ISSN 2039-1676


4 aprile 2016 |

La nuova causa di non punibilità  per estinzione del debito tributario posta al vaglio della Corte costituzionale da un'ordinanza del Tribunale di Treviso

Trib. Treviso, sez. pen., ord. 23 febbraio 2016, Giudice Vettoruzzo

 

1. La recente riforma dei reati tributari operata dal d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158 torna a far parlare di sé, ponendosi - questa volta - al centro di un'ordinanza con cui il Tribunale di Treviso ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 13, comma 3 d.lgs. 74/2000. A parere del giudice rimettente, tale previsione - e in particolare l'imposizione di un termine rigido di tre o sei mesi per completare l'estinzione del debito tributario, e quindi godere della causa di non punibilità per il reato fiscale - sarebbe in contrasto con le norme costituzionali di cui agli articoli 3 e 24 della Costituzione.

 

2. Prima di esaminare la vicenda da cui trae origine il provvedimento, e le motivazioni sottese a quest'ultimo, può essere utile premettere brevi cenni sul contenuto della neonata disposizione al vaglio della Consulta. L'art. 13 d.lgs. 74/2000 è stato sostituito ad opera dell'art. 11 del d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158, ed è oggi rubricato "Causa di non punibilità. Pagamento del debito tributario". La nuova disposizione, al primo comma, prevede che i reati di omesso versamento di cui agli artt. 10-bis e 10-ter e di indebita compensazione di cui all'art. 10-quater d.lgs. 74/2000 non sono punibili qualora, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari, comprensivi di sanzioni amministrative e interessi, vengano estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, anche a seguito delle speciali procedure conciliative e di adesione all'accertamento previste dalle norme tributarie, nonché del ravvedimento operoso.

Tale previsione va letta in combinato disposto con il terzo comma del medesimo articolo, in virtù del quale, quando (prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado) il debito tributario sia in fase di estinzione mediante rateizzazione, il giudice - anche ai fini dell'applicabilità dell'attenuante di cui all'art. 13-bis[1] - concede un termine di tre mesi, prorogabile al massimo di ulteriori tre mesi, per consentire il pagamento del debito tributario residuo. Durante tale periodo di tre o sei mesi, la prescrizione è sospesa.

La ratio sottostante alla nuova norma è stata individuata dalla Relazione illustrativa alla riforma nella "scelta di concedere al contribuente la possibilità di eliminare la rilevanza penale della propria condotta attraverso una piena soddisfazione dell'erario prima del processo penale: in questi casi infatti il contribuente ha correttamente indicato il proprio debito, risultando in seguito inadempiente; il successivo adempimento, pur non spontaneo, rende sufficiente il ricorso alle sanzioni amministrative"[2].

 

3. Veniamo dunque alla vicenda sub iudice. All'udienza dinanzi al Tribunale di Treviso del 23 febbraio 2016, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, la difesa di un imputato per omesso versamento di ritenute certificate (art. 10-bis d.lgs. 74/2000) ha chiesto di rinviare il processo ai sensi dell'art. 13 cit. ad una data successiva al 31 dicembre 2017. Quest'ultima data era stata precedentemente individuata nell'ambito di una procedura di concordato preventivo (omologato dal Tribunale in data 17 aprile 2014), nell'ambito della quale la società amministrata dall'imputato aveva raggiunto una transazione fiscale che prevedeva il pagamento integrale in linea capitale dell'intero debito tributario relativo ai due anni d'imposta in contestazione (633.901,38 euro, nonché sanzioni nella misura del 10% e interessi nella misura del 3,5 %), secondo una scansione in dodici rate trimestrali, la cui ultima era fissata, appunto, al 31 dicembre 2017.

Insomma, alla data dell'udienza in cui il giudice avrebbe dovuto aprire il dibattimento, il debito tributario era sì "in fase di estinzione mediante rateizzazione" - poiché, infatti, quattro delle dodici rate risultavano già regolarmente pagate - ma la concessione del termine di tre mesi (o sei mesi, qualora prorogato), sarebbe stata in ogni caso insufficiente a permettere all'imputato di godere della causa di non punibilità, in quanto l'integrale pagamento degli importi sarebbe avvenuto, in base ai vincoli stabiliti nel piano di concordato preventivo, oltre ventidue mesi dopo a quell'udienza.

 

4. Il giudice del Tribunale di Treviso, previa specifica prospettazione in tal senso da parte della difesa dell'imputato, ha ritenuto di sollevare questione di legittimità costituzionale dell'art. 13, reputando tale norma - nella parte in cui non consente, almeno in determinati casi, di concedere un termine più lungo, coincidente con lo scadere del piano di rateizzazione - in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost.

 

5. Evidente appare la "rilevanza" della prefigurata questione: il termine massimo di sospensione del processo fissato dall'art. 13, comma 3 d.lgs. 74/2000 (tre mesi prorogabili fino a sei mesi) impone inequivocabilmente al giudice di rigettare l'istanza del difensore dell'imputato, impedendo a quest'ultimo di godere della causa di non punibilità. Qualora, invece, tale previsione legislativa venisse dichiarata costituzionalmente illegittima nella parte in cui esclude al giudice di prevedere termini di sospensione del processo più lunghi in determinate circostanze, l'apertura del dibattimento potrebbe essere rinviata anche a una data successiva alla chiusura del piano rateale previsto nel concordato preventivo, con conseguente proscioglimento dell'imputato in applicazione della causa di non punibilità.

 

6. Quanto alla "non manifesta infondatezza" della questione, il Tribunale di Treviso evidenzia anzitutto una "irragionevolezza logica" della disciplina in esame, derivante dal fatto che, in determinate circostanze, le procedure di adesione consentono una rateizzazione anche quadriennale o decennale del debito fiscale, sì da rendere del tutto incongrua la previsione da parte dell'art. 13 cit. di un termine semestrale, che - di fatto - obbligherebbe il contribuente a rinunciare ai più dilatati termini che la disciplina tributaria gli avrebbe assicurato. Il che vanificherebbe l'intento agevolativo che ha mosso il legislatore della riforma, ponendosi in contrasto con la ratio della causa di non punibilità.

A tale irragionevolezza logica, si aggiungerebbe una "irragionevolezza giuridica" integrante una violazione dell'art. 3 Cost. sotto diversi profili, sintetizzabili come segue.

a) Anzitutto,  la concreta possibilità di accedere alla causa di non punibilità verrebbe fatta dipendere da variabili che non dipendono dall'imputato, come - ad esempio - la velocità con cui è esercitata l'azione penale[3].

b) In secondo luogo, verrebbero, senza giustificazione, trattati in modo uguale soggetti in situazioni assai differenti: da un lato, coloro che abbiano la possibilità di scegliere di rinunciare alla rateizzazione e di versare il rimanente debito fiscale entro il termine di sei mesi imposto dall'art. 13, comma 3; dall'altro, coloro che abbiano l'obbligo di rispettare quanto previsto in sede di concordato preventivo, ove ogni debito dev'essere pagato nell'ordine, nella misura, nei tempi e con le modalità stabilite nel piano di concordato, secondo quanto discende dagli artt. 167, 168 e 184 della l. fall. (R.D. n. 267/1942), a pena di andare incontro alla risoluzione del concordato stesso, su richiesta dei creditori ai sensi dell'art. 186 l. fall.[4].

c) Inoltre, rilevato che la giurisprudenza di legittimità è giunta a riconoscere che "se nell'ambito del concordato è prevista una dilazione di pagamento del debito tributario, di ciò si deve tenere conto al fine di escludere la responsabilità penale nel caso in cui la rateizzazione implichi il mancato rispetto dei termini di versamento non ancora scaduti e stabiliti da norme incriminatrici" [5], quella stessa dilazione non dovrebbe rappresentare un ostacolo alla possibilità di giovarsi della causa di non punibilità in esame[6]. Una conclusione, quest'ultima, che il giudice di Treviso fonda esplicitamente su di una concezione "pubblicistica-istituzionale" della procedura concorsuale del concordato preventivo (quale strumento per soddisfare interessi economici collettivi)[7]; concezione tradizionalmente contrapposta ad una tesi "contrattualistica"[8], che pone invece l'accento sull'esistenza di un accordo con i creditori e sul fatto che la procedura muove da un atto volontario del debitore, ossia la domanda di concordato ex art. 161 l. fall.

 

7. Alla supposta violazione dell'art. 3 Cost., per i motivi anzidetti, si aggiunge - secondo la prospettazione avanzata nell'ordinanza in esame - una violazione dell'art. 24 Cost., in quanto risulterebbe irragionevolmente preclusa all'imputato la possibilità di avvalersi in giudizio di un'opzione difensiva da cui discenderebbe la non punibilità per il fatto contestato.

* * *

8. Dall'eventuale accoglimento della questione sollevata dal Tribunale di Treviso discenderebbe un notevole ampliamento della facoltà di usufruire della nuova esimente di cui all'art. 13, non risultando più il giudice vincolato a termini temporali massimi nella concessione di proroghe all'apertura del dibattimento, in presenza di piani di rateizzazione a lungo termine, da cui possa dipendere la non punibilità dell'imputato.

Gli effetti premiali-deflattivi della riforma ne uscirebbero di conseguenza intensificati, e si farebbe ancor più accentuato il divario rispetto alla disciplina previgente. Quest'ultima, infatti, scartata in radice l'ipotesi di prevedere una causa estintiva del reato, contemplava - in caso di pagamento del debito tributario entro l'apertura del dibattimento, anche mediante procedure conciliative o di adesione all'accertamento - una mera circostanza attenuante ad effetto comune (cui si aggiungeva l'inapplicabilità delle pene accessorie)[9], per godere della quale la giurisprudenza di legittimità richiedeva l'integrale pagamento di quanto dovuto all'erario, non ritenendo sufficiente la mera ammissione al provvedimento di rateazione[10].

Peraltro, un'eventuale declaratoria di incostituzionalità del terzo comma dell'art. 13 si rifletterebbe anche sulla possibilità di riconoscere l'attenuante di cui all'art. 13-bis, comma 1 in relazione alle fattispecie di infedele e omessa dichiarazione ex artt. 4 e 5 e, quindi, sulla possibilità di accedere al rito speciale di cui all'art. 444 c.p.p. (cfr. art. 13-bis, comma 2). Per tali (più gravi) reati, infatti, l'integrale pagamento del debito tributario prima dell'apertura del dibattimento è prevista non già quale causa di esclusione della punibilità, ma come circostanza attenuante ad effetto speciale[11]; e - per espressa previsione dell'art. 13, comma 3 - la concessione del termine di sospensione del procedimento, volta a completare l'estinzione rateizzata del debito, rileva anche ai fini dell'applicabilità di tale attenuante.

Per contro, l'eventuale dichiarazione di incostituzionalità non potrebbe riflettersi sulla possibilità di godere della causa di esclusione della punibilità in presenza di tali, più gravi, fattispecie incriminatrici, in relazioni alle quali - infatti - l'esimente opera, ai sensi dell'art. 13, comma 2, solamente  a condizioni ben più rigorose. Occorre infatti che il debito tributario, comprensivo di sanzioni e interessi, sia stato integralmente estinto a seguito del ravvedimento operoso o della presentazione della dichiarazione omessa entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo d'imposta successivo, sempreché il ravvedimento o la presentazione siano intervenuti prima che l'autore del reato abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell'inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali. Una differenza di disciplina che è stata ritenuta dal legislatore ragionevole alla luce del maggior disvalore insito in tali fattispecie, rispetto alle meno gravi ipotesi di cui agli artt. 10-bis, 10-ter e 10-quater, e che l'accoglimento della questione di legittimità in esame andrebbe ad accentuare ulteriormente.

 

9. Vale infine la pena osservare che la causa di non punibilità di cui all'art. 13, commi 1 e 3 - oggi al vaglio della Corte costituzionale - riguarda tanto l'ipotesi di omesso versamento di ritenute certificate ex art. 10-bis (che viene in rilievo nel processo innanzi al giudice a quo), quanto l'ipotesi di omesso versamento di IVA ex art. 10-ter. Qualora dunque dall'accoglimento della questione di legittimità derivasse un ampliamento della sfera di non punibilità anche di reati che, come appunto l'art. 10-ter, offendono interessi finanziari dell'Unione europea, andrebbero seriamente affrontati alcuni quesiti nient'affatto banali circa la compatibilità di tale disciplina rispetto agli obblighi europei discendenti, tra l'altro, dall'art. 325 § 1 TFUE, che richiede di combattere le "attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell'Unione stessa mediante misure...dissuasive e tali da permettere una protezione efficace". Norma che potrebbe essere ritenuta d'ostacolo alla previsione da parte del nostro ordinamento di una causa di esclusione della punibilità dai confini così estesi.

Ciò, in particolare, qualora la Corte di Giustizia accogliesse i rilievi esposti dal Tribunale di Varese in una recente ordinanza di rinvio pregiudiziale (per leggere la quale, clicca qui), con cui sono state rimesse al vaglio dei giudici di Lussemburgo alcune questioni interpretative relative alla nuova disciplina dei reati tributari, tra le quali figura anche quella attinente alla possibilità che l'art. 325 § 1 TFUE, l'art. 4 § 3 TUE e varie disposizioni della direttiva 2006/112[12] vadano interpretate in senso inconciliabile con quanto previsto dall'art. 13 cit. Secondo quanto si legge nell'ordinanza del Gip di Varese, infatti, tali disposizioni sarebbero ostative "alla promulgazione di una norma nazionale che esclude la punibilità dell'imputato...qualora l'ente dotato di personalità giuridica ad esso riconducibile abbia provveduto al pagamento tardivo dell'imposta e delle sanzioni amministrative dovute a titolo di IVA, nonostante l'accertamento fiscale sia già intervenuto e si sia provveduto all'esercizio dell'azione penale...."[13]. Nella medesima ordinanza, il giudice di Varese ha espresso la propria perplessità circa la compatibilità dell'assetto legislativo predisposto dalla riforma dei reati tributari - con particolare riferimento anche all'esimente di cui all'art. 13 cit. - rispetto ai "principi di effettività, proporzionalità e dissuasività previsti dal diritto europeo...atteso che un tale sistema non appare in grado di assumere alcun effetto deterrente proprio nei confronti delle persone fisiche chiamate ad espletare funzioni di rilievo in ambito tributario negli enti dotati di personalità giuridica"[14]. Non pare dunque assurdo prospettare che la Consulta, nel risolvere la questione di legittimità sollevata dal Tribunale di Treviso, si possa trovare a tener conto anche di tali profili di diritto sovranazionale e, magari, dell'intervenuta pronuncia della Corte di Giustizia in 'risposta' ai quesiti posti dal giudice di Varese.

 


[1] Su tale attenuante si tornerà infra, cfr § 8.

[2] Relazione illustrativa alla riforma, p. 11. Le medesime motivazioni venivano riportate nella Relazione allo "schema di riforma" presentato dal Governo lo scorso giugno (p. 8), sul quale cfr. Cavallini S., Osservazioni 'di prima lettura' allo schema di decreto legislativo in materia penaltributaria, 20 luglio 2015; nonché, volendo, Finocchiaro S., Sull'imminente riforma in materia di reati tributari: le novità contenute nello 'schema' di decreto legislativo, 16 luglio 2015.

[3] Cfr. ordinanza, p. 5.

[4] Cfr. ordinanza, pp. 6 e 7.

[5] Cit. ordinanza, pp. 7 s., richiamando sul punto: Cass. pen., sez. III, 12 marzo 2015, n. 15853.

[6] Cfr. ordinanza, p. 8.

[7] Sul punto, il Tribunale di Treviso si pone in linea con quanto affermato nella citata sentenza della Cassazione (Cass. pen., sez. III, 12 marzo 2015, n. 15853), ove si legge: "nel momento stesso in cui accede alla relativa procedura il debitore passa dalla gestione autonoma e quindi 'privata' dei suoi debiti a uno strumento il quale, pur dando spazio agli interessi privati per conformarsi in concreto, è qualificabile come pubblico, come emerge chiaramente dalla legge fallimentare che lo disciplina". E aggiunge: "se, dunque [...] il concordato preventivo non è una manifestazione di autonomia negoziale, bensì un istituto prevalentemente pubblicistico (che poi il suo stesso accesso sia libera scelta da parte dell'imprenditore in crisi è vero fino a un certo punto, poiché l'alternativa, perlomeno quando la situazione di crisi coincide con lo stato di insolvenza, è il fallimento), è più che illogico considerare ciò tamquam non esset ai fini penali, dissociando settori parimenti pubblicistici dell'ordinamento, ovvero consentendo da un lato al giudice fallimentare di ammettere al concordato preventivo l'imprenditore che nel suo piano progetta di commettere un reato e poi di omologare la deliberazione con cui i creditori hanno approvato (anche) un siffatto progetto criminoso, e dall'altro al giudice penale di sanzionare il soggetto che ha eseguito un accordo omologato (la cui relativa domanda era stata, tra l'altro, ab origine comunicata al pubblico ministero) condannandolo per il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-ter".

[8] Cfr., ad es., Cass. pen., sez. III, 14 maggio 2013, n. 44283, secondo cui "l'accesso alla procedura di concordato preventivo è atto di autonomia privata, d'iniziativa del debitore, che mira a sfociare nel c.d. patto concordatario con i creditori. Una scelta di questo genere, tutta interna alla volontà del debitore, non può portate, come sua conseguenza, ad elidere gli obblighi giuridici, specie quelli aventi rilievo pubblicistico, come la previsione del versamento dell'IVA alla scadenza di legge, la cui omissione è sanzionata penalmente".

[9] Così prevedeva l'art. 13 d.lgs. 74/2000, nella sua formulazione precedente all'intervento della riforma operata con il d.lgs. 158/2015. Secondo l'opinione prevalente, invece, il ravvedimento ex art. 14, comma 5 l. 408/1990 non era (più) in grado di escludere la punibilità per i reati tributari del d.lgs. 74/2000, riferendosi tale norma solamente ai non più esistenti reati fiscali di cui al d.l. 429/1982, conv. in l. 516/1982 (ma, contra: E. Mastrogiacomo, Commento all'art. 13, in I. Caraccioli, A. Giarda, A. Lanzi, Diritto e procedura penale tributaria, Padova, 2001, p. 405, ss.).

[10] Così, ad es., Cass. pen., sez. III, 16 luglio 2014, n. 37748; cfr. Cass. pen, sez. III, 27 novembre 2013, n. 5681.

[11] Comporta, infatti, la diminuzione della pena "fino alla metà" (cfr. art. 13-bis, comma 1).

[12] Seppur non specificamente in relazione all'art. 13 cit., bensì con riferimento alle nuove soglie di punibilità previste dall'art. 10-ter d.lgs. 74/2000, l'ordinanza del Tribunale di Varese fa altresì riferimento all'art. 2 § 1 Convenzione PIF (Convenzione per la tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee del 26 luglio 1995) il cui art. 2 § 1 recita ogni Stato membro prende le misure necessarie affinché le condotte di frode lesiva degli interessi finanziari dell'Unione europea, definiti all'art. 1 della medesima Convenzione, siano "passibili di sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive che comprendano, almeno, nei casi di frode grave, pene privative della libertà che possono comportare l'estradizione , rimanendo inteso che dev'essere considerata frode grave qualsiasi frode riguardante un importo minimo da determinare in ciascuno Stato membro. Tale importo minimo non può essere superiore a 50.000 ECU".

[13] Cit. Trib. Varese, ord. 31 ottobre 2015, Gip Sala, p. 20.

[14] Alla questione relativa alla compatibilità del nuovo articolo 13 d.lgs. 74/2000 rispetto ai citati principi europei è dedicato l'intero paragrafo 5.2 dell'ordinanza del Tribunale di Varese, alla quale si rinvia per ogni ulteriore dettaglio.