ISSN 2039-1676


19 maggio 2017 |

La Corte d’Appello di Milano ridisegna i contorni della nuova causa di non punibilità dell’art. 13 d.lgs. 74/2000

Nota a Corte App. Milano, sez. II, sent. 20 aprile 2017 (dep. 2 maggio 2017), n. 2810, Pres. Paparella, Est. Brambilla

Contributo pubblicato nel Fascicolo 5/2017

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1. Le prime vicende giurisprudenziali successive alla c.d. riforma dei reati tributari[1] vanno disvelando diverse problematiche di non agile risoluzione in merito alla portata applicativa del nuovo art. 13 del d.lgs. 74/2000.

Quest’ultimo – come noto – in relazione ai reati di cui agli artt. 10bis, 10ter e 10quater dello stesso decreto, ha introdotto quale causa sopravvenuta di non punibilità l’estinzione del debito tributario (unitamente a interessi e sanzioni) prima della dichiarazione di apertura del dibattimento.

Già il Tribunale di Treviso ha recentemente sottoposto al vaglio della Corte costituzionale una questione di legittimità relativa al terzo comma della disposizione, nella parte in cui non prevede – almeno in determinati casi – che possa essere stabilito un termine più lungo di 3 mesi (prorogabili di ulteriori 3) al fine di completare l’estinzione del debito tributario mediante rateizzazione, utile a ottenere il beneficio dell’esclusione di pena[2].

Con la sentenza qui commentata la Corte d’Appello di Milano, II sez. penale, affronta invece il problema relativo all’ambito di applicazione soggettivo della nuova causa di non punibilità, escludendo che la condotta riparatoria ivi descritta debba necessariamente provenire dall’autore materiale del reato, in ragione della rilevanza oggettiva riconosciuta alla circostanza dell’estinzione del debito tributario[3].

 

2. Come sempre, partiamo dai fatti.

La vicenda riguarda un’operazione di indebita compensazione IVA (rilevante ex art. 10-quater) posta in essere dalla società V. nelle more del periodo d’imposta 2010. In particolare, il meccanismo fraudolento contestato risiedeva nel trasferimento – ingiustificato, secondo i giudici - di un credito IVA dalla società F. alla società V. mediante l’emissione di una fattura da parte della prima in favore della seconda; seguiva l’annullamento della stessa fattura dopo appena qualche mese. Il vantaggio fiscale così ottenuto era quello di aver permesso alla società V., alla data del 31 luglio 2010 (data prevista per la dichiarazione), di compensare il proprio debito nei confronti dell’Erario con l’IVA a credito scaturente dalla fattura emessa dalla società F. (pari a euro 600.000).

A seguito dei sopra esposti accadimenti la società V., nella persona del proprio legale rappresentante imputato del procedimento in esame, presentava domanda di concordato preventivo a causa delle difficoltà economiche che investivano l’impresa. Nell’ambito dell’esecuzione di detto concordato, i liquidatori giudiziali – ormai unici incaricati della gestione societaria -  provvedevano ad estinguere il debito IVA scaturente dall’operazione di indebita compensazione utilizzando a tal fine l’apposita procedura di accertamento con adesione indicata nel relativo avviso dell’Agenzia delle Entrate.

Alla luce dei fatti così ricostruiti il giudizio di primo grado – celebrato secondo le forme del rito abbreviato - terminava con la condanna dell’imputato a 8 mesi di reclusione.

Tuttavia la Corte d’Appello, rilevata l’introduzione del nuovo art. 13 d.lgs. 74/2000 in epoca successiva alla sentenza di primo grado, ribaltava la condanna inflitta dichiarando l’imputato non punibile per essere stato il debito erariale integralmente estinto in data anteriore al decreto penale di condanna opposto, nonché alla celebrazione dell’udienza preliminare. Ciò – si ribadisce – benché la condotta riparatoria non fosse stata posta in essere personalmente dall’imputato, bensì dai liquidatori giudiziali incaricati della procedura concorsuale.

 

3. La motivazione della sentenza utilizzata dai giudici meneghini a supporto della propria conclusione si articola in tre distinti passaggi:

a) in via preliminare la Corte ha cura di dar conto della sussistenza tanto dell’elemento oggettivo quanto dell’elemento soggettivo del reato, atteso che le cause di esclusione della punibilità - differentemente dalle cause di giustificazione e dalle esimenti - lasciano intatta sia l’antigiuridicità che l’esigibilità psicologica del fatto commesso, ponendosi quali elementi estranei alla struttura del reato che incidono unicamente sull’opportunità di applicazione della pena;

b) in seconda battuta, i giudici affrontano la questione relativa all’ambito applicativo della nuova causa di non punibilità di cui all’art. 13 d.lgs. 74/2000. Essi – propendendo per un’interpretazione strettamente letterale della norma – si discostano dalla tradizionale opinione secondo cui le cause sopravvenute di non punibilità hanno rilevanza necessariamente e unicamente soggettiva, evidenziando come il dettato normativo dell’art. 13 non rechi in effetti alcuna menzione del soggetto tenuto alla condotta riparatoria; osserva peraltro la Corte che le altre cause sopravvenute di non punibilità previste dall’ordinamento indicano sempre espressamente colui che è tenuto alla condotta suscettibile di determinare l’esclusione di pena[4]. Conseguentemente i giudici di merito, facendo proprio il principio ermeneutico secondo cui ubi lex voluit dixit ubi noluit tacuit, ritengono che la voluntas legis sia quella di attribuire rilevanza oggettiva all’estinzione del debito tributario alla data di apertura del dibattimento, essendo sufficiente che la condotta a ciò necessaria provenga da soggetto legittimato ad agire in nome e per conto della società;

c) da ultimo, il Collegio milanese nega che nel caso di specie sia ravvisabile un’effettiva alterità tra la posizione dell’imputato e quella dei liquidatori giudiziali, atteso che il primo si era adoperato in maniera esplicita per l’attivazione della procedura concorsuale e che i secondi erano gli unici che, alla data dell’avviso di accertamento dell’Agenzia delle Entrate, disponevano dei poteri gestori utili alla regolarizzazione della posizione contributiva della società. In esito a tale rilievo i giudici concludono affermando che “parrebbe contra legem escludere l’operatività della causa di non punibilità in ragione della diversità del soggetto[5].

***

4. Alcuni brevissimi spunti di riflessione.

La sentenza in commento merita attenzione giacché lo sforzo ermeneutico profuso dai giudici milanesi al fine di individuare l’ambito applicativo del nuovo istituto giunge a delle conclusioni quantomeno originali al cospetto della dottrina classica del diritto penale nostrano[6]. Il risultato è la configurazione di una causa sopravvenuta di non punibilità sui generis, la quale ammette che il soggetto deputato a porre in essere la condotta riparatoria sia un soggetto diverso dall’autore materiale del reato. Ciò, nonostante nella relazione illustrativa al testo della riforma si legga che la ratio della norma è quella diconcedere al contribuente la possibilità di eliminare la rilevanza penale della propria condotta attraverso una piena soddisfazione dell’Erario prima del processo penale[7].

Quel che appare tra le righe della sentenza è l’adozione di una nozione di contribuente particolarmente ampia, tale da ricomprendere qualsivoglia soggetto legittimato ad agire in nome e per conto dell’ente giuridico coinvolto. In altre parole, è proprio quest’ultimo che viene ad essere implicitamente individuato dai giudici quale reale soggetto contribuente nei confronti dell’Erario. Il caveat per giungere a tale soluzione è il dato testuale della norma che – come detto – lascia lo spazio per un’interpretazione estensiva in relazione al soggetto tenuto alla condotta legittimante l’esclusione di pena.

Le ragioni di ordine sostanziale che, nel caso di specie, inducono la Corte a questa soluzione sono evidenti: se infatti non si può escludere che i liquidatori giudiziali abbiano deciso di estinguere il debito tributario per ragioni diverse dal garantire l’impunità all’autore materiale del reato (ad es. per ragioni di convenienza della procedura concorsuale), nemmeno si può omettere di considerare che la procedura di concordato preventivo è stata attivata per volere dell’imputato e che il pagamento del debito erariale è stato effettuato con risorse della società a lui riferibile.

 

5. Tirando le fila.

La decisione dei giudici meneghini ridisegna in maniera inaspettata i contorni della nuova causa di non punibilità prevista dall’art. 13 d.lgs. 74/2000, giungendo ad attribuire a quest’ultima connotati inediti e del tutto originali nel nostro sistema penale. Chiave di volta nel ragionamento svolto dalla Corte è l’interpretazione letterale e sistematica della norma, la quale permette di addivenire ad una nozione di contribuente – soggetto tenuto alla condotta riparatoria utile all’esclusione di pena – notevolmente estesa.

A margine delle considerazioni appena svolte si osserva che la decisione della Corte d’Appello di Milano, unitamente al recente orientamento della Corte di Cassazione che ha ammesso la confisca diretta nei confronti dell’ente per reati tributari commessi dal legale rappresentante[8] (valorizzandone dunque la posizione di soggetto in concreto avvantaggiato dal reato), tende ancor di più le maglie dell’ordinamento, riconoscendo un ruolo sempre maggiore alla persona giuridica nel quadro del sistema penale tributario.

 

 

[1] D.lgs. 24 settembre 2015, n. 158; per un primo sommario commento al testo cfr. Finocchiaro S., La riforma dei reati tributari: un primo sguardo al d.lgs. 158/2015 appena pubblicato, in questa Rivista, 9 ottobre 2015.

[2] Trib. Treviso, ord. 23 febbraio 2016; commentata da Finocchiaro S., La nuova causa di non punibilità per estinzione del debito tributario posta al vaglio della Corte costituzionale da un’ordinanza del tribunale di Treviso, in questa Rivista, 4 aprile 2016.

[3] Cfr. § 10 della sentenza.

[4] A questo proposito i giudici richiamano in via esemplificativa: l’art. 56, comma 3 c.p. in tema di desistenza volontaria il quale prevede che “se il colpevole volontariamente desiste…”; l’art. 376 c.p. in tema di ritrattazione il quale sancisce che “il colpevole non è punibile se…”; l’art. 387, comma 2 c.p. in tema di procurata evasione colposa il quale enuncia “il colpevole non è punibile se…”; l’art. 463 c.p. il quale enuncia “non è punibile chi, avendo commesso alcuno dei fatti preveduti dagli articoli precedenti…”; vd. nota 2 della sentenza.

[5] Cfr. § 12-13 della sentenza.

[6] La dottrina classica – richiama la Corte - ha da sempre considerato le cause sopravvenute di non punibilità come attinenti unicamente al soggetto attivo del reato, al punto che esse non si comunicano agli altri eventuali concorrenti nel fatto ex art. 119 c.p.; cfr. § 9 della sentenza.

[7] Cfr. p. 11 della relazione illustrativa; cfr. altresì Relazione della Corte di Cassazione, Ufficio del Massimario, n. III/05/2005, § 11.

[8] Su tutte Cfr. Cass. pen., SS. UU., 30 gennaio 2014, n. 10561; per un primo commento vd. Trinchera T., La sentenza delle Sezioni Unite in tema di confisca di beni societari e reati fiscali, in questa Rivista, 12 marzo 2014. Vd. anche Cass. pen., sez. III, 22 marzo 2016, n. 15099.