ISSN 2039-1676


08 aprile 2011 |

Corte cost., 7 aprile 2011, n. 115, Pres. De Siervo, Rel. Silvestri (ordinanze sindacali in materia di sicurezza urbana)

La Consulta dichiara illegittima la norma che consentiva ordinanze dei sindaci, anche non contingibili e urgenti, in materia di sicurezza urbana

1. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 115 del 2011, ha ritenuto costituzionalmente illegittima la norma che, a partire dal 2008, consentiva al sindaco, quale ufficiale del Governo, di adottare ordinanze, anche non contingibili e urgenti, al fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli per la sicurezza urbana.
 
Si trattava del comma 4 del novellato art. 54 del d.lgs. n. 267 del 2000 (è il vigente Testo unico in materia di enti locali), recante le modifiche deliberate con il primo «pacchetto sicurezza» della legislatura in corso (cioè con il decreto-legge n. 92 del 2008, convertito con modificazioni dalla legge n. 125 del 2008).
 
La disposizione aveva contenuto, fino alla novella, la norma tradizionale che conferiva al sindaco il potere di adottare ordinanze contingibili e urgenti in materia di incolumità pubblica. Un potere affiancato a quello che, riguardo ai prefetti, e sul piano della sicurezza pubblica, è tuttora garantito dall’art. 2 del T.u. delle leggi di pubblica sicurezza. Con le ordinanze contingibili e urgenti l’autorità amministrativa fronteggia situazioni eccezionali e di carattere temporaneo, che non siano fronteggiabili con i mezzi ordinari, e che richiedano finanche deroghe (per loro stessa natura) temporanea alle disposizioni di leggi e regolamenti. Un potere straordinario, legittimato dalla straordinarietà della situazione da fronteggiare, che si estrinseca in provvedimenti ad effetto necessariamente temporaneo. Una risalente giurisprudenza costituzionale aveva chiarito che in nessun caso l’autorità amministrativa può adottare provvedimenti con forza e valore di legge, e dunque capaci di derogare stabilmente alle norme primarie e secondarie. Secondo quella giurisprudenza (formatasi sulle ordinanze prefettizie), i provvedimenti contingibili e urgenti sono legittimi proprio in quanto privi di carattere normativo, derogatori solo in relazione al caso concreto e per il tempo necessario a superare la situazione di contingibilità e urgenza.
 
Nel 2008, il legislatore ha deciso di introdurre un nuovo oggetto di tutela, attraverso l’espressione «sicurezza urbana», recependo concetti fino a quel punto elaborati prevalentemente sul piano sociologico. Si è attribuita ai consociati l’aspettativa che dal disordine sociale e «fisico» nei quartieri delle città non scaturiscano comportamenti lesivi della tranquillità, della vita, del patrimonio delle persone. Non solo dunque la prevenzione dei reati, ma il contrasto alle condizioni urbane che possono favorire la commissione di reati, anche solo nella percezione collettiva dei consociati.
La legge, per inciso, aveva rimesso ad un decreto ministeriale una miglior definizione del nuovo concetto, che poi è venuta, attraverso il decreto del Ministro dell’interno in data 5 agosto 2008, nei termini seguenti: «si intende […] per sicurezza urbana un bene pubblico da tutelare attraverso attività poste a difesa, nell'ambito delle comunità locali, del rispetto delle norme che regolano la vita civile, per migliorare le condizioni di vivibilità nei centri urbani, la convivenza civile e la coesione sociale».
 
Nel contempo, l’assonanza di significato della locuzione «sicurezza urbana» con quella «polizia amministrativa locale», che la lettera h) del primo comma dell’art. 117 Cost. attribuisce alla competenza legislativa regionale, aveva provocato doglianze in punto di pretesa violazione, da parte dello Stato, di attribuzioni rimesse in via esclusiva alle Regioni ed alle Province autonome. Per tale ragione, e sotto questo particolare profilo, la Corte costituzionale aveva già preso in considerazione il nuovo art. 54 del T.u. degli enti locali.
 
Si doveva distinguere, in sostanza, tra gli ambiti materiali. Di qui l’inevitabile accostamento della «sicurezza urbana» alla «sicurezza pubblica», la cui tutela spetta indiscutibilmente allo Stato: «i poteri esercitabili dai Sindaci, ai sensi dei commi 1 e 4 dell'art. 54 del d.lgs. n. 267 del 2000, non possono che essere quelli finalizzati alla attività di prevenzione e repressione dei reati e non i poteri concernenti lo svolgimento di funzioni di polizia amministrativa nelle materie di competenza delle Regioni e delle Province autonome»(sentenza n. 196 del 2009).
 
2. Insomma, ai sindaci era stato affidato il compito di prevenire i reati. Un compito precisato (coi limiti anzidetti) nel fine ma non nei mezzi. E infatti, come risulta da numerosi rilevamenti e studi, i sindaci hanno fatto massiccio ricorso al nuovo potere loro conferito, imponendo divieti ed obblighi riguardo a comportamenti che ciascuno di loro considerava rischiosi per la sicurezza urbana.
 
L’esperienza ha prodotto risultati disparati: dalla duplicazione di divieti già esistenti (come per ordinanze che imponevano di non sfruttare la prostituzione o cedere stupefacenti) alla introduzione di divieti non imposti dalla legge, ma pertinenti a comportamenti considerati «rischiosi».
 
Di qui numerosissimi divieti di «accattonaggio», o norme le più varie studiate «intorno» all’esercizio della prostituzione, o ancora con riferimento ad aggregazioni di persone potenzialmentecapaci di creare disturbo o disordine. Insomma, norme sanzionatorie a tempo indeterminato e su base territoriale ristretta, capaci di trasformare in illecito (se non addirittura in reato, ex art. 650 c.p.) comportamenti altrimenti leciti, e capaci in potenza di limitare libertà fondamentali (come quella di circolazione, di riunione in luogo pubblico, ecc.).
 
Sullo sfondo, specie riguardo alla mendicità ed alla creazione di accampamenti (ma anche, e per esempio, con riferimento a «cibi etnici», ecc.), anche inevitabili tensioni con il divieto di discriminazione su base razziale od etnica.
 
3. Il novellato art. 54 è stato censurato dal T.a.r. del Veneto, innanzi al quale un’associazione antirazzista aveva impugnato un’ordinanza sindacale che vietava di chiedere l’elemosina in qualunque porzione frequentata del territorio comunale, disponeva la confisca delle somme eventualmente donate, e limitava per i contravventori la facoltà di accesso al pagamento in misura ridotta. La norma è stata censurata alla luce di innumerevoli parametri costituzionali, sul presupposto tra l’altro che consentisse ai sindaci di derogare a leggi e regolamenti, anche in situazioni né contingibili né urgenti, con carattere di stabilità. Conviene comunque rinviare, per una sintesi delle censure, alla pertinente porzione della sentenza qui pubblicata.
 
La Corte costituzionale, elidendo la locuzione «, anche», che il legislatore della riforma aveva anteposto all’espressione «contingibili e urgenti» nel definire le ordinanze di competenza sindacale in materia di sicurezza urbana e incolumità pubblica, ha sostanzialmente riportato sul piano esclusivo della contingibilità e dell’urgenza i poteri del sindaco, che restano estesi alla sicurezza urbana, ma che dovranno appunto limitarsi alle ipotesi di situazioni straordinarie e limitate nel tempo. Non più dunque ordinanze «normative» con effetti di carattere generale ed a tempo indeterminato.
 
4. Il ragionamento della Corte è complesso, e deve essere conosciuto attraverso la lettura diretta del provvedimento. A livello di sintesi può dirsi come sia stata individuata una violazione del principio di legalità sostanziale, in forza del quale l’attività dell’amministrazione, quando investe direttamente lo spazio di libertà dei consociati, deve essere determinata dalla legge nei mezzi e nei contenuti, oltre che nei fini.
 
È vero – ha osservato la Corte – che (contrariamente a quanto ritenuto da molti interpreti e dallo stesso rimettente) la norma censurata non consentiva affatto di derogare a leggi e regolamenti, fuori dai casi di contingibilità e urgenza. Per questa ragione le censure fondate sul presupposto contrario sono state ritenute infondate. È vero anche, e tuttavia, che solo la legge può consentire al potere pubblico di incidere «sulla sfera generale di libertà dei singoli e delle comunità amministrate, ponendo prescrizioni di comportamento, divieti obblighi di fare e di non fare».
 
Il principio enunciato trova fondamento anzitutto nella riserva di legge, pur relativa, che si trova nell’art. 23 della Costituzione, secondo cui nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge. Per la prima volta la Consulta enuncia espressamente l’assunto che anche gli obblighi di non fare costituiscono una «prestazione personale», con la conseguenza che i divieti possono essere imposti solo «in base alla legge». Il che non vuol dire (come per i divieti penalmente sanzionati) che la legge deve dettare puntualmente la regola di comportamento. Vuol dire, però, che i consociati «sono tenuti, secondo un principio supremo dello Stato di diritto, a sottostare soltanto agli obblighi di fare, di non fare e di dare previsti in via generale dalla legge»: cioè, ad un provvedimento assunto in base alla rappresentanza politica e democratica, «ancorché non dettagliato». La discrezionalità amministrativa, quando attiene alla sfera di libertà dei consociati, deve trovare nella legge puntuali criteri di delimitazione.
 
La Corte ha riscontrato che, nel caso di specie, nessuna delimitazione era posta dalla legge. Le specificazioni contenute nel già citato decreto ministeriale del 5 agosto 2008, a prescindere dalla loro idoneità, sono comunque il frutto di esercizio della discrezionalità «interna» alla pubblica amministrazione, e non un limite all’esercizio di tale discrezionalità nei rapporti coi cittadini.
 
Nella situazione descritta, d’altra parte, la Corte ha ravvisato la violazione concomitante della riserva di legge posta all’art. 97, primo comma, della Costituzione, ove la riserva stessa vale a garantire che gli uffici siano organizzati in guisada assicurare, tra l’altro, la imparzialità dell’amministrazione. Nel caso di specie – si osserva - «l’imparzialità dell’amministrazione non è garantita ab initio da una legge posta a fondamento, formale e contenutistico, del potere sindacale di ordinanza. L’assenza di limiti, che non siano genericamente finalistici, non consente pertanto che l’imparzialità dell’agire amministrativo trovi, in via generale e preventiva, fondamento effettivo, ancorché non dettagliato, nella legge».
 
Saranno chiare, a questo punto, anche le ragioni del ravvisato contrasto con l’art. 3 della Costituzione, dato che la disparità di trattamento introdotta su ristrettissima base territoriale non può essere misurata nella sua ragionevolezza in base ad alcun parametro legislativo.