ISSN 2039-1676


30 giugno 2017 |

Non punibilità per particolare tenuità del fatto e reato continuato

Osservazioni su G.I.P. Rovereto, sent. 16 marzo 2017, n. 38, Giud. Dies

Contributo pubblicato nel Fascicolo 6/2017

Per leggere il testo della sentenza in commento, clicca in alto su "visualizza allegato".

 

1. Con la sentenza qui pubblicata il G.I.P. presso il Tribunale di Rovereto ha assolto l’imputata dal reato di concorso in truffa ai danni di un ente pubblico a lei ascritto ex artt. 110, 640, co. 2, n. 1, per particolare tenuità del fatto ai sensi dell’art. 131-bis c.p.

E fin qui niente di nuovo sul fronte occidentale.

Singolare è, invece, la strada intrapresa dal giudice per giungere all’applicazione della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto introdotta con il d.lgs. n. 28 del 2015, sulla quale ci soffermeremo in questa sede.

Due, in particolare, i profili di interesse:

a) la rilevanza delle condotte riparatorie successive al reato nella valutazione in termini di particolare tenuità dell’offesa;

b) la valutazione della condotta come ‘sostanzialmente unitaria’ con conseguente esclusione della causa ostativa all’applicabilità della causa di esclusione della punibilità rappresentata dall’abitualità del comportamento ai sensi del comma 3 dell’art. 131-bis c.p.

 

2. Ma partiamo dal fatto. L’imputata è accusata di aver utilizzato la tessera relativa ai buoni pasto – nominativa, non cedibile e rilasciata ad uso esclusivo della madre (dipendente di un istituto comprensivo), che gliel’aveva precedentemente consegnata – al fine di consumare 41 pasti nell’arco di sette mesi, con artifici e raggiri consistiti nell’essersi sostituita a quest’ultima, così inducendo in errore l’amministrazione circa il reale soggetto utilizzatore della tessera e, in sostanza, il reale fruitore dei pasti. Tale condotta truffaldina avrebbe quindi consentito all’imputata di procurarsi un ingiusto profitto, con conseguente danno per l’ente pubblico – ciò che ha determinato la contestazione della circostanza aggravante di cui all’art. 640, co. 2, n. 1 – quantificato in 246,00 euro.

Tale ricostruzione del fatto non è stata, peraltro, oggetto di contestazione da parte della difesa, che si è limitata a sostenere che i pasti, ancorché ritirati dalla figlia, fossero poi stati consumati a tutti gli effetti dalla madre. L’assunto difensivo è stato tuttavia agevolmente respinto dal G.I.P., che ha valorizzato le dichiarazioni pienamente confessorie rese dalla madre nel corso del procedimento disciplinare e il successivo risarcimento del danno con ulteriore versamento di 500,00 euro «in segno di resipiscenza», devoluto da quest’ultima «in favore dell’Amministrazione scolastica per lo svolgimento proficuo delle sue attività istituzionali».

Sotto il profilo dell’elemento soggettivo, poi, a parere del giudice di prime cure è indubbio che l’imputata fosse «ben consapevole di utilizzare la tessera della madre da lei ricevuta proprio al fine di commettere la truffa ai danni dell’ente pubblico». Anche l’eventuale ignoranza delle conseguenze penali della propria condotta – prosegue il giudice – non rileverebbe ai sensi dell’art. 5 c.p., così come interpretato alla luce della nota sentenza della Corte Costituzionale n. 364/1988, poiché si tratterebbe in ogni caso di errore imputabile a colpa dell’imputata.

Ritenuto, quindi, integrato il reato di truffa ai danni di ente pubblico in tutti i suoi elementi oggettivi e soggettivi, il giudice decide tuttavia di espungere il caso di specie dall’area della punibilità poiché ritenuto immeritevole di pena considerata la particolare tenuità del fatto

 

3.  Prima di soffermarci sulla valutazione in termini di particolare tenuità del fatto effettuata dal G.I.P. può essere utile ricordare i due momenti fondamentali in cui si articola tale giudizio: in prima battuta, occorre verificare che si tratti di offesa di particolare tenuità avuto riguardo alle modalità della condotta e all’esiguità del danno o del pericolo, da valutarsi alla luce degli indici di cui all’art. 133, comma 1, c.p. Il rinvio operato dall’art. 131-bis c.p. chiama dunque in causa i soli indici che concorrono a delineare la gravità del reato: la natura, specie, mezzi, oggetto, tempo, luogo e ogni altra modalità dell’azione; la gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato; l’intensità del dolo o il grado della colpa. Viceversa, non vengono richiamati i diversi indici da cui desumere la capacità a delinquere del reo: i motivi a delinquere e il carattere del reo; i precedenti penali e giudiziari e, in genere, la condotta e la vita del reo, antecedenti al reato; la condotta contemporanea o susseguente al reato; le condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo; che, dunque, quantomeno secondo un’interpretazione letterale del dettato normativo, non dovrebbero giocare nessun ruolo nella determinazione della particolare tenuità del fatto.   

In seconda battuta, il giudice deve verificare che non si tratti di comportamento abituale dovendosi intendere tale – a norma del comma 3 dell’art. 131-bis c.p. – quello di colui che è stato «dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza» ovvero «abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità, nonché nel caso in cui si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate».

 

4. Ebbene, tornando al caso di specie, il giudice di prime cure reputa innanzitutto che l’offesa sia particolarmente tenue sulla scorta di due ordini di considerazioni. Quanto alle modalità della condotta, il giudice ritiene che gli artifici e raggiri posti in essere dall’imputata, consistiti per l’appunto nell’essersi sostituita alla madre, non siano stati particolarmente elaborati ed anzi «piuttosto ingenui, tanto da essere facilmente smascherati» e, d’altro canto, valorizza la «scarsa intensità dell’elemento soggettivo» in ragione della più che probabile «non consapevolezza della rilevanza penale del proprio comportamento, ancorché ascrivibile a colpa dell’imputata». Quanto all’esiguità del danno, invece, il giudice – pur non ritenendo il danno «del tutto minimale» – valuta come decisivo l’avvenuto risarcimento del danno effettuato dalla madre che, come sopra ricordato, ha altresì corrisposto un’ulteriore somma di denaro, in segno di resipiscenza, per lo svolgimento delle attività istituzionali dell’istituto comprensivo.

Sotto quest’ultimo profilo, sono due, in buona sostanza, gli argomenti spesi dal giudice di merito a sostegno della propria decisione di attribuire rilevanza alle condotte riparatorie ai fini della valutazione in termini di particolare tenuità del fatto:

a)  da un lato, la non decisività dell’argomento letterale rappresentato dal rinvio effettuato dall’art. 131-bis c.p. al solo comma 1 dell’art. 133 c.p. e non anche al comma 2, ove si colloca il criterio della «condotta contemporanea o susseguente al reato». Secondo l’interpretazione fornitane dal giudice di prime cure, infatti, gli indici attinenti alla gravità del reato sono da intendersi quali criteri obbligatori in punto di tenuità del fatto, ma non esclusivi, ben potendo quindi il giudice del caso concreto prendere in considerazione anche i diversi indici di cui al comma 2. E ciò anche sulla base del rilievo per cui «la ragione profonda della nuova causa di non punibilità riposa su una prudente valutazione del caso concreto secondo variabili difficilmente preventivabili in via astratta e che è bene sia perciò sottratta ad automatismi interpretativi e a rigidi formalismi, in assenza di inequivoche previsioni di legge»;

b) dall’altro – sul piano sistematico – la «forte vicinanza tra la nuova causa di non punibilità e le cause di estinzione del reato», tra l’altro alla luce del maggior ruolo in bonam partem che le condotte riparatorie assumono, a diverso titolo, nel nostro ordinamento, sì che sancire l’irrilevanza delle stesse ove si discuta della particolare tenuità del fatto «sembra proprio un vuoto formalismo, non giustificato né dalla lettera né dalla ratio della legge»[1].

 

5.  A questo punto, il giudice passa ad analizzare il secondo indice-criterio per la valutazione in termini di tenuità del fatto: la non abitualità del comportamento. Ed è a tal proposito che il G.I.P. affronta il vero punctum dolens della vicenda: stabilire se la condotta ascritta all’imputata possa essere sussunta in taluna delle presunzioni di abitualità indicate nel comma 3 dell’art. 131-bis c.p., ostative, per l’appunto, all’applicazione della causa di esclusione della punibilità: ed in particolare, l’aver «commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità» ovvero «reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate». Due le strade che il G.I.P. ritiene astrattamente percorribili: considerare «in modo frazionato la condotta di consumazione dei 41 pasti nell’arco dei circa 6-7 mesi cui si riferisce l’imputazione», con conseguente riconoscimento del requisito dell’abitualità del comportamento ed esclusione della possibilità di applicare l’art. 131-bis c.p.; ovvero considerare la condotta illecita in maniera unitaria, con conseguente possibilità di applicare la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto. Quest’ultima è la soluzione ermeneutica sposata dal giudice di prime cure che, in particolare, ritiene che la condotta ascritta all’imputata sia «sostanzialmente unitaria» in virtù del fatto che essa si fonda «su un unico artifizio e raggiro, consistente nella cessione una tantum della tessera dei buoni pasto dalla madre alla figlia affinché questa se ne potesse servire all’occorrenza, con la conseguenza che deve ritenersi, ai presenti fini, come un’unica condotta che realizza un unico reato di truffa che si integra con la consumazione del primo pasto ma si aggrava via via con la consumazione dei pasti successivi, senza tuttavia integrare reati ulteriori». A supporto di tale conclusione, il giudice di prime cure valorizza la scelta del P.M. di contestare, nel capo di imputazione, non già una pluralità di reati eventualmente avvinti dal vincolo della continuazione, bensì un unico reato, ciò che deporrebbe nel senso di una valutazione in termini di «interdipendenza dei singoli atti esecutivi, da valutarsi sotto il profilo giuridico in via unitaria».

Una volta verificata, quindi, la sussistenza di tutti i requisiti prescritti dalla norma, il giudice applica la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, così assolvendo l’imputata dal reato di truffa a lei ascritto.

 

6. L’ultimo profilo affrontato dal giudice di prime cure è, infine, quello della possibilità di estendere l’assoluzione per particolare tenuità del fatto nei confronti della madre, condannata con decreto penale di condanna divenuto esecutivo e tuttavia sospeso, ai sensi dell’art. 463 c.p.p., in attesa della definizione del giudizio nei confronti della figlia, che invece aveva tempestivamente opposto il decreto.  Il giudice di prime cure ritiene che in tal caso possa applicarsi l’art. 587 c.p.p., a norma del quale l’impugnazione proposta solo da taluno dei concorrenti nel medesimo reato può giovare anche agli altri coimputati, purché non sia fondata su «motivi esclusivamente personali». Stabilita l’applicabilità di tale norma, è quindi dirimente determinare se la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto possa o meno essere considerata come munita di quel carattere di esclusiva personalità che impedisce agli altri concorrenti di giovarsi dell’esito oppositivo. A tal proposito il G.I.P. ammette – in linea di principio – che un fatto particolarmente tenue è tale in relazione a tutti i concorrenti, salvo tuttavia sottolineare come da ciò non derivi necessariamente l’applicabilità a tutti i partecipi della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto. Ciò discenderebbe, in particolare, dalla possibilità che sia svolto un diverso apprezzamento, da un lato, del requisito della non abitualità del comportamento – «come può accadere ad es. se un reato di minima lesività sia commesso da un incensurato e da un recidivo reiterato» –; dall’altro, dell’intensità del dolo e del grado della colpa che – in virtù del già visto richiamo operato dall’art. 131-bis c.p. agli indici di cui all’art. 133, comma I, c.p. – entrano in gioco nella valutazione della tenuità dell’offesa. Fatta questa premessa, nel caso di specie il G.I.P. ritiene che proprio «l’intensità del [suo] dolo e la riprovevolezza della [sua] colpevolezza» in capo alla madre – considerata come «la maggior responsabile del reato commesso» – precludano l’estensione dell’assoluzione anche a quest’ultima, ancorché del tutto incensurata.

 

***

 

7. Assumendo come punto di partenza il dato relativo alla decisione del G.I.P. di sussumere il caso di specie nella fattispecie di truffa aggravata di cui all’art. 640, co. II, n. 1 e rinviando ad altra sede per più autorevoli e meditati commenti, siano consentite alcune riflessioni sintetiche sulla causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis c.p.

Certamente, se guardiamo al risultato, ci pare pienamente condivisibile la scelta del giudice di applicare al caso di specie la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto: in fin dei conti, il disvalore della condotta dell’imputata si sostanzia nell’essersi sostituita alla madre per usufruire di alcuni pasti gratuiti e il danno cagionato all’ente pubblico – oltre che essere stato integralmente risarcito – ci pare in sé di modico valore (246 euro). Tuttavia, non ci persuadono fino in fondo le argomentazioni spese dal giudice di prime cure per addivenire a tale risultato. Forse era percorribile un’altra strada – che proveremo a delineare nel prosieguo – certamente più impervia e che tuttavia, a nostro modesto avviso, appare maggiormente conforme alla disciplina dell’art. 131-bis c.p.

 

8.  In primo luogo, non convince del tutto la scelta del G.I.P. di attribuire rilievo – ai fini della valutazione della tenuità dell’offesa sub specie di esiguità del danno – alle condotte riparatorie successive al reato.

Decisivo in tal senso ci pare il dato testuale: la volontà del legislatore di fare esclusivo riferimento agli indici di cui all’art. 133, co. I, c.p. nell’enucleazione dei parametri da tenere in considerazione al fine di valutare la tenuità dell’offesa pare espressiva di una precisa scelta, e non frutto di una svista. Tale scelta troverebbe le proprie radici nell’idea di ancorare, quanto più possibile, la valutazione in termini di tenuità del fatto a requisiti di carattere marcatamente oggettivo e, dunque, «di “sganciare” per quanto possibile il giudizio d’irrilevanza da accertamenti di tipo psicologico-soggettivistico»[2]. Da qui, la scelta di richiamare i soli indici che attengono alla gravità del reato e non già quelli che riguardano la capacità a delinquere, tra i quali compare appunto quello relativo alle condotte successive al reato, quali quelle riparatorie.

È pur sempre vero che «la formula adottata è ben lungi dall’escludere qualsiasi rilevanza dell’elemento soggettivo del reato» e questo anche perché «l’indice-criterio della modalità della condotta si presta benissimo e del tutto naturalmente a una valutazione sia del grado della colpa, sul presupposto che la violazione delle regole cautelari concorre ad integrare il modo di manifestarsi della (tipicità della) condotta; sia dell’intensità del dolo, sul presupposto che assai spesso quest’ultima si riverbera e si traduce nell’adozione da parte dell’autore di determinate modalità esecutive della condotta»[3]; ciò che d’altronde trova conferma nel rinvio operato dall’art. 131-bis all’art. 133, co. 1, c.p. nel suo complesso, ivi compreso l’indice dell’intensità del dolo e il grado della colpa. Ma si ritiene che permanga una certa differenza tra la valutazione del coefficiente soggettivo che ha accompagnato la realizzazione del fatto che si assume tenue – che ben può riflettersi sulle modalità della condotta – e la valutazione in termini di ‘capacità a delinquere’ del reo, cui invece ineriscono le valutazioni circa le eventuali condotte riparatorie poste in essere successivamente al reato[4]. A ciò si aggiunga, peraltro, che nel caso di specie il risarcimento del danno non è stato posto in essere dall’imputata, bensì dalla madre.

Infine, non convince la relazione di somiglianza instaurata dal G.I.P. tra l’art. 131-bis c.p. e le cause di estinzione del reato: non solo non pare esservi una ratio comune tra i due istituti, ma soprattutto occorre tenere a mente come il reato giudicato particolarmente tenue venga iscritto nel certificato del casellario giudiziale (e dunque continui ad esistere) e, ai sensi dell’art. 651-bis c.p.p., «la sentenza penale irrevocabile di proscioglimento pronunciata per particolare tenuità del fatto in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e dell’affermazione che l’imputato lo ha commesso, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno»[5]; sì che pare assai difficile avvicinare tale istituto alle cause di estinzione del reato.

D’altro canto, anche a voler escludere rilievo alle condotte riparatorie successive al reato, a nostro modesto avviso, il giudice sarebbe potuto egualmente pervenire ad una valutazione in termini di esiguità del danno valorizzando adeguatamente l’estrema modestia del danno patrimoniale cagionato all’amministrazione.

 

9. In secondo luogo, poi, non convince fino in fondo la valutazione in termini di «sostanziale unitarietà della condotta» operata dal G.I.P. al fine di escludere l’abitualità del comportamento.

Tale unitarietà – cui è conseguita la valutazione in termini di integrazione di un unico reato di truffa –, come si è visto, deriverebbe dal fatto che la condotta si sia fondata su «un unico artificio e raggiro, consistente nella cessione una tantum della tessera dei buoni pasto dalla madre alla figlia affinché questa se ne potesse servire all’occorrenza».  Il giudice di prime cure però, a ben vedere, ha preso in considerazione unicamente la condotta atipica posta in essere dalla madre – la cessione della tessera – senza tenere in alcuna considerazione la condotta, tipica, posta in essere dalla figlia, ricostruita nei termini della sostituzione di quest’ultima alla madre con conseguente induzione in errore dell’amministrazione circa il soggetto utilizzatore della tessera. Ora, è vero che si è in presenza di una manifestazione concorsuale della fattispecie di truffa, ma non pare si possa non tenere conto – ai fini della valutazione in termini di tenuità del fatto – anche della condotta realizzata dalla figlia, investendo il giudizio di particolare tenuità «la caratterizzazione del fatto storico nella sua interezza»[6]. Ciò, a maggior ragione ove si consideri che l’art. 131-bis c.p. non configura una causa di esclusione della punibilità puramente oggettiva, ma al contrario esige il compimento di valutazioni che investono la figura del singolo individuo con riferimento al quale ne venga vagliata l’applicabilità. In altri termini, posto che il 131-bis c.p. richiede che, tra gli altri elementi, siano considerati: le modalità della condotta; l’intensità del dolo e il grado della colpa – per effetto del rinvio operato dalla norma in parola ai criteri di cui all’art. 133, co. I c.p. – e l’abitualità del comportamento; si ritiene che nelle ipotesi di concorso di persone nel reato il giudice debba valutare la sussistenza di tutti i presupposti applicativi con riferimento a ciascuno dei concorrenti nel reato, poiché in ultima analisi la conformazione di tale istituto pare rispecchiare «considerazioni inerenti all’opportunità di non punire la singola persona, che ha posto in essere con determinate modalità e con un certo coefficiente psicologico il fatto che costituisce reato»[7]. E dunque, nelle ipotesi di concorso di persone nel reato tale causa di esclusione della punibilità deve essere considerata, ai sensi dell’art. 119, co. I c.p., quale ‘circostanza soggettiva’ che può applicarsi solo a coloro tra i concorrenti cui essa, in concreto, si riferisce.

Tornando al caso di specie, dunque, ci pare che il giudice avrebbe dovuto verificare la (in-)sussistenza dell’indice dell’abitualità del comportamento – e più in generale vagliare l’applicabilità dell’art. 131-bis c.p. – non già con riferimento alla condotta posta in essere dalla madre, quanto piuttosto con riferimento alla condotta posta in essere dalla figlia.

Se così è, ci pare assai difficile parlare di «unica condotta che realizza un unico reato di truffa».

Non è certo possibile approfondire in questa sede il tema relativo alla teoria generale dell’azione; basti qui ai nostri fini ricordare, come sostenuto da autorevole dottrina, che anche a fronte di una pluralità di azioni sul piano epifenomenico è possibile parlare di unità del reato, ma ciò a condizione che «più azioni, ciascuna integrante il modello legale di un medesimo reato, vengano poste in essere contestualmente e con un’unica persona offesa»[8].

Ed è proprio l’unicità del contesto spazio-temporale a difettare nel caso di specie: le azioni dell’imputata, infatti, si dipanano in un lungo arco temporale (7 mesi) e si caratterizzano, ogni volta, per la reiterazione degli artifici e raggiri con conseguente induzione in errore del soggetto di volta in volta preposto all’erogazione dei pasti; ancorché in definitiva il soggetto passivo sia sempre l’amministrazione. Alla luce di tale considerazione, parrebbe che ciascuno dei segmenti – impiego della tessera appartenente alla madre così sostituendosi a quest’ultima/induzione in errore del soggetto che fornisce il pasto/compimento dell’atto dispositivo rappresentato dalla consegna del pasto gratuito/conseguimento di profitto ingiusto con danno patrimoniale per l’amministrazione – integri ogni volta un reato di truffa, quindi tante truffe quanti sono gli episodi verificatisi.

Prima però di sciogliere definitivamente l’alternativa tra unità-pluralità di reati in favore del secondo termine occorre vagliare la possibilità di sussumere il caso di specie nella fattispecie di creazione giurisprudenziale della c.d. truffa a consumazione prolungata. Se ciò fosse possibile, infatti, dovremmo concludere di essere comunque in presenza di un unico reato, salvo poi ulteriormente verificare la possibilità di considerare non abituale la condotta della figlia ai sensi del 131-bis c.p. Tuttavia, nemmeno tale soluzione ermeneutica pare praticabile: a quanto ci consta, infatti, la giurisprudenza sembra ricondurre a tale schema di incriminazione ipotesi in cui – a fronte di un’unica condotta qualificabile in termini di artificio o raggiro – facciano seguito una pluralità di atti dispositivi, senza ulteriori condotte fraudolente[9].

Esclusa anche tale ipotesi, ci pare che non possa concludersi se non nel senso di essere in presenza di una pluralità di condotte che integrano una pluralità di reati di truffa.

Ciò premesso, tuttavia, riteniamo che l’unicità potesse essere valorizzata, nel caso di specie, quale unicità dello scopo perseguito dalla figlia – che pare ricostruibile nel senso della volontà di beneficiare di pasti gratuiti – così da riconoscere nel caso di specie la sussistenza di un ‘medesimo disegno criminoso’ ai fini dell’applicazione della disciplina del reato continuato ex art. 81, co. 2. c.p.

Certo, a questo punto il giudice di prime cure avrebbe dovuto affrontare il tema spinoso della possibilità di applicare la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto nelle ipotesi di reati avvinti dal vincolo della continuazione: un quesito al quale, tuttavia, avrebbe potuto fornire risposta positiva per le ragioni che proveremo di seguito ad illustrare.

 

10. La possibilità di applicare l’art. 131-bis c.p. nelle ipotesi di reati uniti dal vincolo della continuazione parrebbe incontrare – prima facie – due ostacoli: in prima battuta, sarebbe necessario escludere che il reato continuato – nelle ipotesi in cui il medesimo disegno criminoso abbracci reati che costituiscano una violazione ripetuta della medesima norma incriminatrice – sia riconducibile alla nozione di «più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità»; in seconda battuta, sarebbe altresì necessario escludere che il reato continuato sia sussumibile nella diversa ipotesi di «reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali o reiterate».

D’altronde, la stessa Corte di Cassazione esclude, in maniera pressoché granitica, la possibilità di applicare l’art. 131-bis c.p. nelle ipotesi di reati legati dal vincolo della continuazione, proprio in virtù dell’identificazione del reato continuato quale ipotesi di “comportamento abituale”, ostativo al riconoscimento del beneficio[10]. A fortiori, nelle ipotesi di omogeneità tra i reati avvinti dal vincolo della continuazione, la Suprema corte ha sempre ribadito come «si ponga in contraddizione normativa con l‘ipotesi di fatto di particolare tenuità l’ipotesi del reato continuato omogeneo, essendo questo costituito dalla reiterazione della medesima condotta penalmente illecita volta al perfezionamento di un unitario disegno criminoso»[11].

Tale orientamento di rigida chiusura non ci persuade fino in fondo. Invece, ci paiono più convincenti gli argomenti spesi in senso contrario proprio da una recente sentenza della Suprema corte, che si distingue dal coro dei dinieghi fornendo validi argomenti proprio per superare i due ostacoli cui si è accennato, ammettendo così la possibilità di applicare la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto anche alle ipotesi di reati uniti dal vincolo della continuazione[12].

Quattro, in particolare, gli snodi argomentativi individuati dalla Corte a sostegno della propria conclusione.

Innanzitutto, i giudici valorizzano la scelta del legislatore di ricorrere ad un concetto diverso da quello di occasionalità al fine di assicurare all’istituto un «più esteso ambito di operatività, escludendovi solo quei comportamenti espressivi di una seriazione dell’attività criminosa e di un’abitudine del soggetto a violare la legge». Ciò, peraltro – aggiungiamo noi – potrebbe trovare conferma nel fatto che il legislatore abbia scelto di non inserire la recidiva tra le condizioni in sé ostative all’applicabilità dell’art. 131-bis c.p. La necessità di operare, poi, una valutazione più ampia rispetto a quella di occasionalità parrebbe confermata, d’altro canto, dall’affermazione contenuta nella relazione illustrativa in base alla quale «si può ipotizzare che il concetto di non abitualità del comportamento implichi che la presenza di un precedente giudiziario non sia di per sé sola ostativa al riconoscimento della particolare tenuità del fatto».

In seconda battuta, poi, la Corte ritiene che la condizione ostativa rappresentata dalla commissione di più reati della stessa indole non sia «per nulla sovrapponibile» all’ipotesi del reato continuato, rispondendo al contrario tale presunzione di abitualità all’intento di escludere dall’ambito di applicazione della nuova causa di non punibilità «comportamenti espressivi di una sorta di “tendenza o inclinazione al crimine”».

In terzo luogo, la Corte esclude che il reato continuato sia sussumibile nella diversa locuzione dei ‘reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate’, riferendosi quest’ultima piuttosto a «reati che strutturalmente richiedono che l’agente ponga in essere condotte reiterate nel tempo o abituali».

Infine, i giudici sottolineano come l’esclusione del reato continuato dall’ambito di applicazione dell’art. 131-bis c.p. equivarrebbe a perseguire un «effetto contrario alla intentio legis» non solo in virtù del trattamento di sfavore che sarebbe riservato all’imputato di reati uniti dal vincolo della continuazione – ciò che si pone in contraddizione con il regime sanzionatorio di favore di cui all’art. 81 c.p. –, ma altresì in considerazione della frustrazione degli obiettivi di deflazione processuale, pure perseguiti dal legislatore, «il cui conseguimento risulterebbe notevolmente limitato qualora si escludesse automaticamente la possibilità di una declaratoria di particolare tenuità del fatto in presenza di più reati uniti dal vincolo della continuazione». Anche tale argomento pare cogliere nel segno. E infatti, precludere in radice la possibilità di applicare l’art. 131-bis c.p. nelle ipotesi di reato continuato, condurrebbe – «anche in considerazione della facilità con cui in giurisprudenza viene riconosciuta la continuazione – ad ottenere l’effetto contrario, confinando l’applicazione dell’istituto ai soli comportamenti isolati – occasionali verrebbe da dire –, risultato che si voleva evitare, appunto, preferendo il concetto di ‘non abitualità’»[13].

Il che, come precisa la Corte, non equivale certo a sostenere che i reati uniti dal vincolo della continuazione possano comunque beneficiare della causa di esclusione della punibilità, ma semplicemente che sarà rimesso al giudice del caso concreto il compito di soppesare «sulla base dei due indici-requisiti della modalità della condotta e dell’esiguità del danno e del pericolo […] l’incidenza della continuazione in tutti i suoi aspetti (tra questi: gravità del reato, capacità a delinquere, precedenti penali e giudiziari, durata temporale della violazione, numero delle disposizioni di legge violate, effetti della condotta antecedente e contemporanea o susseguente al reato, interessi lesi e/o perseguiti dal reo, motivazioni – anche indirette – sottese alla propria condotta) per giungere ad esprimere un giudizio di meritevolezza o meno al riconoscimento della causa di non punibilità».

E così, seguendo la logica della Corte, il reato continuato non rientrerebbe in sé in nessuna delle due preclusioni ostative all’applicabilità dell’art. 131-bis c.p.: non in quella dei ‘reati della stessa indole’ – da confinarsi alle sole ipotesi di comportamenti espressivi di una vera e propria inclinazione al crimine –; non in quella dei ‘reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali o reiterate’, non avendo i reati uniti dal vincolo della continuazione uno schema di incriminazione che strutturalmente richiede, per lo meno non necessariamente, la ripetizione delle condotte nella triplice veste richiesta dal legislatore.

A sostegno di tale conclusione potrebbero poi valorizzarsi ulteriori argomenti.

Da un lato, un’ulteriore via per escludere che il reato continuato rientri nella nozione di «più reati della stessa indole» potrebbe essere quella di far leva sull’insegnamento della Suprema corte che, a sezioni unite, ammette espressamente la possibilità di considerare il reato continuato in maniera unitaria – anche ove ciò non avvenga per gli effetti espressamente previsti dalla legge – purché ciò garantisca un risultato favorevole al reo; in linea con l’idea che l’istituto della continuazione sia ispirato alla logica del favor rei[14]. Seguendo tale impostazione, dunque, nelle ipotesi di reato continuato, difetterebbe quel requisito della pluralità dei reati necessario per integrare la presunzione di abitualità del comportamento, con conseguente superamento della relativa impasse.

Non solo. L’esito ermeneutico che qui si sostiene appare più ragionevole anche ove si valuti un ulteriore aspetto. L’esclusione tout court del reato continuato dall’ambito applicativo dell’art. 131-bis c.p. potrebbe generare incongruenze sistematiche ove si consideri che, al contrario, la giurisprudenza ammette la possibilità di applicare la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto nelle ipotesi di concorso formale di reati[15]. Con ciò non si vuole affermare che si tratti di due ipotesi identiche, ma sottolineare come – ai fini della valutazione in termini di abitualità del comportamento – tale disparità di trattamento non pare ispirarsi al canone della ragionevolezza[16].

Da ultimo, potrebbe forse valorizzarsi la ratio di favore che sottende l’istituto del reato continuato – è meno riprovevole colui che cede ai motivi a delinquere una volta sola, quando cioè concepisce il disegno criminoso[17] – per sottolineare come appaia poco coerente un’eventuale preclusione assoluta di applicazione dell’art. 131-bis c.p. rispetto ad un istituto ispirato alla logica del favor rei.

Tirando le fila del discorso, nel caso di specie, anche ove il G.I.P. avesse intrapreso la strada del riconoscimento, di una pluralità di truffe unite dal vincolo della continuazione, avrebbe avuto buoni argomenti da spendere – a nostro modesto avviso – per riconoscere egualmente la particolare tenuità del fatto, valorizzando i singoli ‘episodi’ alla luce degli indici-requisiti indicati dalla norma, episodi che, questa volta sì concordiamo pienamente, appaiono in concreto particolarmente tenui.  

 


[1] A sostegno di tale interpretazione il G.I.P. cita due sentenze di merito in senso conforme: Trib. Genova, 21.5.2015 e Trib. Velletri, 14.5.2015.

[2] Così la relazione di accompagnamento allo schema di decreto legislativo, § 3.

[3] Ibidem.

[4] Contra R. Dies, Questioni varie in tema di irrilevanza penale del fatto per particolare tenuità, in questa Rivista, 13 settembre 2015, p. 23, nt. 51.

[5] Le cause di estinzione del reato, invece, ai sensi dell’art. 198 c.p. implicano esclusivamente il permanere delle obbligazioni civili derivanti da reato.

[6] Così Cass. Sez. U, 6.4.2016, n. 13681, p. 9 in tema di compatibilità tra l’art. 131-bis c.p. e gli illeciti caratterizzati dalla presenza di soglie di punibilità.

[7] Così G. Alberti, La particolare tenuità del fatto (art. 131-bis): tre prime applicazioni da parte del Tribunale di Milano, in questa Rivista, 21.5.2015.

[8] G. Marinucci – E. Dolcini, Manuale di diritto penale. Parte generale, V edizione, p. 505.

[9] Per un’ampia panoramica sul punto, cfr. G.P. Demuro, Commento all’art. 640 c.p., in Codice penale commentato, a cura di E. Dolcini -G. Marinucci, IV edizione, 2015, Ipsoa, p. 1098 ss.

[10] Ex multis, Cass., sez. II, 15.11.2016, n. 2980; Cass., sez. V, 14.11.2016, n. 4852; Cass. sez. III, 30.11.2015, n. 47256; Cass. Sez. III, 13.7.2015, n. 29897; Cass. Sez. III, 1.7.2015, n. 43816.

[11] Così, Cass. sez. III, 14.2.2017, n. 6870

[12] Cass., sez. II, 29.3.2017, n. 19932, in Dejure

[13] Così G. Alberti, In tema di particolare tenuità del fatto e reato continuato, cit.

[14] Cass., Sez. U., 23.01.2009, n. 3286. In senso conforme, ex multis, Cass. sez. II, 8.7.2010, n. 28192; Cass. sez. I, 10.3.2009, n. 13003. Sul punto si vedano peraltro le ampie riflessioni di L. Brizi, L'applicabilità dell'art. 131-bis nelle ipotesi di continuazione dei reati: un dialogo davvero (im)possibile?, in Cass. pen., 2016, pp. 3269-3284. Per una panoramica dei diversi orientamenti dottrinali, G. Gualtieri, Commento all’art. 81 sub B), in Codice penale commentato, cit., p. 1513 ss.

[15] Cfr. Cass., sez. III, 8.10.2015 (dep. 27.11.2015), n. 47039.

[16] Sul punto si v. amplius L. Brizi, L'applicabilità dell'art. 131-bis nelle ipotesi di continuazione dei reati: un dialogo davvero (im)possibile?, cit.

[17] G. Marinucci – E. Dolcini, Manuale di diritto penale. Parte generale, cit., p. 516.