ISSN 2039-1676


11 ottobre 2017 |

La riforma Orlando si completa: approvato il decreto legislativo sulle impugnazioni

Contributo pubblicato nel Fascicolo 10/2017

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1. Il Consiglio dei ministri ha approvato lo schema di decreto legislativo recante Disposizioni di modifica della disciplina in materia di giudizi d’impugnazione, con cui si completa la riforma delle impugnazioni che era già stata interessata dalle modifiche introdotte con la legge n. 103 del 2017[1].

Se in quella circostanza l’attenzione del legislatore era rivolta, soprattutto al ricorso per cassazione, con il provvedimento in esame, l’oggetto delle modifiche proposte è indirizzato all’appello.

Invero, alcuni profili del giudizio di secondo grado erano già stati attenzionati dalla cd. riforma Orlando[2].

Con il comma 58 dell’art. 1 della legge n. 103 del 2017, infatti, era stato inserito nell’art. 603 c.p.p. un comma 3-bis a mente della quale «nel caso di appello del Pubblico Ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice dispone la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale»
; con i commi 56 e 57 dell’art. 1 citato della stessa legge era stato, invece, disciplinato il cd. concordato in appello.

Al tema qui considerato, per i raccordi effettuati con il provvedimento in esame, va ricondotta anche la reintroduzione dell’appello della sentenza di non luogo a procedere attinta con i commi 38, 39 e 41 dell’art. 1 della menzionata legge n. 103 del 2017 attraverso le modifiche dell’art. 428 c.p.p.

Estraneo al tema qui considerato è il reclamo al tribunale in composizione monocratica di cui all’art. 410-bis c.p.p. introdotto dal comma 33 della citata legge.

 

2. Il nucleo centrale della riforma è sicuramente costituito dalle modifiche introdotte all’art. 593 c.p.p. e nel nuovo art. 593-bis c.p.p., in cui è disciplinata l’appellabilità soggettiva ed oggettiva.

La riforma si rendeva necessaria per regolare una materia che, a seguito delle sentenze della Corte costituzionale sulla cd. riforma Pecorella (legge n. 46 del 2006), aveva evidenziato alcune discrasie.

Si prevede, infatti, al comma 3 dell’art. 593 c.p.p. che siano inappellabili le sentenze di condanna per le quali è stata applicata la sola pena dell’ammenda e quelle di proscioglimento relative a contravvenzioni punite con la sola pena dell’ammenda o con pene alternative.

Per quanto attiene alle altre sentenze di condanna, si prevede che, ribadita la disciplina speciale delle decisioni emesse all’esito del giudizio abbreviato (art. 443, comma 3 c.p.p.), nel procedimento di applicazione della pena a richiesta (art. 448, comma 2 c.p.p.) e relative all’impugnazione delle sole misure di sicurezza (artt. 579 e 680 c.p.p.), l’imputato possa appellare tutte le (altre) sentenze di condanna ed il Pubblico Ministero le medesime sentenze, solo quando hanno modificato il titolo del reato, hanno escluso una circostanza ad effetto speciale o hanno stabilito una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato.

Si tratta, con riferimento al Pubblico Ministero d’una novità significativa che si rifà –in parte- a quanto previsto in tema di appello della sentenza emessa all’esito del giudizio abbreviato, allargandone il raggio di operatività.

La giustificazione di questa scelta risiede nel fatto che le esigenze dell’accusa sono state sostanzialmente soddisfatte con la sentenza di condanna.

Naturalmente, per gli altri eventuali profili, trattandosi di sentenze inappellabili, troverà operatività l’art. 608 c.p.p. e, come si dirà meglio in seguito, il Procuratore della Repubblica e il Procuratore Generale potranno ricorrere per cassazione.

Quanto alle sentenze di proscioglimento, al Pubblico Ministero è conferita la legittimazione ad appellare tutte le sentenze di proscioglimento, mentre per quanto riguarda l’imputato la legittimazione –anche in questo caso a pendant con quanto visto per il Pubblico Ministero- è esclusa per le decisioni di assoluzione perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso.

Le previsioni prospettano, in tal caso, alcuni problemi di sistema ai quali il legislatore dà risposte soltanto parziali.

Si riconosce, infatti, al Pubblico Ministero che voglia proporre impugnazione a favore dell’imputato, la legittimazione al ricorso per cassazione. La visione dell’appello in chiave di sola contrapposizione tra la parte pubblica e quella privata, ispirata alla “soccombenza” rischiava di mettere in ombra il ruolo del Pubblico Ministero come organo di garanzia, alla luce dell’art. 73 della legge sull’ ordinamento giudiziario.

Non trova adeguata risposta, invece, l’esigenza di coordinare l’inoppugnabilità da parte dell’imputato delle sentenze di assoluzione perché il fatto non sussiste o l’imputato non l’ha commesso, pronunciata ai sensi del cpv. dell’art. 530 c.p.p., con quanto disposto dagli artt. 652 e 653 c.p.p.

Invero, l’inappellabilità delle citate sentenze di assoluzione non può che muovere dal presupposto che la decisione non comporta elementi sfavorevoli all’imputato che, diversamente, con l’appello potrebbero essere rimossi. Tuttavia, in tali casi, come previsto dall’art. 652 c.p.p., non vi è stato un pieno accertamento dell’innocenza dell’imputato, per cui egli non potrà giovarsi di tale sentenza nei giudizi civili e amministrativi di danno (Sez. un., 29 maggio 2008, Guerra).

Ritenendo che la questione non fosse coperta dalla delega, il Governo non ha ritenuto di recepire, sotto tale aspetto, l’indicazione della Commissione incaricata di predisporre una proposta di articolato in materia.

Erano previste, infatti, delle modifiche agli artt. 652, comma 1 e 653 comma 1 c.p.p. L’ incipit delle due previsioni era sostituito con: «la sentenza penale irrevocabile di assoluzione di cui all’art. 530 commi 1 e 2 pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato, qualora essa abbia dichiarato (…)».

Al fine di rendere omogenei i limiti dell’inappellabilità delle sentenze dibattimentali con quelle di non luogo a procedere, il legislatore ha interpolato un comma 3 quater nell’art. 428 c.p.p. ove si prevede che sono inappellabili le sentenze di non luogo a procedere relative a contravvenzioni punite con la sola pena dell’ammenda o con pena alternativa.

 

3. Quanto ai profili soggettivi, il decreto legislativo interviene sulla legittimazione ad appellare del Pubblico Ministero.

Già da tempo si era evidenziata la necessità di rendere funzionale il sistema imperniato sulla formulazione generale prevista dall’art. 570 c.p.p., stante la possibile sovrapposizione dei vari uffici dell’accusa, ferma restando la regola per la quale la legittimazione non subisce restrizioni nel caso in cui le richieste dell’accusa sono state accolte.

La questione delle possibili sovrapposizioni non riguardava, quindi, il ricorso per cassazione nei confronti delle sentenze emesse in grado di appello, spettando –ai sensi dell’art. 608 c.p.p.- la legittimazione al solo Procuratore Generale, quanto le decisioni pronunciate in primo grado, ove è prevista la legittimazione tanto del Procuratore della Repubblica, quanto del Procuratore Generale. Invero, il generico riferimento al Pubblico Ministero permetteva di ritenere legittimati entrambi gli uffici di procura.

A tale proposito la materia è, ora, regolata dal comma 1 del nuovo art. 593-bis c.p.p. il quale prevede che «nei casi consentiti, contro le sentenze del giudice per le indagini preliminari, della corte d’assise e del tribunale può appellare il Procuratore della Repubblica presso il tribunale».

Il comma 2 della disposizione stabilisce, inoltre, che «Il Procuratore Generale presso la Corte d’appello può appellare soltanto nei casi di avocazione o qualora il Procuratore della Repubblica abbia prestato acquiescenza al provvedimento».

La norma costituisce indubbiamente una regola generale, stante la contestuale modifica introdotta al secondo periodo del comma 1 dell’art. 570 c.p.p. che, in relazione all’impugnazione del Procuratore Generale introduce una previsione specifica relativamente all’appello. A conferma di questo elemento la previsione è richiamata anche dal comma 1, lett. a) dell’art. 428 c.p.p., in relazione all’appello della sentenza di non luogo a procedere.

Se l’ipotesi dell’avocazione non dà luogo a esigenze di raccordo, diverso si prospetta il caso della conoscenza da parte del Procuratore Generale dell’acquiescenza della procura presso il giudice di primo grado.

Come si comprende, si tratta di un passaggio delicato, anche in considerazione dei tempi entro i quali l’ufficio di procura può far emergere il proprio convincimento (fino alla scadenza di quelli per appellare) ed i ristretti tempi che potrebbero residuare alla procura generale per appellare.

A tal fine, dopo l’abrogazione dell’attuale art. 106 disp. att. c.p.p. in cui è previsto che «nel caso previsto dall'articolo 331 comma 4 del codice, il Procuratore della Repubblica informa senza ritardo il giudice civile o amministrativo delle richieste da lui formulate alla conclusione delle indagini preliminari», è introdotto un nuovo art. 166-bis disp. att. c.p.p. rubricato «Poteri del Procuratore Generale in materia di impugnazione delle sentenze di primo grado» in cui si stabilisce che «al fine di acquisire tempestivamente notizia in ordine alle determinazioni relative all’impugnazione delle sentenze di primo grado, il Procuratore Generale presso la Corte d’appello promuove intese o altre forme di coordinamento con i Procuratori della Repubblica del distretto».

Indubbiamente, la previsione pare risolvere la maggior parte delle questioni prospettabili. Dovrebbe essere confermato il potere del Procuratore Generale di rinunciare comunque all’impugnazione proposta dal Procuratore della Repubblica, mentre, in caso di appello di quest’ultimo, dovrebbe essere inammissibile l’appello del Procuratore Generale.

Resterebbe da domandarsi se la previsione possa coprire anche le situazioni nelle quali i motivi proponibili nei confronti della sentenza di primo grado da parte dei due uffici possano divergere.

Il riferimento all’appello contenuto nell’art. 593 –bis c.p.p. ed il riferimento all’impugnazione nel secondo periodo del comma 1 dell’art. 570 c.p.p. solleva alcune questioni di ordinamento nel caso delle sentenze inappellabili e nel caso del ricorso per saltum.

Nel primo caso la materia è, infatti, regolata dall’art. 608, comma 1 e 4 c.p.p., ove si prevede che «il Procuratore Generale presso la Corte di Appello può̀ ricorrere per cassazione contro ogni sentenza di condanna o di proscioglimento pronunciata in grado di appello o inappellabile. (…) il Procuratore Generale e il Procuratore della Repubblica presso il tribunale possono anche ricorrere nei casi previsti dall'articolo 569 e da altre disposizioni di legge».

Nel secondo caso il tema trova riferimento nel comma 1 dell’art. 569 c.p.p. ove si stabilisce che «la parte che ha diritto di appellare la sentenza di primo grado può proporre direttamente ricorso per cassazione».

In quest’ultimo caso, stante il richiamo alla parte che può proporre appello, dovrebbe trovare applicazione l’art. 593-bis c.p.p., mentre nella prima ipotesi dovrebbe riprendere vigore la regola generale dell’autonomia dei due gravami.

In sintesi, dovrebbe essere conseguentemente possibile indicare il seguente schema: se il Procuratore della Repubblica appella la sentenza di primo grado è precluso l’appello al Procuratore Generale; se il procuratore della Repubblica non appella, il procuratore generale è legittimato ad appellare; se la sentenza è inappellabile sia il Procuratore della Repubblica, sia il Procuratore Generale possono proporre ricorso per cassazione; se il procuratore della repubblica presenta ricorso per saltum, il Procuratore Generale non può appellare; se il Procuratore della Repubblica non appella, il Procuratore Generale può proporre direttamente ricorso per cassazione, oltreché, come detto, appellare la decisione.

 

4. Al tema della legittimazione è riconducibile anche la nuova disciplina dell’appello incidentale. Con la sostituzione dell’attuale comma 1 dell’art. 595 c.p.p. e del comma 3 dello stesso articolo, l’appello incidentale potrà essere proposto dal solo imputato che non abbia proposto impugnazione.

Com’è noto, l’appello incidentale del Procuratore, previsto dal codice Rocco per paralizzare gli effetti dell’appello del solo imputato (il divieto della reformatio in peius, proprio per questa ragione, unita ad altri profili della disciplina, era stato dichiarato costituzionalmente illegittimo con la sentenza C. cost. n. 177 del 1971) è stato reintrodotto nel “nuovo” codice di rito penale, tenendo conto –anche con la sua collocazione- delle osservazioni dei giudici costituzionali.

In linea con l’indicazione della legge delega (art. 1, comma 84, n. 8, lett. h) l’istituto ora non è più previsto.

Il dato, verosimilmente, si inserisce nella visione costituzionale del Pubblico Ministero chiamato a valutare la rispondenza alla legge della decisione, prescindendo dai comportamenti processuali della difesa. Deve, tuttavia, farsi notare che, potendo il Procuratore Generale appellare in caso di mancato appello del Procuratore della Repubblica e godendo di più ampi tempi per proporre impugnazione, l’accusa potrà comunque proporre appello principale, in relazione ad un eventuale appello della difesa.

Il nuovo comma 3 dell’art. 595 c.p.p. disciplina, invece, una situazione particolare che, peraltro, aveva già trovato nella giurisprudenza la sua risposta (Cass. Sez. Un., 30 ottobre 2003, Andreotti). Premesso che l’imputato non può appellare né in via principale, né in via incidentale le sentenze di assoluzione che accertano che il fatto non sussiste o non l’ha commesso, mancherebbe, in tal caso, un efficace strumento di contrasto all’appello principale dell’accusa, sul quale il giudice sarebbe chiamato a pronunciarsi, con successiva possibilità di dedurre la questione anche con il ricorso per cassazione.

Rafforzando quanto già previsto dall’art. 121 c.p.p., si prevede, così, che «entro quindici giorni dalla notificazione dell’impugnazione presentata dalle altre parti (ergo, non solo il Pubblico Ministero) l’imputato possa depositare nella cancelleria del giudice memorie o richieste scritte».

 

5. Benché la delega si limitasse a prevedere –come si dirà- i motivi per i quali è proponibile il ricorso per cassazione, il legislatore delegato ha ritenuto possibile adeguare la disciplina delle impugnazioni proponibili contro le decisioni del giudice di pace alle nuove regole introdotte alle impugnazioni dei provvedimenti del tribunale e della corte d’assise.

Si è così previsto, innovando l’art. 36 decreto legislativo n. 274 del 2000 che «il pubblico ministro possa proporre appello contro le sentenze di condanna del giudice di pace che applicano una pena diversa da quella pecuniaria, sempre che se si tratti di sentenza che modifica il titolo del reato o che ha escluso la sussistenza di una circostanza aggravante ad effetto speciale o che stabilisca una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato. Egli può sempre proporre ricorso per cassazione contro le sentenze del giudice di pace».

La previsione allinea la disciplina dell’appello nei confronti delle sentenze di condanna pronunciate dal giudice di pace a quelle emesse in dibattimento dal tribunale o dalla Corte di assise (art. 593 c.p.p.)

Resta fermo che il Pubblico Ministero possa sempre ricorrere per Cassazione contro la sentenza del giudice di pace.

Con il nuovo art. 39-bis decreto legislativo n. 274 del 2000, dando attuazione, come detto, alla delega si prevede che «avverso le sentenze pronunciate in grado d’appello dall’ufficio giudiziario indicato nella disposizione precedente, il ricorso per Cassazione può essere proposto per i soli motivi indicati alle lettere a), b) e c) dell’art. 606 comma 1 del codice di procedura penale».

Deve conseguentemente ritenersi che nel caso di decisioni inappellabili pronunciate dal giudice di pace, il ricorso sarà consentito per tutti i motivi di cui all’art. 606 c.p.p. Trattandosi, infatti, di decisione motivata dal giudice onorario, si è ritenuta opportuna anche una verifica degli sviluppi argomentativi della sentenza.

Una conclusione diversa, invece, è stata prevista nel caso in cui la sentenza sia emessa dal giudice ordinario per reati di competenza del giudice di pace: in tal caso, il nuovo comma 2-bis dell’art. 606 c.p.p. prevede che «contro le sentenze di appello e contro le sentenze inappellabili pronunciate per reati di competenza del giudice di pace, il ricorso può essere proposto soltanto per i motivi di cui al comma 1, lett. a), b) e c)».

Per quanto attiene alla legittimazione, tenuto conto di quanto deciso da Cass. Sez. Un., 15 giugno 2005, Campagna e del riformato art. 570 c.p.p. il quadro potrebbe così delineato: il Procuratore Generale può appellare solo se il Procuratore della Repubblica ha proposto acquiescenza o in caso di avocazione; in caso di decisione inappellabile il Procuratore Generale potrà ricorrere in piena autonomia.

 

6. Molto significativa si presenta l’introduzione del nuovo art. 165-bis disp. att. c.p.p. Ancorché si tratti di un profilo di carattere organizzativo, la previsione supera, invero, i meri profili burocratici –amministrativi, così da assicurare efficienza al sistema. Indubbiamente, la previsione avrebbe sicuramente avuto un maggior impatto ove fosse stato conservata la previsione originaria per la quale si voleva che il giudice a quo valutasse alcune situazioni di inammissibilità del gravame[3].

Si prevede, infatti, che dopo la presentazione dell’impugnazione, il giudice o il presidente del collegio che ha emesso la sentenza, in altro allegato, trasmetta al giudice dell’impugnazione alcune informazioni: i nomi dei difensori (di fiducia o d’ufficio) con la data della nomina; le dichiarazioni di elezioni o determinazioni di domicilio, e relative date; i termini di prescrizione di ciascun reato, con indicazione degli atti interruttivi e delle specifiche cause di sospensione del relativo corso, ovvero eventuali dichiarazioni di rinuncia alla prescrizione; i termini di scadenza delle misure cautelari in corso d’esecuzione, con precisazione della data di inizio o di eventuali sospensioni o proroghe. Ancor più significativa, anche alla luce del protocollo siglato tra il Presidente della Cassazione e il Consiglio Nazionale Forense, si prospetta la previsione per la quale in caso di ricorso per cassazione, la cancelleria del giudice a quo, invia, in allegato, le copie degli atti indicati dal ricorrente che ha proposto impugnazione ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e) c.p.p. ovvero la loro mancanza.

 

7. Come anticipato in esordio, il provvedimento qui sommariamente analizzato, completa la riforma delle impugnazioni già intrapresa dalla cd. riforma Orlando.

Muovendo dalle modifiche che hanno interessato gli artt. 546 e 581 c.p.p., le quali impongono al giudice ed alle parti oneri di strutturazione dei provvedimenti di rispettiva competenza (sentenza e impugnazione), così da rendere le sentenze rispondenti allo svolgimento del processo e i gravami sorretti dalla richiesta di controllo, con la riferita riforma si cerca, per quanto attiene all’appello, di delineare, in termini più funzionali ai rispettivi ruoli, i provvedimenti soggettivamente ed oggettivamente appellabili, senza escludere la necessità di una rinnovazione probatoria ovvero di una (fin troppo) misurata deflazione. Il quadro delineato si completa con la disciplina del ricorso per cassazione, riscritta dalla legge n. 103 del 2017, ispirata alla deflazione e delineata con vari strumenti: selezione dei provvedimenti ricorribili, dei motivi di ricorso e della legittimazione, semplificazione dei riti, inasprimento delle sanzioni in caso di inammissibilità. Si tratta di un tentativo complessivo ispirato all’efficienza che è stato accompagnato anche da alcuni provvedimenti organizzativi interni (si pensi, per tutti, alla cd. semplificazione degli atti). Alcune recenti prese di posizione della giurisprudenza delle Sezioni Unite (Cass. Sez. Un., 27 ottobre 2016, Galtelli)[4] fanno temere, infine, che si tratti dell’ennesimo tentativo di individuare strumenti per consegnare alla magistratura gli strumenti per rafforzare una lettura sostanzialistica delle vicende processuali.

 


[1] M. Gialuz-A. Cabiale- J. Della Torre, Riforma Orlando: le modifiche attinenti al processo penale, tra codificazione della giurisprudenza, in riforme attese da tempo e confuse innovazioni, in questa Rivista, 15 giugno 2016.

[2] AA. VV, La riforma Orlando, a cura di G. Spangher, Pisa, 2017; G. Spangher, La riforma Orlando della giustizia penale: prime riflessioni, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 1/2016, p. 88 ss.

[3] M. Bargis, Primi rilievi sulle proposte di modifica in materia di impugnazioni nel recente d.d.l. governativo, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 1/2015, p. 4 ss.; Ead., I ritocchi alle modifiche in tema di impugnazioni nel testo del d.d.l. n. 2798 approvato dalla camera dei deputati, in questa Rivista, 19 ottobre 2015.

[4] In Dir. pen. cont. – Riv. trim., 2/2017, p. 134 ss., con nota di H. Belluta, Inammissibilità dell’appello per genericità dei motivi: le Sezioni Unite tra l’ovvio e il rivoluzionario.