo comma e 97, secondo comma della Costituzione.

La disposizione censurata prevede la sospensione dalle cariche pubbliche elettive (tra cui quella di sindaco, presidente della provincia, assessore e consigliere provinciale e comunale) di colui che abbia riportato una sentenza di condanna non definitiva per i reati indicati nell'art. 10, primo comma della stessa legge, previa adozione di un provvedimento prefettizio avente natura di accertamento costitutivo. Come è noto, nell'ottobre 2014 la sospensione era stata disposta nei confronti del sindaco di Napoli Luigi De Magistris, a seguito della sua condanna in primo grado per il delitto di abuso d'ufficio (reato rientrante nell'elenco di cui al citato art. 10, comma 1) nell'ambito del cd. caso "Why not" (clicca qui per scaricare la pronuncia, pubblicata in questa Rivista con nota di De Vita, Il caso "De Magistris - Why Not": non convince la configurazione del dolo intenzionale); in particolare, tale sentenza non definitiva era stata pronunciata successivamente all'entrata in vigore del d.lgs. 235/2012, ma per fatti commessi in un momento anteriore.

 

2. L'ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale - scaturita dal giudizio amministrativo nel quale De Magistris aveva chiesto al T.A.R. l'annullamento della sospensione prefettizia dalla carica di sindaco (clicca qui per scaricare l'ordinanza di rimessione, già pubblicata su questa Rivista) - censurava il grado di tutela apprestato dalla legge Severino a favore della «moralità dell'amministrazione pubblica», reputato determinante un irragionevole e sproporzionato sacrificio di altri interessi costituzionalmente rilevanti.

Secondo il T.A.R., in particolare, la causa di sospensione dalle cariche pubbliche introdotta con la Legge Severino avrebbe rappresentato un ostacolo al corretto esercizio del diritto di elettorato passivo di cui all'art. 51 Cost., al quale il giudice rimettente attribuiva rilevanza sotto un triplice profilo. Invero, dopo averlo qualificato come diritto inviolabile ex art. 2 del testo costituzionale, il T.A.R. affermava che lo stesso dovesse essere inteso - da un lato - come uno degli elementi su cui si fonda il corretto funzionamento della pubblica amministrazione (art. 97, secondo comma Cost.) e - dall'altro lato - come strumento attribuito al cittadino per adempiere al dovere sancito dall'art. 4 Cost. di svolgere un'attività «che concorra al progresso materiale o spirituale della società».

Alla luce di tali parametri costituzionali, la censura di illegittimità costituzionale sollevata dal giudice amministrativo poggiava su due presupposti, ossia la natura sanzionatoria della sospensione e la sua applicazione retroattiva ai mandati già in corso.

 

2.1. Sotto il primo profilo, il giudice a quo rilevava come la finalità cautelare normalmente riconosciuta dalla Corte Costituzionale agli istituti della sospensione, della decadenza e della incandidabilità non escludesse per ciò solo che agli stessi istituti potesse essere riconosciuta anche l'ulteriore finalità afflittiva tipica di una sanzione in senso stretto, in ragione della loro incidenza diretta su un diritto costituzionale del cittadino, quale quello di accesso alle cariche pubbliche.

 

2.2. Sotto il profilo temporale, il T.A.R. censurava «l'applicazione "retroattiva" (alla candidatura avvenuta nel 2011, e dunque al mandato già in corso) di una nuova "causa ostativa" alla permanenza in carica (la condanna per abuso d'ufficio), introdotta con il d.lgs. n. 235 del 2012».

Sul punto, in particolare, il T.A.R. osservava: «l'applicazione retroattiva di una norma sanzionatoria [...] urta con la pienezza ed il regime rafforzato di diritti costituzionalmente garantiti, tutte le volte in cui la Carta rimette alla disciplina legislativa il regime ordinario di esercizio di quel diritto»; per tal ragione - proseguiva l'ordinanza di rimessione - ogniqualvolta sia prevista una riserva di legge in materia di diritti costituzionali fondamentali (come avviene per l'individuazione delle cause ostative all'accesso alle cariche elettive ex art. 51 Cost.), dovrebbe essere attribuito rango costituzionale ai principi che regolano le fonti primarie dell'ordinamento.  Per l'effetto - concludeva il giudice rimettente - «essendo il divieto di retroattività di cui all'art. 11 delle Disposizioni sulla Legge in Generale uno dei principi su cui si fonda l'efficacia della legge nel tempo, la sua violazione è anche violazione del diritto che la Costituzione espressamente la chiama a disciplinare e proteggere. In questo senso, l'art. 51 della Costituzione nell'affidare alla legge l'individuazione dei requisiti per l'accesso alle cariche pubbliche, quindi la disciplina positiva per l'esercizio del diritto di elettorato passivo, ciò consente nei limiti fisiologici entro i quali alla legge stessa è consentito operare, cioè non retroattivamente»In buona sostanza, secondo i giudici amministrativi ci troveremmo di fronte a quella che la Corte Costituzionale ha ribattezzato - per poi scartarla come infondata - come una sorta di «costituzionalizzazione» del generale principio di irretroattività sancito dall'art. 11 delle disposizioni preliminari al codice civile.

Infine, il giudice rimettente sottolineava come il divieto di irretroattività avrebbe dovuto - a fortiori - trovare applicazione in ragione dell'assimilabilità dell'istituto della sospensione de qua ad una misura prettamente sanzionatoria.

 

3. La Corte Costituzionale, nell'esaminare la questione di legittimità sollevata dal T.A.R. Campania, ha preliminarmente ridimensionato i parametri di costituzionalità che debbono venire in rilievo nel caso di specie.

In particolare, i giudici hanno rilevato come - in realtà - l'unica norma della Carta fondamentale potenzialmente suscettibile di violazione ad opera della Legge Severino sia l'art. 51, primo comma, seppur considerata in combinato disposto con l'art. 2 Cost. (dal quale deriva, ricordiamo, la qualificazione del diritto di elettorato passivo quale diritto inviolabile).

Per contro, la Corte ha negato che possano venire in rilievo tanto i principi di buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione ex art. 97, secondo comma Cost.(i quali, peraltro, sono riconducibili alla ratio della stessa previsione censurata), quanto il dovere di svolgere una funzione sociale sancito dall'art. 4 Cost.

 

3.1. Ciò premesso, ad avviso della Corte, è anzitutto da rigettare la tesi della natura sanzionatoria dell'istituto della sospensione introdotto dalla Legge Severino, qualificabile piuttosto come misura con finalità meramente cautelari.

In particolare, i giudici richiamano la giurisprudenza - tanto costituzionale quanto ordinaria - già sviluppatasi in ordine ai «precedenti» della Legge Severino, rilevando come la sospensione (alla stessa stregua di incandidabilità e decadenza) non rappresenti né una sanzione in senso stretto, né un effetto penale della sentenza di condanna, bensì soltanto la conseguenza del venir meno di un requisito previsto dal legislatore per la permanenza nella carica elettiva.

A sostegno di tale assunto, la Corte fa notare come il vigente art. 15 del d.lgs. 235/2012 espressamente preveda che l'incandidabilità non possa trovare applicazione ogniqualvolta sia stata concessa la riabilitazione prevista dall'art. 178 c.p., evidenziando la superfluità di una tal disposizione qualora la misura in discorso fosse da qualificarsi come effetto penale della condanna (giacché in tal caso essa verrebbe meno per effetto dello stesso art. 178 c.p., senza bisogno di una previsione normativa ad hoc).

 

3.2. Per quel che concerne la pretesa illegittimità dell'art. 11 della Legge Severino in quanto norma retroattiva, la Corte esamina separatamente i due diversi concetti di retroattività fatti valere dal giudice a quo.

Secondo i giudici delle leggi, anzitutto, è da escludersi che oggetto del sindacato di costituzionalità nel caso di specie sia la retroattività intesa come applicazione della disciplina a un reato commesso prima dell'entrata in vigore del decreto. Invero - osserva la Consulta -, nonostante nell'ordinanza di rimessione si faccia talora riferimento a tale nozione, il T.A.R. ha omesso di indicare un adatto parametro di costituzionalità, ossia l'art. 25 Cost. D'altro canto, tale profilo avrebbe potuto assumere rilevanza soltanto qualora fosse stata avallata la tesi della natura sanzionatoria della sospensione stessa, che come visto invece è stata scartata.

La principale problematica di carattere temporale attiene, per contro, all'applicazione dell'art. 11 della Legge Severino ad un mandato elettivo già in corso al momento dell'entrata in vigore della nuova causa sospensiva.

Sul punto, in primo luogo, la Corte rigetta la tesi della c.d. costituzionalizzazione del divieto di retroattività elaborata dal giudice amministrativo. Invero, il principio di irretroattività gode di copertura costituzionale soltanto con riferimento alle sanzioni di carattere penale alla luce dell'art. 25, secondo comma Cost.; al di fuori di tale ipotesi, il legislatore è libero di dettare norme con efficacia retroattiva, purché l'esercizio del suo potere discrezionale sia rispettoso dei principi generali di eguaglianza e ragionevolezza.

Sul punto, i giudici rilevano come l'ordinanza di rimessione sia carente sotto il profilo motivazionale, in quanto omette di precisare in qual modo la scelta legislativa compiuta con la Legge Severino si risolva in una irragionevole compressione del diritto di elettorato passivo.

Anzi, proprio su questo profilo la Corte accoglie con favore la disciplina dettata in materia di accesso alle cariche pubbliche, qualificando come pienamente legittima la previsione di istituti che non consentano l'esercizio di funzioni elettive a soggetti nei confronti dei quali sia stata pronunciata una sentenza di condanna, ancorché non definitiva; in quest'ottica, è qualificato come ragionevole il bilanciamento operato dal legislatore tra il diritto di elettorato passivo, la necessità di garantire il buon andamento e l'imparzialità dei pubblici uffici in conformità all'art. 97 Cost. e, infine, il dovere imposto ai cittadini dall'art. 54 Cost. di adempiere alle funzioni pubbliche "con disciplina ed onore".

Nello stesso senso, da ultimo, è ritenuta compatibile con la ratio della sospensione l'applicazione immediata dell'istituto ai mandati elettivi già in corso a fronte di una sentenza anche non definitiva, in ragione della perseguita finalità di tutelare l'integrità e la credibilità della pubblica amministrazione e della natura esclusivamente cautelare delle misure adottate.