ISSN 2039-1676


13 febbraio 2017 |

Cronaca di una incostituzionalità annunciata

Nota a C. Cost., sent. 7 dicembre 2016 (dep. 26 gennaio 2017), n. 21, Pres. Grossi, Rel. Lattanzi

Contributo pubblicato nel Fascicolo 2/2017

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1. Con una sentenza da tempo attesa, la Consulta torna a pronunciarsi sull’art. 197-bis c.p.p., dichiarando l’illegittimità costituzionale, per contrasto con l’art. 3 Cost., dei commi 3 e 6, nella parte in cui si prevedeva la garanzia dell’assistenza del difensore e la necessità di riscontri nella valutazione delle dichiarazioni eteroaccusatorie rese dai coimputati o da imputati in procedimenti connessi o collegati ex art. 371 comma 2 lett. b c.p.p. (secondo il meccanismo fissato dall’art. 192 comma 3 c.p.p.) anche qualora si fosse trattato di soggetti definitivamente assolti “perché il fatto non sussiste”[1]. Ad avviso del giudice delle leggi, in altre parole, il passaggio in giudicato di una sentenza che escluda l’esistenza del fatto di reato comporta - per colui che ne sia destinatario - il recupero dello status precedente al coinvolgimento nell’accertamento penale, con la conseguenza che non vi è più ragione per cui tale soggetto debba essere sentito, sulla responsabilità altrui, alla presenza di un avvocato, né vi è motivo di dubitare dell’attendibilità del racconto, tanto da rendere doverosa una ricerca di elementi di riscontro.

Con la decisione in discorso, la Corte costituzionale colma il gap che si era venuto a creare all’indomani della pronuncia della sentenza n. 381 del 2006, con la quale era pervenuta alla medesima conclusione di incostituzionalità con riferimento però ai destinatari di una sentenza di assoluzione “per non aver commesso il fatto”[2]. E lo fa, come vedremo, proprio impiegando i medesimi argomenti. La pronuncia del 2006 aveva determinato un disallineamento degli assolti “per non aver commesso il fatto” rispetto agli assolti “perché il fatto non sussiste”, nonostante si trattasse, in entrambi i casi, di decisioni che negavano il presupposto storico dell’accusa. Non potendosi, chiaramente, estendere la dichiarazione di incostituzionalità ad ipotesi diverse rispetto a quelle per le quali la Consulta si era pronunciata, sino ad oggi a coloro che risultassero assolti “perché il fatto non sussiste” andava applicato l’art. 197-bis c.p.p. nella sua integralità: dunque veniva loro garantita l’assistenza del difensore nel corso dell’audizione, e gli esiti di quest’ultima avrebbero dovuto essere valutati insieme ad ulteriori elementi di prova che ne confermassero l’attendibilità.

 

2. Al fine di meglio circoscrivere la vicenda e di apprezzarne le possibili implicazioni, si rende necessario un sia pur sommario richiamo al contesto di riferimento. È sin troppo noto che la l. 1 marzo 2001, n. 63, ha inciso significativamente sui casi di incompatibilità a testimoniare dell’imputato narrante erga alios previsti dall’art. 197 c.p.p.: l’incompatibilità infatti viene meno per i coimputati del medesimo reato e per le persone imputate in un procedimento connesso ai sensi dell’art. 12 comma 1 lett. a c.p.p., nei cui confronti sia intervenuta una sentenza irrevocabile di proscioglimento, condanna o patteggiamento. Anche prima della pronuncia di questa tipologia di provvedimenti, l’incompatibilità a testimoniare è destinata a cadere per gli imputati in procedimento connesso ai sensi dell’art. 12 comma 1 lett. c c.p.p. o in caso di un reato collegato ex art. 371 comma 2 lett. b c.p.p. se, avvisati delle conseguenze processuali che ne potrebbero derivare (art. 64 comma 3 c.p.p.) abbiano deciso di rispondere sulla responsabilità di altri.

Mentre gli imputati incompatibili a testimoniare continuano ad essere esaminati con le forme e le regole dell’art. 210 c.p.p., per quelli per i quali l’incompatibilità a testimoniare sia caduta, si devono osservare le garanzie fissate dall’art. 197-bis c.p.p., col quale, di fatto, è stata introdotta una figura di dichiarante a metà strada tra quella delineata dall’art. 210 c.p.p. e il testimone: come per la prima, si assicura la presenza del difensore durante l’esame e si richiede che le dichiarazioni vengano attentamente scrutinate per il tramite di elementi di riscontro. Come per il secondo, si prevede l’obbligo di testimoniare - essendo l’incompatibilità venuta meno - ma con dei limiti alle domande che possono essere poste (in modo da evitare o escludere quelle che potrebbero tradursi in un’autoincriminazione) e con la previsione dell’inutilizzabilità delle dichiarazioni contra se eventualmente rese, qualora il filtro precedente non abbia funzionato.

Ebbene, a distanza di qualche anno dalla riforma, la Consulta era stata chiamata a vagliare la costituzionalità dell’art. 197-bis c.p.p. rispetto all’art. 3 Cost., verificando se fosse legittimo che le dichiarazioni rese dal coimputato o dall’imputato in procedimento connesso o collegato che avesse patteggiato e la cui sentenza fosse divenuta irrevocabile andassero valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermassero l’attendibilità[3]. Per la verità, già in precedenza la Corte era stata ripetutamente interpellata, ma per estendere, non già per limitare, l’applicabilità dell’art. 197-bis c.p.p.: in quei casi si domandava di accertare se il trattamento previsto per il teste assistito potesse riguardare anche i destinatari di una sentenza di non luogo a procedere o di un provvedimento di archiviazione, a rigore incompatibili a testimoniare in quanto il provvedimento di archiviazione e la sentenza di non luogo a procedere non rientravano tra quelli contemplati dall’art. 197 c.p.p., in presenza dei quali l’incompatibilità poteva cadere. In entrambi i casi, la Consulta aveva dichiarato la manifesta inammissibilità delle questioni[4].

Nella sentenza con cui si verificava quale dovesse essere lo statuto da riconoscere al destinatario di una sentenza di patteggiamento irrevocabile, si era invece osservato come il legislatore del 2001 avesse introdotto sulla scena processuale una variegata tipologia di dichiaranti in base ai differenti «“stati di relazione” rispetto ai fatti oggetto del procedimento, secondo una graduazione che, partendo dalla situazione di assoluta indifferenza propria del teste ordinario, giunge fino alla forma “estrema” di coinvolgimento, rappresentata dal dichiarante nel medesimo reato». A seconda dello “stato di relazione”, il legislatore aveva fatto corrispondere determinate modalità di dichiarazione ed effetti del dichiarato. Ebbene, ad avviso della Corte costituzionale, colui che avesse patteggiato con sentenza passata in giudicato, pur perdendo l’incompatibilità a testimoniare, non poteva essere parificato ad un teste qualunque, dal momento che «l’originario coinvolgimento nel fatto lascia infatti residuare un margine di “contiguità” rispetto al procedimento». Tale residuale vicinanza non poteva che tradursi in una più limitata valenza probatoria delle dichiarazioni e, dunque, la questione di legittimità costituzionale sollevata rispetto al comma 6 dell’art. 197-bis c.p.p. non poteva che essere dichiarata manifestamente infondata.

 

3. Va detto che quando nel 2001 il legislatore era intervenuto, alcuni commentatori avevano giustamente osservato come di fatto, in nome dell’attuazione del principio del contraddittorio, si stesse producendo un grave vulnus per il diritto al silenzio dell’imputato, obbligando a testimoniare soggetti ai quali si sarebbe dovuta invece garantire l’incompatibilità[5]. Tuttavia, probabilmente perché l’attenzione era soprattutto rivolta a pesare gli effetti della riforma rispetto alla tenuta del diritto al silenzio, non aveva suscitato particolare interesse la scelta normativa di sottoporre anche l’imputato definitivamente assolto alle garanzie previste dall’art. 197-bis c.p.p., nonostante che prima della riforma e sino a quel momento colui che fosse uscito dal processo con una sentenza irrevocabile di proscioglimento fosse trattato come un teste qualunque. Come si ricorderà, infatti, secondo la versione originaria del codice del 1988 non potevano essere assunti come testimoni i coimputati del medesimo reato o le persone imputate in un procedimento connesso, anche se nei loro confronti fosse stata pronunciata una sentenza di non luogo a procedere, di proscioglimento o di condanna, salvo che la sentenza di proscioglimento fosse divenuta irrevocabile. Con la conseguenza che, come si è detto, in base alla prima formulazione dell’art. 187 c.p.p., il definitivamente prosciolto era trattato come un qualunque teste. D’altra parte sotto questo profilo vi era continuità con il codice di rito del 1930, che con l’art. 348 comma 3 vietava l’assunzione, quali testimoni, degli imputati dello stesso reato o di un reato connesso, anche se prosciolti o condannati, salvo che il proscioglimento fosse stato «pronunciato in giudizio per non aver commesso il fatto o perché il fatto non sussiste».

Nel 2001, invece, si era deciso che anche il destinatario di una sentenza ampiamente liberatoria non andasse parificato ad un semplice testimone e meritasse le garanzie previste per il testimone assistito. Quando, però, nel 2006 la Consulta è stata nuovamente adita rispetto all’art. 197-bis c.p.p., impiegando quegli stessi argomenti che nel 2004 avevano condotto alla declaratoria di non fondatezza della questione di legittimità con riguardo alla sentenza di patteggiamento irrevocabile  ha dichiarato illegittimo l’art. 197-bis c.p.p., in riferimento all’art. 3 Cost., nella parte in cui prevedeva l’assistenza difensiva e l’applicazione del criterio di cui all’art. 192 comma 3 c.p.p. anche ai destinatari di una sentenza di assoluzione irrevocabile «per non aver commesso il fatto»[6]. Quella contiguità rispetto al procedimento che la Corte aveva riconosciuto nell’ipotesi dell’imputato uscito definitivamente dalla scena processuale con una sentenza di patteggiamento, non sarebbe stata ravvisabile in caso di pronuncia di una sentenza di assoluzione che avesse negato la riconducibilità all’imputato del reato. Questo genere di pronuncia, infatti, traducendosi in una restituito in integrum, non poteva che determinare per l’imputato un totale recupero della sua terzietà rispetto al fatto. Il che rendeva irragionevole l’applicazione della regola di cui all’art. 192 comma 3 c.p.p., che si spiega per la diffidenza nutrita dall’ordinamento nei confronti del dichiarante direttamente e attualmente coinvolto nei fatti oggetto di accertamento. Tale coinvolgimento, secondo la Corte Costituzionale, manca appunto nel caso di imputato assolto per non aver commesso il fatto considerata l’assoluta indifferenza, seppur sopravvenuta, rispetto alla vicenda oggetto di giudizio[7].

Dopo la decisione del 2006, ci si interrogava su cosa sarebbe avvenuto rispetto agli imputati assolti con formule diverse: chiaramente, come si è già in precedenza evidenziato, in assenza di un intervento riformatore del legislatore o di una declaratoria di illegittimità costituzionale, l’art. 197-bis c.p.p. andava applicato nella sua integralità. La nuova sentenza rimette in equilibrio il sistema, con una decisione che si basa, ripercorrendoli, sui medesimi argomenti che la Consulta ha impiegato nel 2006: non valorizzare i differenti “stati di relazione” rispetto ai fatti oggetto del procedimento e trattare coloro che siano stati assolti in modo definitivo come tutti gli altri destinatari delle regole fissate dall’art. 197-bis c.p.p. sarebbe irragionevole e in contrasto con il principio di uguaglianza. Non solo: osserva giustamente da ultimo la Corte che la sentenza di illegittimità costituzionale del 2006 era fonte di un nuovo contrasto con l’art. 3 Cost. «perché differenziando il regime e il valore probatorio delle dichiarazioni dell’imputato in un procedimento connesso o collegato, a seconda che l’assoluzione sia stata pronunciata per non aver commesso il fatto o perché il fatto non sussiste, ha determinato una nuova ingiustificata disparità di trattamento, alla quale ora può porsi riparo», garantendo, in altre parole, in questi due casi, l’applicazione delle medesime regole.

 

4. Rimangono però due questioni. La prima: tanto nel 2006, quanto oggi, la Corte costituzionale ha determinato l’inapplicabilità delle regole fissate nell’art. 197-bis c.p.p. solo per quel che attiene all’assistenza difensiva e alla richiesta di riscontri nella valutazione delle dichiarazioni. Per il resto, la norma continua ad essere applicabile anche ai definitivamente assolti “perché il fatto non sussiste” o “per non aver commesso il fatto”. Il riferimento è al comma 5 dell’art. 197-bis c.p.p. che, com’è noto, stabilisce l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dal testimone assistito contra se «nel procedimento a suo carico, nel procedimento di revisione della sentenza di condanna ed in qualsiasi giudizio civile o amministrativo relativo al fatto oggetto dei procedimenti o delle sentenze suddetti». Ora, è ovvio che un problema di impiego delle dichiarazioni dei definitivamente assolti non si pone rispetto ad un procedimento penale per il medesimo fatto perché vi osterebbe lo sbarramento rappresentato dal principio del ne bis in idem. Né si porrebbe il problema di impiegare quelle dichiarazioni in un eventuale procedimento di revisione, considerato che questo rimedio non è previsto quando ci si trovi di fronte ad una sentenza di assoluzione. Indubbiamente, però, la clausola di salvaguardia del comma 5 torna utile nella parte in cui esclude che le dichiarazioni possano essere utilizzate in qualsivoglia giudizio civile o amministrativo: per esempio, nel giudizio civile instaurato per ottenere il risarcimento in conseguenza del reato e promosso dal danneggiato che non si sia costituito parte civile o che non sia stato messo nelle condizioni per poterlo fare; o ancora qualora venga esercitata un’azione civile diversa da quella di danno, o nel giudizio amministrativo-contabile[8].

Posto, dunque, che è condivisibile che in parte qua la disciplina della testimonianza assistita rimanga applicabile anche a chi sia stato assolto con le formule più ampiamente liberatorie, ci si può interrogare su quale sarà la sorte dei destinatari di sentenze di assoluzione pronunciate “perché il fatto non costituisce reato” o “non è previsto dalla legge come reato” o “è stato commesso da persona non imputabile o non punibile per un’altra ragione” o, più in generale, di coloro che siano stati definitivamente prosciolti per qualsiasi causa.

Abbiamo osservato come, nella versione originaria del codice del 1988, colui che fosse stato prosciolto con sentenza passata in giudicato fosse trattato come un teste qualunque, indipendentemente dalla formula di assoluzione o, più in generale, dalla causa del proscioglimento; viceversa, nel codice del 1930 solo chi fosse stato assolto “perché il fatto non sussiste” o “per non aver commesso il fatto” diveniva compatibile a testimoniare. Cosa ci si può attendere dunque? Non è escluso che, qualora dovesse essere nuovamente adito, il giudice delle leggi possa dichiarare l’incostituzionalità dell’art. 197-bis c.p.p. commi 3 e 6 anche con riguardo ad altre cause di assoluzione (per i casi di proscioglimento in rito è invece lecito nutrire qualche riserva).

Non è però da sottovalutare che le decisioni sinora assunte hanno valorizzato la circostanza che l’esclusione del nucleo storico dell’accusa (che si ha quando si assolve per insussistenza del fatto o per non riconducibilità di esso all’imputato) fa venir meno, per l’imputato, la relazione con il fatto oggetto di reato. La Corte, pertanto, potrebbe rilevare che ciò non accade negli altri casi di assoluzione, per i quali sarebbe implicito che il fatto si sia verificato e che, nel suo elemento oggettivo, sia stato commesso dall’imputato[9]. In quest’ottica, la conclusione non potrebbe che essere diversa rispetto a quella odierna, secondo la stessa ratio ispiratrice dell’art. 348 c.p.p. abrogato, non a caso menzionato nell’ultima sentenza.

C’è poi una terza strada: e cioè che sia il legislatore, qualora dovesse ritenere non soddisfacente l’attuale assetto normativo, ad assumersi la responsabilità del suo ruolo decidendo di riformare l’art.197-bis c.p.p., escludendo l’applicazione dei commi 3 e 6 - o magari anche del comma 5 - per alcuni o per tutti i destinatari di una sentenza di assoluzione (o, più in generale, di proscioglimento). Tra le varie opzioni, questa pare però la meno concreta, vista l’ormai consueta riluttanza del Parlamento ad intervenire tempestivamente su questi temi, anche quando sarebbe più necessario.

 

[1] Va detto che la Corte dichiara l’incostituzionalità del comma 3 (che prescrive l’assistenza del difensore), pur avendo ritenuto la questione inammissibile perché priva di rilevanza (in quanto nel caso di specie il dichiarante era stato comunque sentito alla presenza del suo avvocato). Ciò in applicazione dell’art. 27 l. 11 marzo 1953, n. 87, per il quale la Corte, nell’accogliere una questione di illegittimità costituzionale - nell’ipotesi in esame, quella relativa all’art. 197-bis comma 6 c.p.p. - «dichiara, altresì, quali sono le altre disposizioni legislative, la cui illegittimità deriva come conseguenza della decisione adottata».

[2] Corte cost., sent. n. 381 dell’11 novembre 2006, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007, p. 301 ss.

[3] Corte cost., ord. n. 265 del 22 luglio 2004, in Giur. cost., 2004, p. 2704.

[4] C. cost., ord. n. 451 del 12 novembre 2002, secondo cui «è manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 197 comma 1 lett. b e 197-bis comma 1 c.p.p., sollevata in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 112 Cost., nella parte in cui prevedono che il soggetto, già imputato di un reato probatoriamente collegato a norma dell’art. 371 comma 2 lett. b c.p.p. possa essere sentito come testimone soltanto dopo che nei suoi confronti è stata pronunciata sentenza irrevocabile di proscioglimento, di condanna o di applicazione della pena, e non anche quando nei suoi confronti è stata pronunciata in udienza preliminare sentenza di non luogo a procedere per mancanza di querela». In senso analogo, C. cost., ord. n. 76 del 27 marzo 2003, che ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 197-bis comma 1 c.p.p., sollevata in riferimento all’art. 3 Cost., nella parte in cui non prevede che anche le persone indagate in un procedimento connesso ai sensi dell’art. 12 c.p.p., o di un reato collegato a norma dell’art. 371 comma 2 lett. b c.p.p., possano essere sempre sentite come testimoni - con le garanzie di cui ai commi 3, 4, 5 e 6 della citata norma - quando nei loro confronti è stato pronunciato provvedimento di archiviazione ai sensi dell’art. 411 c.p.p.; nonché dell’art. 197-bis comma 5 c.p.p. nella parte in cui non prevede la inutilizzabilità delle dichiarazioni rese da tali persone contro se stesse nel procedimento conseguente alla eventuale riapertura delle indagini. V. comunque Sez. un., 17 dicembre 2009, n. 12067, De Simone ed altro, in Cass. pen., 2010, p. 2583, secondo cui «non sussiste incompatibilità ad assumere l’ufficio di testimone per la persona già indagata in procedimento connesso ai sensi dell’art. 12 comma 1 lett. c c.p.p. o per reato probatoriamente collegato, definito con provvedimento di archiviazione»: il mancato esercizio dell’azione penale, infatti, determinando il recupero di quella condizione di terzietà precedente al coinvolgimento nell’accertamento, comporta che l’archiviato possa essere sentito come testimone. Con la stessa decisione, la Corte di cassazione ha però osservato come a diverso trattamento vada sottoposto il destinatario di una sentenza di non luogo a procedere, per il quale permane l’incompatibilità a testimoniare: il fatto che vi sia stata formulazione di un’imputazione e che la sentenza possa essere revocata giustifica il diverso trattamento rispetto all’archiviato.  

[5] Per tutti, v. G. Illuminati, L’imputato che diventa testimone, in Ind. pen., 2002, p. 380 s.

[6]  Corte Costituzionale, sent. n. 381 dell’11 novembre 2006, in Cass. pen., 2007, p. 486, con nota di M.L. Di Bitonto, La Corte Costituzionale riapre il dibattito sulla testimonianza assistita; sempre a commento della sentenza è possibile leggere i contributi di E.M. Catalano, I confini della testimonianza assistita nel prisma del sindacato di ragionevolezza, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007, p. 307 s.; C. Conti, Imputato assolto per non aver commesso il fatto: deve essere equiparato al testimone comune, in Dir. pen. proc., 2007, p. 318 s.; G. Frigo, Operazione di maquillage costituzionale sulla figura del «testimone assistito», in Guida al dir., 2006, n. 46, p. 75 s.; C. Santoriello, Persona definitivamente assolta per non aver commesso il fatto e recupero della piena capacità a testimoniare, in Giust. pen., 2007, I, c. 45 s. Dopo questa decisione, la giurisprudenza di legittimità ha concluso che «una volta dichiarata, con sentenza n. 381 del 2006 della Corte costituzionale, l’illegittimità costituzionale dei commi terzo e sesto dell’art. 197-bis c.p.p. nella parte in cui, rispettivamente, prevedono l’assistenza del difensore e l’applicazione dell’art. 192 comma 3 c.p.p., anche per le dichiarazioni rese da persona imputata in un procedimento connesso o collegato che sia stata assolta con sentenza irrevocabile dai reati ascrittile per non aver commesso il fatto, nel giudizio di rinvio a seguito di annullamento della Corte di cassazione, la posizione di tale persona, stante l’efficacia retroattiva delle sentenze di incostituzionalità, viene ad essere assimilata a quella di un comune testimone, con conseguente inapplicabilità delle speciali regole di valutazione della prova di cui al citato art. 192 comma 3 c.p.p., già applicate nel precedente giudizio di merito (Cass., sez. VI, 13 marzo 2007, n. 11599, P.G. e P.C. in proc. Pelaggi, in Ced Cass. n. 236152; nello stesso senso, più di recente, Cass., sez. II, 16 febbraio 2009, n. 21599, Emmanuello ed altri, ivi, n. 244542).

[7] In dottrina sono state espresse forti perplessità riguardo alla decisione di incostituzionalità, rilevando come la Consulta si fosse di fatto, ancora una volta, e facendo sempre ricorso al criterio di ragionevolezza, sostituita al legislatore, come già era accaduto all’indomani dell’introduzione del codice di rito. Così E.M. Catalano, I confini della testimonianza assistita nel prisma del sindacato di ragionevolezza, cit., p. 320. Per la verità, non era messa tanto in discussione la conclusione cui la Corte costituzionale era pervenuta: era plausibile che le persone assolte per non aver commesso il fatto potessero essere assimilate ai testimoni. Non si sarebbe, però, trattato di una conclusione costituzionalmente necessaria dal momento che, per esempio, il destinatario di una pronuncia di assoluzione per non aver commesso il fatto non sarebbe per definizione un soggetto nei cui confronti sia stata accertata in maniera incontrovertibile l’estraneità rispetto ai fatti, non fosse altro perché la sentenza di assoluzione va pronunciata anche a fronte di un quadro probatorio insufficiente o contraddittorio. Questo avrebbe reso, pertanto, opportuna una verifica più prudente delle dichiarazioni accusatorie rese. In questo senso, M.L. Di Bitonto, La Corte Costituzionale riapre il dibattito, cit., p. 494 ss. Pur essendo comprensibile la ratio di questa analisi, che si propone di tutelare l’imputato raggiunto da dichiarazioni accusatorie rese dall’assolto, va detto che questo tipo di approccio si presta a possibili strumentalizzazioni e potrebbe giustificare prese di posizione contrarie ai principi costituzionali - tornate di moda negli ultimi tempi - secondo cui l’assolto è un colpevole che non si è riusciti a condannare e che va guardato con sospetto anche dopo che la decisione è passata in giudicato. E invece, se è intervenuta una sentenza di assoluzione irrevocabile, l’imputato recupera quella verginità che la sottoposizione a processo ha messo in discussione. D’altra parte, sarebbe forse il caso di smitizzare la reale portata della regola del necessario riscontro, considerato che come è stato autorevolmente sostenuto, se si vuole «elementi di riscontro se ne trovano sempre». Così P. Ferrua, Il giudizio penale: fatto e valore giuridico, in Aa. Vv., La prova nel dibattimento penale, IV ed., Giappichelli, 2010, p. 364. In maniera altrettanto incisiva, F. Cordero, Procedura penale, IX ed., Giuffrè, 2012, p. 624, osservava come «dove il narrante sia creduto, le conferme non mancano mai; sono miriadi i possibili indizi e ne basta anche uno remoto; non vigono soglie minime, né avrebbe senso imporle, sicché i giudici hanno le mani libere». Probabilmente il richiamo della regola contenuta nell’art. 192 comma 3 c.p.p. nella disciplina della testimonianza assistita era soprattutto l’effetto della cattiva coscienza del legislatore che ben sapeva che il teste assistito al testimone comune assomigliava poco. Per maggiori approfondimenti al riguardo v., volendo, R.A. Ruggiero, L’attendibilità delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia nella chiamata in correità, Giappichelli, 2012, p. 83 ss..

[8] Cfr. C. Conti, Imputato assolto per non aver commesso il fatto, cit., p. 321; M.L. Di Bitonto, La Corte Costituzionale riapre il dibattito, cit., p. 498.

[9] Già all’indomani della sentenza n. 381 del 2006, esprimeva queste perplessità C. Conti, Imputato assolto per non aver commesso il fatto, cit., p. 323.