ISSN 2039-1676


21 novembre 2017 |

Le Sezioni Unite escludono il concorso tra i reati di porto illegale in luogo pubblico di arma comune da sparo e di porto in luogo pubblico di arma clandestina

Cass., SSUU, sent. 22 giugno 2017 (dep. 12 settembre 2017), n. 41588, Pres. Canzio, Rel. Montagni, Ric. La Marca

Contributo pubblicato nel Fascicolo 11/2017

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1. Con la sentenza che può leggersi in allegato, le Sezioni Unite della Cassazione, modificando un consolidato orientamento contrario della giurisprudenza di legittimità, hanno escluso il concorso formale tra i delitti di porto illegale in luogo pubblico di arma comune da sparo (artt. 4 e 7 della L. 2 ottobre 1967 n. 895) e di porto in luogo pubblico di arma clandestina (art. 23, I e IV comma, della L. 18 aprile 1975 n. 110). Secondo le S.U., infatti, tra le due fattispecie intercorre un rapporto di specialità, che esclude l’applicabilità della prima, generale, in favore della seconda, speciale[1].

Nel caso di specie, l’imputato era stato sorpreso mentre stava per accedere in una zona  aeroportuale con una pistola a salve, che aveva modificato per farla risultare idonea all’impiego di munizioni letali, rendendola perciò arma clandestina, ai sensi dell’art. 23 L. 110/1975. Per questo (unico) fatto, l’imputato veniva condannato sia in primo sia in secondo grado per entrambi i reati sopra menzionati – ritenuti in concorso formale tra loro ex art. 81, comma 1 c.p.

 

2. La Prima Sezione penale della Suprema Corte, investita del procedimento, ha rimesso il ricorso alle Sezioni Unite, ritenendo necessario prevenire un potenziale contrasto interpretativo.

2.1. Secondo l’orientamento giurisprudenziale maggioritario (sinora pressoché unanime) – seguito da numerose sentenze della Cassazione, dalla fine degli anni Settanta[2] fino a tempi molto recenti[3] – il delitto di cui agli artt. 2 e 4 della L. 895/1967 (detenzione e al porto di armi comuni da sparo) e il delitto di cui agli artt. 2 e 23 della L. 110/1975 (porto in luogo pubblico di armi comuni da sparo clandestine), concorrerebbero tra loro, tutelando beni giuridici diversi[4]: da una parte, l’esigenza di porre l’autorità in grado di conoscere con tempestività l’esistenza delle armi, dei luoghi ove esse si trovano e delle persone che le posseggono; dall’altra parte, l’interesse della pubblica amministrazione a che tutte le armi esistenti sul territorio nazionale siano controllate e munite dei prescritti segni di identificazione[5].

2.2. Per contro, secondo la tesi proposta dal ricorrente – e fatta propria dalla I Sezione della Cassazione nell’ordinanza di rimessione già pubblicata su questa Rivista – la fattispecie di cui agli artt. 2 e 23 L. 110/1975 (porto in luogo pubblico di arma clandestina) sarebbe l’unica configurabile, in quanto speciale.

 

3. Le S.U., come si è anticipato, hanno aderito alla seconda impostazione, in contrasto con la consolidata giurisprudenza contraria. Il problema che si pone riguarda l’individuazione delle norme incriminatrici applicabili in regime di concorso formale, a fronte della realizzazione, come nel caso di specie, di un’unica condotta materiale. Anzitutto, la sentenza annotata ricorda come la recente giurisprudenza delle S.U.[6] risulti consolidata nell’affermare che l’unico criterio idoneo a dirimere i casi di concorso apparente di norme vada rinvenuto nel principio di specialità ex art. 15 c.p.[7], che consente alla legge speciale di derogare a quella generale, nel caso in cui le diverse disposizioni penali regolino la “stessa materia”: più precisamente, norma speciale è quella che contiene tutti gli elementi costitutivi della norma generale e che presenta uno o più requisiti propri e caratteristici, in funzione specializzante, sicché l’ipotesi di cui alla norma speciale, qualora la stessa mancasse, ricadrebbe nell’ambito operativo della norma generale[8]. Ciò posto, il criterio di specialità deve intendersi e applicarsi in senso logico-formale, pertanto il presupposto della convergenza di norme risulta integrato solo in presenza di un rapporto di continenza tra fattispecie, alla cui verifica deve procedersi attraverso il confronto strutturale tra le norme incriminatrici astrattamente configurate, mediante la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definire le fattispecie di reato. Secondo l’impostazione adottata dalle Sezioni Unite, il riferimento all’interesse tutelato dalle norme incriminatrici non ha quindi immediata rilevanza ai fini dell’applicazione del principio di specialità[9]. Si potrà inoltre parlare di “stessa materia” – secondo quanto affermato dalla Suprema Corte – quando “il fatto penalmente rilevante involge l’accadimento storicamente verificatosi, tenuto anche conto dell’oggetto fisico su cui è caduta l’azione umana”.

 

4. Da segnalare infine, a tale ultimo proposito, che in un ampio passaggio della motivazione la sentenza annotata ha ritenuto di poter trarre conferma dell’anzidetta tesi (secondo cui “il riferimento all’interesse tutelato dalle norme incriminatrici da porre in comparazione non ha immediata rilevanza ai fini dell’applicazione del principio di specialità”) richiamando una recente pronuncia della Corte Costituzionale (Corte cost. n. 200/2016)[10] che – su un terreno diverso – ha affrontato l’altrettanto diverso problema della comparazione tra fatto già giudicato definitivamente e fatto oggetto di una nuova azione penale nei confronti dello stesso soggetto, ai fini dell’operatività del divieto di bis in idem di cui all’art. 649 c.p.p.

Secondo le S.U., nel diverso contesto problematico della ‘medesimezza del fatto’ ai fini del divieto di ne bis in idem, viene pur sempre in rilievo “il tema del rapporto strutturale tra fattispecie di reato, secondo il principio di specialità, se pure colto nella dimensione dinamica del fenomeno, derivante dalla instaurazione di un secondo giudizio, per lo stesso fatto e a carico del medesimo imputato”. In merito al rapporto tra fattispecie legali astratte si pongono infatti le stesse problematiche, tanto ai fini dell’individuazione della norma speciale secondo l’art. 15 c.p., quanto ai fini dell’operatività del divieto di un secondo giudizio per il medesimo fatto. Laddove vi fosse un rapporto di genere a specie tra due norme, solo quella speciale potrà essere applicata e, ugualmente, in una dimensione “dinamica”, il giudice potrà attribuire all’imputato tutti gli illeciti da questo commessi attraverso un’unica condotta – se pure il fatto sia il medesimo sul piano storico-naturalistico – soltanto qualora si possa escludere che tra le norme incriminatrici sussista un rapporto di specialità, ovvero che esse si pongano in concorso apparente, in quanto un reato assorbe interamente il disvalore dell’altro.

 


[1] In argomento cfr., sulle pagine di questa Rivista, S. Finocchiaro, Concorso di reati o concorso apparente di norme? Alle Sezioni Unite la vexata quaestio del rapporto tra truffa e malversazione, in questa Rivista, 5 dicembre 2016.

[2] Cass. Sez. II n. 1026 del 16 ottobre 1978 (dep. 1979), Bertoli.

[3] Ad es., ex multis, Cass. Sez. VI n. 45903 del 16 ottobre 2013, Iengo, Sez. I n. 5567 del 28 settembre 2011 (dep. 2012), Deragna.

[4] Cass. Sez. I n. 4862 del 16 febbraio 1988, Mecca.

[5] Cass. Sez. I n. 5224 del 21 dicembre 1982 (dep. 1983), Delli Calici.

[6] Cass. S.U. n. 1235 del 28 ottobre 2010 (dep. 2011), Giordano; da ultimo, S.U. n. 20664 del 23 febbraio 2017, Stalla.

[7] Si legga in proposito G. Marinucci – E. Dolcini, Manuale di diritto penale. Parte generale, VI ed., aggiornata da E. Dolcini e G.L. Gatta, Milano, Giuffrè, 2017, pp. 518 ss.

[8] Marinucci – Dolcini, Manuale di diritto penale cit., pp. 518 ss.; Cass. S.U. n. 1235/2010, Giordano cit.

[9] Cass. S.U. n. 16568 del 19 aprile 2007, Carchivi.

[10] Sul tema, S. Zirulia, Ne bis in idem: la Consulta dichiara l'illegittimità dell'art. 649 c.p.p. nell'interpretazione datane dal diritto vivente italiano (ma il processo eternit bis prosegue), in questa Rivista, 24 luglio 2016.