ISSN 2039-1676


02 maggio 2017 |

Le Sezioni Unite sui conflitti di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice militare

Nota a Cass., SSUU, sent. 23 giugno 2016 (dep. 14 aprile 2017), n. 18621, Pres. Canzio, Rel. Paoloni, Ric. Zimarmani

Contributo pubblicato nel Fascicolo 5/2017

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1. Con la sentenza qui in commento, le Sezioni unite hanno delineato essenzialmente due principi, per altro abbastanza scontati.

In primo luogo si è affermato che, nella udienza in camera di consiglio davanti alla Corte di cassazione, regolatrice del conflitto di giurisdizione instaurato tra il giudice ordinario e il giudice militare, è legittimato a partecipare esclusivamente il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di cassazione.

In secondo luogo si è stabilito: allorché per il medesimo fatto, nel quale siano ravvisabili diverse violazioni della legge penale, vengano avviati distinti procedimenti dinanzi al giudice ordinario e a quello militare, la giurisdizione appartiene al giudice ordinario quando le imputazioni contestate nel relativo procedimento risultino più gravi secondo il criterio stabilito dall’art. 16, comma 3, c.p.p., a nulla rilevando che nel procedimento militare si potessero contestare reati di maggiore gravità, qualora la contestazione in concreto non abbia avuto luogo per tempo.

 

2. Conviene andare con ordine. La prima sezione penale della Corte di cassazione, investita ratione materiae della risoluzione di un conflitto positivo di giurisdizione insorto tra un giudice ordinario e un giudice militare in ordine a un fatto identico per il quale pendono due distinti processi, rimette la decisione alle Sezioni unite ex art. 618 c.p.p.

Due i temi sui quali si sofferma il più alto Collegio, a ciò specificamente sollecitato dall’ordinanza di rimessione[1].

Il primo è quello concernente l’individuazione dell’ufficio requirente per i casi di conflitto di giurisdizione in cui venga in rilievo la natura comune o militare della fattispecie criminosa: la soluzione, nonostante l’assenza di una previsione esplicita a favore del magistrato ordinario, non risulta aver dato luogo a decisioni difformi nella prassi giurisprudenziale, messa in dubbio solo dalla sezione rimettente.

Per la quale, poi, il secondo tema riguarda la possibilità – considerato che nella vicenda oggetto di esame, a fronte di un fatto storico descritto, nei due giudizi di merito, in termini identici, non risultano sovrapponibili le imputazioni contestate in quello ordinario e in quello militare (artt. 336 e 266 c.p. nel primo; artt. 47 n. 2 e 146 c.p.m.p. nel secondo) – che l’esito del giudizio sul conflitto di giurisdizione tra i due giudici, procedenti entrambi in grado di appello, conduca, e, in caso affermativo, con quale effetto nel giudizio di merito, all’esclusione di uno dei reati, ritenuto in primo grado con la già affermata responsabilità penale dell’imputato da parte del giudice ordinario. Per questa seconda questione la sezione rimettente evoca non univoche interpretazioni in giurisprudenza.

L’ufficio del massimario, però, nel predisporre l’apposita scheda, si sofferma solo sul primo tema, sintetizzandolo nei seguenti termini: se alla udienza partecipata davanti alla Corte di cassazione, regolatrice del conflitto di giurisdizione instaurato fra il giudice ordinario e quello militare, sia legittimato a partecipare, in qualità di pubblico ministero, il Procuratore generale presso la Corte di cassazione o il Procuratore generale militare, ovvero entrambi. Nessun riferimento ritiene di fare al secondo problema.

Idem nell’informazione provvisoria diramata dalle Sezioni unite subito dopo l’udienza[2].

 

3. Con riferimento al primo tema, il dissenso della sezione rimettente rispetto all’orientamento, da essa ritenuto incontrastato, che vuole legittimato alla partecipazione all’udienza camerale per la risoluzione dei conflitti di giurisdizione il solo Procuratore generale (ordinario), appare sorretto da ragioni non irresistibili.

In primo luogo sembra petizione di principio l’affermazione per cui “è certamente da escludere che, in generale, sia enucleabile la regula iuris dell’intervento esclusivo del Procuratore generale (ordinario) della Repubblica nei procedimenti innanzi la Corte suprema di cassazione quando delibera nell’esercizio della speciale funzione istituzionale di corte regolatrice dei conflitti di giurisdizione e di competenza”.

Difatti, l’ordinanza non prospetta ragioni testuali o sistematiche in tal senso, né l’evocazione dei casi di pacifica legittimazione del Procuratore generale militare della Repubblica a intervenire in camera di consiglio per la trattazione dei conflitti di competenza tra giudici militari potrebbe rilevare nel diverso caso – qui ricorrente – di conflitto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice militare.

Né, ancora, la presenza presso la Corte suprema di cassazione di due distinti e autonomi uffici del pubblico ministero (ordinario e militare) potrebbe costituire, da sola, motivo per ritenere “non … confortata da alcuna giustificazione plausibile e razionale l’esclusione dell’intervento del Procuratore generale militare della Repubblica ‘costituito’ presso la Corte stessa nella udienza camerale partecipata fissata per il regolamento del conflitto positivo di giurisdizione promosso dal giudice militare”.

Si può, poi, discutere se la presa di distanza del collegio dall’indirizzo univoco della giurisprudenza di legittimità sia idonea a determinare l’insorgenza di un contrasto tale da giustificare la rimessione ex art. 618 c.p.p. con la conseguente assegnazione del ricorso alle Sezioni unite[3]: tema sul quale ci si soffermerà brevemente in seguito.

 

4. Ma veniamo senz’altro alla fattispecie esaminata.

Secondo la descrizione che ne dà la sentenza in rassegna (non del tutto identica, ma per dettagli irrilevanti, quella dell’ordinanza di rimessione), nella notte del 21 giugno 2013, in Caltanissetta, un maresciallo dei Carabinieri si reca in automobile nel luogo in cui un conoscente, da lui informato per telefono, è stato fermato da una pattuglia dell’Arma mentre è al volante della sua autovettura per sospetta guida in stato di ebbrezza e conseguente sottoposizione all’alcoltest. Giunto sul posto, il maresciallo, lamentatosi con il brigadiere capopattuglia per il rifiuto, da quest’ultimo opposto, di interloquire poco prima al telefono con lui, ripetutamente sollecita, con frasi intimidatorie e toni perentori e di scherno, in luogo pubblico e alla presenza di più persone, l’interruzione del controllo di polizia giudiziaria nei confronti del suo conoscente e, quindi, l’attività d’istituto cui stanno legittimamente procedendo il predetto brigadiere ed un appuntato.

Il rapporto dell’accaduto viene simultaneamente inviato dal nucleo operativo dei Carabinieri sia alla Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Caltanissetta, sia alla Procura presso il Tribunale militare di Napoli.

Le imputazioni contestate dall’autorità giudiziaria nissena sono riferite agli artt. 81, 336 e 266, commi 1, 2 e 4, c.p. (minaccia a pubblico ufficiale, in concorso con istigazione di militare a disobbedire alle leggi, aggravata dalla commissione avvenuta pubblicamente); la contestazione elevata dal p.m. militare riguarda solo gli artt. 146 e 47 n. 2 c.p.m.p. (minaccia a un inferiore per costringerlo a fare un atto contrario ai propri doveri, con l’aggravante del grado rivestito), pur non essendo sconosciuta al codice penale militare di pace una previsione analoga a quella dell’art. 266 c.p. (secondo l’art. 213, comma 1, “il militare, che commette alcuno dei fatti d’istigazione o di apologia indicati nell’articolo 266 del codice penale, verso militari in servizio alle armi o in congedo, soggiace alle pene ivi stabilite, aumentate da un sesto a un terzo”).

Con sentenza del 3 giugno 2014 il Tribunale militare di Napoli, previa concessione di attenuanti generiche prevalenti sull’aggravante, condanna l’imputato alla pena, condizionalmente sospesa, di quattro mesi di reclusione militare (ed è pena minima, prevedendo l’art. 146 c.p.m.p. una pena detentiva edittale da sei mesi a tre anni).

Con una successiva sentenza del 29 gennaio 2015 il giudice dell’udienza preliminare del tribunale di Caltanissetta condanna l’imputato, in giudizio abbreviato, previa concessione di attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti, alla pena, condizionalmente sospesa, di dieci mesi di reclusione (pena prossima al minimo, tenuto conto delle due imputazioni contestate e dell’equivalenza all’aggravante delle attenuanti generiche concesse).

In entrambi i giudizi la difesa chiede, con esito negativo, la proposizione di conflitto di giurisdizione a norma dell’art. 13, comma 2, c.p.p., sul rilievo della ricorrenza di un caso di connessione tra procedimenti per reati militari e procedimenti per reati comuni, che determina l’appartenenza per tutti i reati alla giurisdizione del giudice ordinario quando il reato comune contestato sia più grave di quello militare, tenuto conto dei criteri dettati dall’art. 16, comma 3 (e nella specie il reato previsto dall’art. 266, comma 1, c.p. è più grave – grazie al minimo edittale più elevato – di quello previsto dall’art. 146 c.p.m.p.).

Proposto appello avverso le due sentenze di primo grado, con impugnativa anche delle due ordinanze di rigetto del conflitto, la Corte militare di appello denuncia conflitto positivo di giurisdizione sul rilievo che, essendo «incontestabilmente unica» la condotta contestata all’imputato nei distinti procedimenti, risulta inapplicabile il citato art. 13, la cui disciplina presuppone la diversità delle fattispecie e dei fatti contestati all’imputato e, inoltre, che ricorrerebbe un’ipotesi di concorso apparente di norme incriminatrici, con prevalenza della giurisdizione militare in ossequio al criterio della maggiore specialità, dato il riferimento al valore altamente specializzante della tutela di interessi protetti dall’ordinamento penale militare.

Assegnato il ricorso alla prima sezione penale, quest’ultima il 26 gennaio 2016 ne delibera la rimessione alle Sezioni unite.

 

5. Così descritto il fatto, conviene ora soffermarsi più analiticamente sui profili di diritto.

Si è già accennato alla questione, di ordinamento giudiziario, riguardante la legittimazione alla partecipazione all’udienza camerale di trattazione del conflitto di giurisdizione tra giudice penale ordinario e giudice militare dinanzi alla Corte di cassazione.

Come correttamente rileva la sentenza delle Sezioni unite, l’art. 32, comma 1, c.p.p., si limita a prevedere che “i conflitti sono decisi dalla Corte di cassazione con sentenza in camera di consiglio secondo le forme previste dall’art. 127”; quest’ultimo articolo fa solo generico riferimento al pubblico ministero quando lo indica tra i destinatari dell’avviso di udienza; non sono poi risolutive neanche le previsioni generali di cui agli artt. 76, primo comma, e 65 dell’ordinamento giudiziario le quali, rispettivamente, specificano le attribuzioni della Corte di cassazione in tema di risoluzione dei conflitti e sanciscono l’obbligo di intervento del pubblico ministero presso la Corte «in tutte le udienze civili e penali» e, dunque, anche nelle udienze camerali partecipate ai sensi del predetto art. 127.

Peraltro, la pronuncia non manca di ricordare la costante prassi seguita dalla Corte nel senso dell’intervento del solo Procuratore generale “ordinario”, con esclusione, quindi, del Procuratore generale militare[4].

Dopo un’ampia disamina del quadro “costituzionale” della questione e “storico” delle modificazioni intervenute nel diritto penale militare e dell’ordinamento giudiziario militare, le Sezioni unite replicano alla sezione rimettente con puntuale precisione, osservando che, se è vero che “manca una esplicita previsione normativa sulla individuazione dell’ufficio requirente per i casi di conflitto di giurisdizione in cui venga in rilievo la natura comune o militare della fattispecie criminosa contestata”, è anche vero che “in realtà di una tale previsione non vi è bisogno, non potendosi nutrire dubbi sulla enucleabilità, dallo stesso sistema processuale e dalla natura del giudizio definitorio della giurisdizione, della regula iuris asseverante l’intervento esclusivo del Procuratore generale (ordinario) nei procedimenti in cui la Cassazione delibera nella sua speciale funzione istituzionale di Corte regolatrice dei conflitti di giurisdizione”.

Non sfugga il ricorso all’uso di un lessico identico a quello dell’ordinanza di rimessione, che aveva espresso l’opposta certezza:  è proprio la natura di tali giudizi in cui la Corte di cassazione diviene la massima espressione del valore e del principio di unità e unicità della giurisdizione, complessivamente e unitariamente considerata, ad escludere la praticabilità, quanto all’individuazione dell’ufficio requirente interveniente, dell’alternativa rappresentata dalla congiunta partecipazione del Procuratore generale ordinario e del Procuratore generale militare.

Un’alternativa del genere – aggiungono le Sezioni unite – sarebbe incongrua, una vera e propria contradictio in adiecto, in quanto finirebbe per obliterare il concetto stesso di unicità della giurisdizione, che trova la più emblematica manifestazione nelle decisioni risolutive dei conflitti.

Nella prospettiva delle Sezioni unite, che esista un «autonomo ufficio» del pubblico ministero militare presso la Corte di cassazione non sottintende la voluntas legis di creazione di un organo replicante le attribuzioni istituzionali proprie dell’ufficio requirente “ordinario”, ma è solo il portato di un’esigenza di simmetria ordinamentale connessa all’estensione del giudizio di legittimità a tutte le decisioni dei giudici militari e alla coeva soppressione del Tribunale Supremo militare stabilite dalla legge n. 180 del 1981.

L’autonomia dell’ufficio requirente militare non significa, quindi, né identità  di attribuzioni e prerogative, né equivalenza funzionale: di tal che, pur in difetto di una norma positiva che indichi in quali giudizi di cassazione possa intervenire il Procuratore generale militare, si è affermata, come logica conseguenza, la consolidata prassi applicativa che ha circoscritto l’intervento in udienza dell’ufficio del Procuratore generale militare ai soli giudizi relativi alla risoluzione dei conflitti positivi o negativi di competenza insorti tra giudici militari.

Pur nel convincente giudizio espresso sin qui sulla questione rimessa, le Sezioni unite non si astengono da ulteriori, e pregnanti, argomenti, spaziando dalla giurisprudenza civile fino alle pronunce, rese in sede consultiva, dal Consiglio di Stato, che avallano, in termini non equivoci, le conclusioni raggiunte[5].

 

6. Neanche con riferimento alla seconda questione posta nell’ordinanza di rimessione le Sezioni unite nascondono una certa sorpresa, quando affermano che “il quesito enunciato dalla Sezione rimettente contiene già implicitamente una risposta nella parte in cui suppone l’esistenza di orientamenti della giurisprudenza di legittimità diversi nell’apprezzamento della medesimezza del fatto, che in realtà non sono diversi o contrastanti (per intrinseca contraddizione logica), ma si armonizzano tra loro, se letti nella successione (anche cronologica) delle decisioni che li rappresentano” o quando, poco dopo, aggiungono che “è di tutta evidenza che la Corte regolatrice dei conflitti non possa, surrettiziamente sostituendosi al pubblico ministero, intervenire modificando (al di fuori degli specifici istituti processuali di cui agli artt. 516 ss. cod. proc. pen.) l’accusa contestata o alterando l’una o l’altra delle regiudicande sottoposte ai giudici in contrasto (positivo), sino a vanificare gli esiti di decisioni già assunte da uno o da entrambi i giudici di cognizione di merito confliggenti”.

Si giudica quindi infondato il timore, espresso dalla sezione rimettente che, nei procedimenti per conflitto positivo di giurisdizione, una mancata chiara esplicazione del potere di sindacato della Corte sulla congruità della contestazione operata nel procedimento di maggiore ampiezza possa condurre a un non liquet, pur a fronte di contestazione manifestamente erronea.

Le Sezioni unite, infatti, replicano che «l’evoluzione della giurisprudenza di legittimità (tra le molte decisioni: Sez. I, n. 26829 del 15/04/2011, Consorte, rv. 250873) ha precisato che i presupposti (codificati) di un conflitto di giurisdizione sono rappresentati: a) dalla litispendenza (come si desume dall’uso dall’avverbio “contemporaneamente”, che nell’art. 28 cod. proc. pen. qualifica il “prendere” o il “ricusare di prendere cognizione” di giudici diversi, di cui uno speciale, il contrasto dovendo essere attuale e concreto); b) dall’identità del soggetto agente, indagato o imputato (“stessa persona”); c) dall’identità o unicità del fatto di rilievo penale allo stesso soggetto ascrivibile (“medesimo fatto”)».

Elementi, questi, il cui accertamento, nel giudizio sul regolamento della giurisdizione, appartiene alla Corte regolatrice, munita di plena cognitio, alla stessa stregua di un giudice del fatto, in ordine agli atti dei procedimenti pendenti dinanzi ai giudici in conflitto, senza condizionamenti di prospettive o contestazioni e qualificazioni delle accuse in essi formulate[6], ma con il dovere di “far seguire l’individuazione della corretta qualificazione giuridica da attribuire al ‘medesimo fatto’, con la conseguente designazione dell’organo giudiziario chiamato a giudicare tale fatto reato”.

In altri termini, il fatto storico (medesimo) va penalmente individuato e qualificato e la sua corretta qualificazione giuridica, compiuta dalla Corte regolatrice, diventa l’effettiva causa determinatrice della giurisdizione.

Se questi sono i principi che devono presiedere alla esatta soluzione del conflitto di giurisdizione tra giudice penale ordinario e giudice militare, è evidente che, nel caso di specie, pacifica essendo la medesimezza del fatto, il conflitto vada risolto, alla luce dell’art. 13, comma 2, c.p.p. in favore del giudice ordinario, data l’oggettiva maggiore gravità del reato (ulteriore) ex art. 266 c.p., come da contestazione nel giudizio ordinario, che integra, conformemente alla condotta tenuta dall’imputato, un caso emblematico di concorso formale eterogeneo (violazione di pluralità di disposizioni di legge con unica azione) e non un’ipotesi di concorso apparente di norme.

Lineare e incontrovertibile la soluzione delle Sezioni unite, e trova precedenti specifici di pari segno in decisioni risolutive di conflitti di giurisdizione[7] e non di conflitti di competenza, come quelle evocate prevalentemente nell’ordinanza di rimessione. E, si può aggiungere, è anche quella che realizza un esito di equità sostanziale che sarebbe stato altrimenti vanificato dall’omessa contestazione, nel procedimento militare, del più grave reato di istigazione di militari a disobbedire alle leggi punito dall’art. 213, comma primo, c.p.m.p.

Avendo entrambi i collegi (quello della sezione rimettente e quello delle Sezioni unite) rilevato come nella condotta tenuta dall’imputato fosse configurabile anche tale più grave reato, “speciale” rispetto a quello contemplato nell’art. 266 c.p., certamente non sarà sfuggito a nessuno dei due che l’omessa sua contestazione nel giudizio militare finiva per risparmiare al maresciallo dei carabinieri autore dei fatti la pena accessoria della degradazione o, in mancanza, della rimozione (art. 213, comma terzo, c.p.m.p.), non irrogabile, per non essere prevista, nel giudizio penale ordinario.

Paradossalmente, sull’art. 213 c.p.m.p. si attarda il giudice militare per allegare la sua maggiore gravità a fondamento della ritenuta propria giurisdizione, così inducendo le Sezioni unite a replicare seccamente, sottolineando il carattere meramente ipotetico di tale prospettiva, non essendosi fatto luogo a tempestiva contestazione specifica, né essendo questa più consentita per il grado raggiunto dal procedimento.

In definitiva, anche qui è capovolto il ragionamento del collegio rimettente: perché non era tanto in discussione, alla luce dei fatti incontrovertibili del procedimento, l’ipotesi di escludere, dal giudizio dinanzi al giudice ordinario, uno dei reati in contestazione per asserita “eccedenza”, quanto, al più, quella – peraltro non più possibile, considerati i “tempi processuali” e comunque sottratta ai poteri istituzionali della Corte – di aggiungere la contestazione di un reato ulteriore, per adeguare il diritto al fatto, nel giudizio militare.

Infine, viene ignorata anche la prospettiva – fatta propria dall’ordinanza di rimessione – dell’annullamento di una delle due sentenze emesse dai giudici in conflitto all’esito della sua risoluzione, correttamente limitandosi le Sezioni unite a dichiarare la giurisdizione del giudice ordinario: pronuncia alla quale consegue, ex art. 25 c.p.p., la dichiarazione di difetto di giurisdizione da parte della Corte militare d’appello, con il contestuale annullamento della sentenza 3 giugno 2014 del tribunale militare di Napoli.

 

7. Qualche osservazione finale.

Non è la prima volta, e non sarà certamente l’ultima, che le Sezioni unite sono chiamate ad intervenire senza che, prima facie, se ne veda la necessità.

Il problema non è di oggi, ma oggi è certamente più serio di quanto non fosse venti o trenta anni fa, perché, di fronte a un carico annuo di ricorsi incomparabilmente più gravoso e a un pressoché obbligato accamparsi della nomofilachia prevalentemente nelle pronunce delle Sezioni unite, occorre riguardare al loro intervento come a una extrema ratio, che ha anche la funzione di evitarne la sovraesposizione e/o di determinare l’affievolimento della loro autorevolezza.

Indubbiamente, la proliferazione degli interventi delle Sezioni unite è in parte dovuto alla poco felice formulazione dell’art. 172 disp. att. c.p.p. che, nella sua rigidità, non consente al Primo Presidente della Corte una valutazione di opportunità circa l’effettiva necessità che la questione rimessa dalla sezione semplice sia sottoposta al giudizio delle Sezioni unite.

Né si potrebbe far carico allo stesso Presidente di un “interventismo restitutorio” che verrebbe vissuto come mortificazione della giurisdizione e forma di autoritarismo deprecabile in assenza di auspicabili, benché molto improbabili, correzioni legislative[8].

Per altro verso, essa è dovuta anche a un deficit di self-restraint delle sezioni semplici che risulta difficile contrastare con interventi normativi interni alla Corte (strada già percorsa in passato senza grande successo[9]).

Nel caso di specie, la limpida conclusione delle Sezioni unite – che ha comportato una dilazione inevitabile del procedimento principale – si sarebbe potuta raggiungere nella sua sede naturale un anno e mezzo prima.

Va considerato del resto il rilievo, non sfuggito al primo collegio, di un’omissione irrimediabile nella rubrica elevata nel procedimento militare, che appare abbastanza sorprendente, specie se raffrontata con la precisa indicazione dei due distinti capi di imputazione contestati nel procedimento dinanzi al giudice ordinario – indicazione non ignota al giudice militare – e della pretesa di quest’ultimo di far valere l’imputazione omessa per significare una prevalenza della propria giurisdizione.

Non è un caso che, in un passaggio della sentenza delle Sezioni unite, si sia avvertito il bisogno di sottolineare il «progressivo marcato processo di “ordinarizzazione” della giustizia militare», cui si accompagna un «parallelo processo di tangibile “marginalizzazione” della giustizia militare rispetto al variegato e sempre più composito universo giudiziario nazionale e sovranazionale, determinato dalla graduale diminuzione casistica e quantitativa dei procedimenti e dei giudizi penali militari di pace»[10].

Da notare, infine, che, se l’imputato non avesse impugnato alcuna delle due sentenze pronunciate contro di lui, in sede di esecuzione si sarebbe dovuta eseguire, a mente dell’art. 669, comma 1, c.p.p., quella del giudice militare, perché riguardante la stessa persona e il medesimo fatto e portante la condanna alla pena meno grave, indubbiamente sottodimensionata avuto riguardo alla gravità del comportamento contestato. Conclusione indubbiamente iniqua, alla quale si sarebbe giunti egualmente ove, nel caso di specie, si fosse ritenuta la giurisdizione del giudice militare.

 

 

[1] L’ordinanza di rimessione (Sez. I, 26 gennaio 2016 - dep. 6 maggio 2016, n. 18956), è stata pubblicata in questa Rivista, in occasione della pubblicazione della informazione provvisoria concernente il decisum delle Sezioni unite.

[2] Si veda la nota che precede.

[3] Come già notato altrove (Romeo, Di qualche evoluzione (o involuzione?) nella giurisprudenza di legittimità, in Cass. pen., 2000, p. 1101), per contrasto giurisprudenziale deve intendersi il cd. “contrasto maturo”, e non la semplice esistenza di due sentenze di opposto segno o, peggio ancora, come nella specie, l’esistenza di un’isolata decisione che collida con un orientamento consolidato (in dottrina, in tal senso già Pioletti, Sul ruolo delle Sezioni unite penali della Corte di cassazione, in Foro it., 1988, V, c. 461 ss.; in giurisprudenza, da ultimo, sez. II, 5 maggio 2016, n. 22444, inedita; sez. I, 4 luglio 2013 n. 35027, C.e.d. Cass., n. 257213, in motivazione).

Pertanto, il Primo presidente della Corte ben avrebbe potuto restituire il ricorso alla sezione di provenienza, a nulla rilevando i limiti posti dall’art. 172 disp. att. c.p.p.: disposizione, come già rilevato altra volta, da interpretare cum grano salis, tanto più in un momento nel quale il ruolo delle Sezioni unite è sovraccarico, con questioni di ben maggiore complessità da risolvere.

[4] Alle decisioni citate in sentenza (Sez. un., 24 novembre 1999, n. 25, in Foro it., 2000, II, 621; sez. I, 18 maggio 1999, n. 3695, C.e.d. Cass., n. 213871; sez. I, 8 luglio 1992, n. 3312, ivi, n. 191755; sez. I, 10 febbraio 1997, n. 897, in Arch. n. proc. pen., 1997, 185) si possono aggiungere, più di recente, sez. I, 11 aprile 2014, n. 18252 e sez. I, 23 maggio 2012, n. 22661, inedite.

[5] Quanto alla giurisprudenza civile, si tratta di Cass., Sez. un. civ., 19 gennaio 2001 n. 7, in Foro it., 2002, I, 2161 che sul punto così testualmente si esprime: “Il Procuratore generale militare della Repubblica presso questa Corte suprema, dando attuazione a quanto preannunciato con memorie presentate ai sensi dell’art. 378 c.p.c., si è presentato nell’udienza fissata per la discussione dinanzi a queste Sezioni unite, anche, del suo ricorso cennato – oltre che di quello incidentale contrapposto (omissis) – accampando le proprie legittimazione e competenza a partecipare a tale discussione in luogo del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte suprema di cassazione. Il Collegio, con ordinanza pronunciata in udienza, non ha ammesso il summenzionato pubblico ministero ricorrente a svolgere le proprie difese ed a prendere le sue conclusioni, a mente dell’art. 379 c.p.c., sul ritenuto presupposto che il Procuratore generale militare presso la Corte di cassazione, titolare dell’azione disciplinare esperita nei confronti dei magistrati militari dinanzi al Consiglio della magistratura militare, e, quindi, contraddittore necessario nei procedimenti disciplinari istituiti dinanzi a tale Consiglio ex art. 1, comma 3, l. 30.12.1988 n. 561, è bensì parte legittimata a proporre ricorso per cassazione, ovvero a resistervi, producendo controricorso ai termini dell’art. 370 del codice di rito, nel caso di proposizione di gravame da parte di altri soggetti di detti procedimenti, e però presenzia alla fase dibattimentale del susseguente procedimento dinanzi alle Sezioni unite di questa Corte suprema non direttamente, ma attraverso l’organo requirente ordinariamente legittimato e competente a partecipare a tale ultimo momento del processo ai sensi degli artt. 79, comma 1, e 379, comma 3, del codice più sopra citato”.

Quanto all’attività consultiva espressa dal Consiglio di Stato, lo stralcio essenziale dei cui pareri è riprodotto nella sentenza in commento, si tratta di Cons. Stato, sez. II, 5 giugno 2012 n. 2729 e sez. III, 9 dicembre 2008 n. 6462, entrambi reperibili all’indirizzo internet www.giustizia-amministrativa.it.

È particolarmente significativo, in quest’ultimo parere, il passaggio nel quale, per segnare la differenza tra i diversi ruoli assegnati ai vertici apicali della Corte di cassazione, si afferma che «il Primo Presidente della Cassazione e il Procuratore generale della Cassazione non hanno solo un ruolo di vertice della magistratura ordinaria, il che non li differenzierebbe dal Presidente o Procuratore generale di altra magistratura, ma hanno un ruolo ulteriore di regolazione del confine tra le giurisdizioni».

[6] In tal senso sez. I, 17 maggio 2013, n. 27677, C.e.d. Cass., n. 257178; sez. I, 1o ottobre 2009, n. 43236, ivi, n. 245122; sez. I, 26 gennaio 1999, n. 666, ivi, n. 213285.

Pacifica, poi, la giurisprudenza secondo cui, in tema di conflitti di competenza per materia, allorché la risoluzione del conflitto dipende dalla determinazione del titolo del reato e non può essere esclusa, allo stato, la più grave delle ipotesi prospettate, il conflitto va risolto in favore del giudice superiore, id est avente competenza più ampia il quale è l’unico che può dare al fatto una diversa e meno grave definizione giuridica e decidere, mentre l’opposto non è consentito al giudice che ha competenza per materia più limitata (ex multis, tra le più recenti, sez. I, 28 aprile 2015, n. 24431, C.e.d. Cass., n. 264007, in motivazione; sez. I, 10 febbraio 2005, n. 7290, inedita).

[7] Sez. I, 11 aprile 2014, n. 18252 e 23 maggio 2012, n. 22661, entrambe inedite, rese in ipotesi di conflitti di giurisdizione in larga parte sovrapponibili al caso trattato dalle Sezioni unite.

[8] Va segnalato in proposito che solo nelle ultime tre settimane il Primo Presidente ha restituito quattro ricorsi alle sezioni di provenienza con decreti che si possono leggere nel sito web della Corte di cassazione, il che dimostra attenzione e sollecitudine verso il problema qui posto.

[9] Si allude qui soprattutto alla circolare n. 8 del 5 ottobre 1995, prot. 9193/95 P.P.A., in Cass. pen., 1997, 3685, e alla nota prot. 373 del 4 luglio 1997, entrambe a firma del Primo presidente aggiunto prof. La Torre, ivi, 3687.

[10] Non sembra inutile ricordare, a proposito di preminenza generale della giurisdizione ordinaria su quella militare, che è principio consolidato e risalente quello per cui in tema di esecuzione di pene concorrenti inflitte con titoli di condanna emessi dal giudice ordinario e dal giudice militare, la giurisdizione in ordine alla revoca della sospensione condizionale della pena spetta al giudice ordinario anche se il beneficio è stato concesso dal giudice militare in virtù del principio della preminenza della giurisdizione ordinaria di cui all’art. 665, comma 4, c.p.p., in quanto la giurisdizione militare trova esplicazione solo quando sia il titolo di condanna concessivo del beneficio sia quello determinativo della sua revoca promanano dal giudice militare (Sez. I, 10 giugno 2014, n. 5689/15, C.e.d. Cass., n. 262463, sulla scia di Sez. un., 23 novembre 1985, n. 17, ivi, n. 171282 e Sez. un., 26 maggio 1984, n. 6300, in Foro it., 1985, II, 172).