ISSN 2039-1676


08 gennaio 2018 |

Le neuroscienze, la "neuropsicologia" e la pretesa "rifondazione del diritto"

Il punto di vista di Ivan Karamazov e quello di Sigmund Freud

 

Fa davvero piacere che qualcuno continui a interrogarsi sulla dicotomia mente-cervello, sulle influenze del cervello sulla mente, su quelle della mente sul cervello, sul libero arbitrio, sulla coscienza, sulla volontà e, quindi, sulla imputabilità e la colpevolezza. Sui fondamenti del Diritto Penale e su quelli della Mente. Se ne sono occupati di recente, su DPC, Fabio Basile e Giuseppe Vallar[1] da un lato, Luca Santa Maria[2] dall’altro lato.

Non voglio entrare nel merito delle interessanti considerazioni espresse da tutti i suddetti Autori. Vorrei semplicemente proporre alcune considerazioni marginali, a partire dalla mia esperienza clinica, di psicoanalista che si occupa da diversi decenni di psicopatologia della trasgressione e della pena.

Comincerò da piccoli aneddoti personali. Da studente di medicina mi occupai, dapprima e per qualche tempo, di biologia molecolare e, quindi, di farmacologia clinica. Al tempo stesso mi appassionava la lettura di Freud, che accostavo inestricabilmente a quella degli autori “classici”. Quest’ultimo interesse prevalse in me piuttosto precocemente e mi condusse, post lauream, a specializzarmi in psichiatria, a imboccare un percorso psicoanalitico e a dedicarmi alla psicoterapia, anche in ambito detentivo. Non appena cominciai a percorrere la strada dello studio della mente, si impose in me una constatazione evidentissima, che nulla, nei successivi anni di attività clinica, è mai riuscito a smentire: fra le varie specializzazioni, quella che si collocava alla maggiore distanza dalla psichiatria, era la neurologia. Mi iscrissi alla scuola di specializzazione in psichiatria nel 1978, quando appena da un paio di anni era stata abolita e divisa in due branche separate la specializzazione in “neuropsichiatria”. Si capiva allora, e lo capii molto bene anch’io che talvolta “penso con i piedi” e tal altra “col cuore”, che una cosa è occuparsi della cura e dello studio del cervello, altra cosa è occuparsi della cura e dello studio della mente. Nell’arco dei decenni, però, le conoscenze dei vari settori dello studio del cervello (della biochimica e della citochimica neuronale e gliale, così come della genetica, della immunologia etc), si sono molto affinate. Anche in psichiatria, i percorsi diagnostici attraverso le tecniche di neuro-imaging e similia, stanno premendo per prendere il posto delle valutazioni cliniche “ragionate”. Nelle scuole di specializzazione in psichiatria abbiamo assistito a una superfetazione delle ore di insegnamento di materie chimico-bio-famacologiche, che hanno soppiantato quasi completamente gli insegnamenti delle materie psicologiche. Ora, però, si inventa una “nuova neuropsicologia”, diversa da quella “vecchia”, che era soprattutto intesa a valutare gli effetti psicologici delle malattie neurologiche evidenti e documentabili, e che cercava di porre rimedio alle loro conseguenze patologiche. Certo – perché no? – possiamo facilmente e comodamente ammettere che anche i disturbi mentali, supponendo che si pensi soltanto col cervello, abbiano cause cerebrali: molecolari, cellulari, intercellulari e così via. Dobbiamo altresì convenire che ogni gesto e ogni comportamento del vivente dipende da un’attività cerebrale e che dunque, anche per le complesse azioni degli umani, vi sia un determinismo chimico-biologico a sostenerli. Da qui la facile considerazione: se tutto il comportamento dipende da una inesorabile catena fisio-chimica, i concetti di libero arbitrio e di libertà in genere non avrebbero più senso. Ma questa considerazione, che risponde alla cosiddetta logica dei dentisti, appare davvero troppo facile. Le “neuroscienze”, attualmente, non riescono nemmeno a darci una spiegazione scientifica compiuta del perché determinate sostanze, come la LSD, producano effetti allucinatori. Come potrebbero allora, “queste” neuroscienze, pretendere di fornire una spiegazione “scientifica” delle allucinazioni, dei deliri, degli squilibri affettivi e temperamentali degli schizofrenici, dei deliranti cronici, dei depressi, di coloro che soffrono di gravi disturbi di personalità. Eppure “queste” neuroscienze, che millantano mirabolanti capacità prognostiche-predittive, che si dicono in grado di mutare radicalmente i comportamenti dell’uomo, sottraendolo addirittura alle sue coazioni trasgressive-autopunitive, manifestano poi una quasi totale inefficacia quando si cimentano nella cura dei disturbi psichici, persino di quelli meno gravi (i “quasi sani” siamo tutti capaci di curarli). Eppure, anche considerando la quasi totale “impotenza funzionale” nel loro specifico settore, si pretende addirittura che le “neuroscienze” siano in grado di fornire il substrato per una radicale “riforma del diritto”. Dal punto di vista euristico si rasenta il ridicolo.

Potremmo senza dubbio convenire con Nietzsche quando afferma che “[…] la psicologia infatti è ormai di nuovo la strada per i problemi fondamentali[3]. Per noi non è difficile convenire con Nietzsche, visto che è la strada dell’interpretazione psicologica che da sempre adottiamo per saperne qualcosa di più dei pensieri, delle azioni e dei misfatti dell’uomo.

Non dovrebbe essere granché difficile nemmeno per il giurista, qualora si attenesse alla splendida raccomandazione di Piero Calamandrei, il quale nel 1950, nel discorso inaugurale del Congresso Internazionale di diritto processuale civile tenuto a Firenze, pronunciò queste parole memorabili: “[…Per riassumere] in una sola frase il programma per continuare con rinnovata fiducia il nostro lavoro, [… è necessario] ricordarsi che il processo è essenzialmente studio dell’uomo: non dimenticarsi mai che tutte le nostre simmetrie sistematiche, tutte le nostre elegantiae iuris, diventano schemi illusori, se non ci avvediamo che al di sotto di essi di vero e di vivo non ci sono che gli uomini, colle loro luci e le loro ombre, colle loro virtù e le loro aberrazioni”. Dovremmo dunque pretendere che, per seguire la pertinente indicazione di Calamandrei, tutti i giuristi, tutti i magistrati, maturassero una competenza “psicologica”? Noi non lo pretendiamo davvero, ma taluni uomini di legge lo pretendono da sé stessi, presumendo in maniera impertinente, quando si sentono abili nell’indagare la verità del soggetto più che dei fatti, di addentrarsi nello studio dell’uomo assai più a fondo e proficuamente di quanto non possano fare gli psicologi, o almeno certuni psicologi. Questa presunzione di maggiore competenza il giudice l’ha mantenuta fino ai giorni nostri, esigendo di essere riconosciuto come peritus peritorum (solo in campo psichiatrico-forense, a ben guardare) e precludendo a chiunque l’effettuazione di “perizie per stabilire l'abitualità o la professionalità nel reato, la tendenza a delinquere, il carattere e la personalità dell’imputato e in genere le qualità psichiche indipendenti da cause patologiche”.

Ci sarebbe da interrogarsi sull’interesse attuale del mondo giuridico a proposito del carattere innovativo e “scientifico” delle nuove neuroscienze nel campo della expertise sulla responsabilità del soggetto autore di reato. A partire dalle splendide considerazioni di Musil a proposito della vicenda Moosbrugger[4], quando ci rammenta come “l’angelo della medicina, dopo avere ascoltato per un po’ le dissertazioni dei giuristi, dimentichi molto spesso la propria missione. Egli ripiega allora le ali fruscianti, e si comporta nelle aule dei tribunali come un angelo di complemento della giurisprudenza”. Una expertise “neuroscientifica”, neutra, obiettiva e imparziale, non solo solleverebbe il giudice da una valutazione sulla competenza del soggetto nel crimine (o, se si preferisce, sulla responsabilità-imputabilità; così come sulla “maturità” dell’infradiciottenne), ma getterebbe anche le basi per il futuro trattamento (farmacologico, mi raccomando! al più genetico) di quelle irregolarità fisio-chimiche che hanno indotto il soggetto a delinquere. Si tratterebbe, come chiunque vede con facilità, di una operazione di grande “pulizia” metodologica, che deresponsabilizzerebbe il giudice e inserirebbe anche il trattamento all’interno di automatismi da guidelines. Le valutazioni psichiatrico-forensi sul punto della imputabilità sarebbero allora asettiche e, per quanto si possa convenire che natura non facit saltus, potremmo tuttavia stabilire dei precisi punti di cut off per decidere se un soggetto è “sano di mente”, se è “parzialmente infermo” o se lo è “totalmente”. Un cambiamento radicale in confronto al flipping coins in courtrooms[5], vale a dire alla stima di cui generalmente godono, presso i giudici e non solo presso di loro, le perizie psichiatriche, almeno quelle fatte “in un certo modo”. Se davvero le “nuove” neuroscienze fossero in grado di fornirci una lettura oggettiva e scientifica del gradiente di “responsabilità”, si potrebbe allora immaginare di giungere a una “rifondazione del diritto”. Ma la lettura oggettiva e scientifica del gradiente di responsabilità da parte delle neuroscienze è ancora un miraggio. I giudici possono tranquillamente presumere di saperne molto di più, relativamente allo studio dell’uomo che delinque, così come all’accertamento della verità/realtà, del delitto e del suo autore, di quanto qualsiasi neuroscienza possa loro indicare. Sulla scena attuale abbiamo ancora bisogno di un Porfirij Petrovič[6] o di un Dupin[7], se intendiamo evitare le trappole della logica dei dentisti che si cela dietro le indagini da NCIS e provare a riflettere utilmente sui fondamenti del Diritto.

La questione della imputabilità è assolutamente centrale quando si parla di “rifondare il diritto” a partire dall’altra questione del “libero arbitrio”. Senza scomodare i grandi filosofi classici, ci basterà tornare a Robert Musil e alle sue profonde riflessioni su Moosbrugger, il cui caso attraversa e aggiunge non poco senso a L’uomo senza qualità.  È infatti di tutta evidenza, per coloro che si occupano di malattie mentali, specie per coloro che se ne occupano in ambito forense, che di tertia, inter duo contradictoria, se ne danno una infinità: fra il sano di mente e l’infermo di mente esistono infiniti casi di quasi sani e quasi malati. La questione è dunque quella di distinguere il limite -che ci accontenteremo di tracciare con una logica clinica che è ancora molto sommaria- tra ciò che sufficientemente sano e ciò che è palesemente malato[8]. L’unica legittimazione perché questa linea di cut-off sia stabilita, viene fornita dalla clinica. Quale è, però, la clinica cui si ricorre?  È la clinica relativa allo studio dell’uomo di cui ci parla Piero Calamandrei, uno studio nel quale il giudice, nell’ambito del processo, resta il massimo e incontestato esperto.

Ecco dunque che, nel momento in cui si affrontano le fondamenta del diritto, accanto al concetto di “imputabilità” si debbono inestricabilmente considerare quelli di “colpevolezza” e di “colpa”. Tali concetti, come ha lucidamente sottolineato Luca Santa Maria, sono assolutamente essenziali perché, su quelle fondamenta, si sostenga e si legittimi l’azione penale e, all’interno di tale azione, l’esecuzione della pena. Una azione penale che, poiché senza dubbio l’ostile è l’uomo, anche se la potremmo condire di tutte le farisaiche sovrastrutture rieducative, rimane essenzialmente vendicativa e retributiva. La cosiddetta legge del taglione, infatti, si radica profondamente nell’inconscio dell’uomo e giustifica l’erigersi della Legge.

Il cogito dei giuristi, come in fondo anche quello dei canonici, sembra non poter prescindere da un percorso ‘lineare’ nel quale la colpa si inserisce tra una pena somministrata dall’esterno e una legge scritta di cui non si ammette l’ignoranza: nulla poena sine culpa®nulla culpa sine crimine®nullum crimen sine lege. Se è vero che questo è il cogito dei giuristi, è vero altresì che il discorso psicoanalitico ha messo profondamente in crisi tale linearità, l’ha sgretolata, rintracciando colpe penosissime per crimini immaginari, crimini emanati dal superio e pene terribili, provenienti dall’interno del soggetto, per colpe giuridicamente insussistenti. Anche fuori dal carcere, non lo si ripeterà mai abbastanza, la questione della colpa attraversa in modo profondo e radicale, come nessun’altra, tutta la materia psicopatologica. Leggiamo Lacan: «Gli effetti di cui [la psicologia freudiana] scopriva il senso, li ha arditamente designati con il sentimento che ad essi corrisponde nel vissuto: la colpa»[9].

Il “senso di colpa improprio” estende la sua ombra su tutto l’ambito psicopatologico. Il suo rilievo diventa peraltro evidentissimo in quella che Gemma Brandi ha denominato malattia trasgressiva[10], una malattia le cui “figure” principali riconoscerà agevolmente chiunque abbia una minima e consapevole esperienza penitenziaria. Qualora si intenda riflettere utilmente sui fondamenti del Diritto e della Legge, dovremmo in primo luogo andare a rileggere alcuni scritti che ci avvicinino maggiormente alla comprensione di quella tendenza autopunitiva che, se la si rintraccia con facilità in tutta la psicopatologia, è assolutamente ineludibile fra gli abitanti del carcere, che sono, ancorché induttori di sofferenza nell’altro, degli autentici ἑautὸn timwroὺmenoi. Non solo: questa tendenza rende conto della intensità della cosiddetta reazione terapeutica negativa (o reazione negativa alla terapia). Vediamo come ne parla Freud, ne L’Io e l’Es.

«Vi sono persone le quali si comportano durante il lavoro analitico in un modo tutto particolare. Quando si dà loro speranza, quando ci si dimostra soddisfatti del modo come il trattamento procede, sembrano scontente, e invariabilmente il loro stato peggiora. All’inizio si pensa che ciò sia dovuto a caparbietà e al tentativo di dimostrare al medico la propria superiorità. In seguito però si giunge ad una spiegazione più profonda e più giusta. Ci si rende conto che queste persone non sopportano né lodi né apprezzamenti, e addirittura che reagiscono ai progressi della cura in modo rovesciato. Ogni soluzione parziale da cui dovrebbe sortire […] un miglioramento o una temporanea remissione dei sintomi, suscita in costoro un momentaneo rafforzamento della sofferenza: peggiorano durante il trattamento invece di migliorare. Essi manifestano la cosiddetta “reazione terapeutica negativa”».

«Non vi è dubbio che in questi pazienti qualche cosa si oppone alla guarigione [liberazione], e che l’approssimarsi di quest’ultima è temuto come un pericolo. Si dice che in queste persone non la volontà di guarire ha il sopravvento, bensì il bisogno della malattia. [A proposito di questa resistenza] si giunge alla fine alla persuasione che si tratti di un fattore per così dire “moralistico”: di un senso di colpa che trova il proprio soddisfacimento nell’essere ammalato, e che non vuol rinunciare alla punizione della sofferenza. Bisogna così arrendersi a questa poco consolante spiegazione. Ma questo senso di colpa è muto per il paziente, non gli dice che egli è colpevole; il paziente non si sente colpevole, ma ammalato […]»[11].

Io non saprei dire in quale delle emozioni fondamentali (quelle alle quali sarebbe riconducile l’inconscio), ovvero a quali commistioni emotive subcorticali, vadano ricondotte le istanze autopunitive. So per certo che, per rifarsi a una scivolosa seconda topica freudiana, il radicamento inconscio delle istanze del superio è la chiave di volta per dare senso agli evidenti atteggiamenti autolesivi che ritroviamo persino nelle efferate azioni aggressive. Gemma Brandi per prima ha sottolineato tutta la pregnanza che, nel tentativo di orientare le manovre “riabilitative” nei confronti di coloro che soffrono della malattia trasgressiva, assumono i tipi di carattere che, nel 1916, Freud trasse dal lavoro psicoanalitico[12].

Se una tendenza seclusiva sovradeterminata (poco importa che sia o no condizionata da “componenti emotive subcorticali”) la rintracciava Freud un secolo fa nei delinquenti per senso di colpa, non avremo certo difficoltà a riconoscerla noi fra i “moventi” che conducono l’uomo in carcere. Eppure, insieme, occorrerà anche essere consapevoli della notevole differenza, nel gradiente di “libero arbitrio”, fra le irresistibili istanze che riducono in catene e preghiere gli psicotici dell’Africa Orientale[13] e le striscianti e tortuose istanze autopunitive che inducono un banchiere a depredare truffaldinamente i suoi clienti dei piccoli risparmi accumulati in una vita di lavoro. Il cut-off per il riconoscimento di un esame di realtà più o meno valido, così come dell’effetto di una sufficiente libertà di arbitrio, non sarà mai facile da stabilire. La linea di cut-off varierà senz’altro a seconda delle epoche, delle stagioni e delle geografie. I fattori moralistici di cui Freud parlava nel 1916 non hanno gli stessi connotati di quelli che sperimenta l’uomo moderno. Eppure, se ha senso chiedersi dove sia da collocarsi il confine fra la salute e la patologia mentale, se questo confine non esistesse perderemmo il nostro tempo interrogandoci sulle questioni della responsabilità, della colpevolezza, del libero arbitrio, della punibilità. Possiamo anche pretendere che uno schizofrenico reprima le sue allucinazioni o i suoi deliri per il solo fatto di “volerli” reprimere, ma lo sberleffo derisorio della Matta ci si parerebbe senz’altro dinnanzi se pretendessimo di risolvere per quella strada la sofferenza dello schizofrenico. Una cosa è l’Io (il Moi di lacaniana memoria) che assicura una voluntas contrahendi, altra cosa è l’insopprimibile necessità di una elatio desiderandi che inscena nel reale gli elementi pulsionali inconsci.

Gli Autori che si occupano della rifondazione “neuroscientifica” del Diritto è pressoché inevitabile che finiscano per occuparsi della questione della responsabilità del reo e, quindi, dell’accertamento di tale responsabilità nel reo-folle. Meraviglia, allora, che quasi nessuno citi, su questi punti, le considerazioni illuminanti che Jacques Lacan espresse nel lontano 1950[14]. Non c’è da meravigliarsi che le neuroscienze ambiscano a stabilire incontrovertibilmente il limite tra la verità e la menzogna, tra la maturità e l’immaturità, tra il libero arbitrio e la coazione patologica, tra la presenza e l’assenza di “pericolosità sociale”. Le manovre attraverso le quali si esplica questo apprezzabile tentativo oggettivizzante si inscrivono comunque nel filone di ricerca della “verità del crimine” più che in quello della “verità del criminale”.  È nella dimensione intersoggettiva che, come insegna tutto l’agire del già citato Porfirij Petrovič, si inscrive compiutamente la ricerca della “verità del criminale”. Quanto alla ricerca del confine fra salute e malattia mentale, quella malattia che preclude ampiamente l’accesso del reo-folle alla libertà di arbitrio, solo chi non si occupa clinicamente della cura di queste persone molto sofferenti, vale a dire del tentativo faticosissimo di individuare percorsi che le sottraggano a una coazione lesiva spesso mortale, potrà illudersi di individuare tale confine attraverso il dosaggio dei neurotrasmettitori neuronali, delle interazioni neuro-gliali, di un neuroimaging magari raffinatissimo, di un “obiettivo” psychotesting computerizzato e standardizzato. Io preferisco affidarmi a quei criteri che Lacan -parlando dell’analisi del caso di Mme. Lefebvre fatta Marie Bonaparte- individuava come quelli adatti a rivelare la “struttura morbosa del crimine o dei delitti”: “il loro carattere coatto nell’esecuzione, la loro stereotipia quando si ripetono, lo stile provocante della difesa o della confessione, l’incomprensibilità dei motivi […]”. Sono inoltre completamente d’accordo con Lacan quando afferma che “queste condotte [del reo-folle] diventano assolutamente chiare alla luce dell’interpretazione edipica”, così come quando sostiene, subito dopo, che: “[…] ciò che le distingue come morbose è il loro carattere simbolico. La loro struttura psicopatologica non è affatto nella situazione criminale che esprimono, ma nel modo irreale di questa espressione”[15].

Solo nella misura in cui sapremo riconoscere la pregnanza, nel soggetto che delinque, di una coazione autopunitiva a cui non ha potuto resistere, solo quando ravviseremo nel crimine l’irrevocabilità di una sentenza emessa dal superio, potremo pronunciarci utilmente sulla sua colpevolezza e sulle opportune “strategie trattamentali”. Non dimentichiamo fra l’altro, a proposito di coloro i quali auspicano che al folle-reo venga restituito il “diritto alla pena”, che sia Moosbrugger che Anders Behing Breivik[16] hanno sempre insistito per vedere riconosciuto, come “sani di mente”, tale “diritto”. Ancora di più Breivik, che ha dichiarato di avere agito in nome di un suo dio e come combattente di una guerra santa.

Ecco che la pregnanza della dimensione “moralistica”, di cui parlava Freud ne l’Io e l’Es a proposito delle ‘reazione negativa alla terapia’, diventa del tutto chiara quando si affrontano talune delle questioni che hanno a che fare con il fondamento del Diritto: la responsabilità, la colpevolezza, il libero arbitrio. Ecco perché un autentico ritorno a Freud potrebbe essere assai più utile, se si vuole procedere a una rifondazione del Diritto, di quanto non lo sia il ricorso a quelle “neuroscienze” che pretenderebbero, adesso, di aiutare la comprensione e il trattamento dei comportamenti trasgressivi e delittuosi nel momento in cui non riescono a nascondere gli enormi limiti nella comprensione, e nella cura, persino di quelle patologie, a cavallo fra cervello/soma/mente/comportamento, dalle quali esse hanno avuto origine e per le quali dovrebbero manifestare la massima efficacia.

Per tornare utilmente a Freud per i fini che qui ci interessano, non resta che farlo insieme a Lacan, che sulla strada di quel ritorno ci ha indirizzati con una maîtrise distante da ogni pedanteria universitaria. Se infatti leggessimo con un po’ di attenzione lo scritto di Lacan cui mi sono già richiamato[17], in particolare i Capitoli II e III di quella Comunicazione, potremmo davvero ambire a saperne qualcosa di più sul “movimento della verità nelle scienze dell’uomo”[18], come recita il titolo del Capitolo I.  È una pluriennale esperienza clinica che ci consente di convenire con Lacan quando sottolinea la pregnanza del detto: “ È la legge a fare il peccato”, considerando che “né il crimine né il criminale sono oggetti che possano concepirsi al di fuori del loro riferimento sociologico”. Tutta la portata del percorso autopunitivo in cui prende forma la necessità di una pena, la si coglie poco oltre, quando Lacan afferma: “Ogni società poi manifesta la relazione del crimine con la legge con castighi la cui realizzazione, quali che ne siano i modi, esige un assenso soggettivo”, e che “[…] tale assenso soggettivo è necessario alla significazione della punizione”. Con la stessa genuinità con la quale lo smaliziato Freud, sempre attentissimo alle questioni epistemologiche, a un anno dalla sua morte, accosta, quasi identificandole, (percezione della) realtà e verità[19], Lacan, altrettanto smaliziato, ci segnala che “la responsabilità, cioè la punizione, è una caratteristica essenziale dell’idea di uomo che prevale in una data società[20].

Se distogliamo il nostro interesse dagli scarti dei normali processi evolutivi, se non ci concentriamo su quelle eccezioni che trascinano seco un alto livello di significazione, se non comprendiamo, col Freud di Totem e tabù, che “con la Legge e con il Crimine comincia […] l’uomo”[21], non saremo assolutamente capaci di fornire una lettura plausibile di tutti i fenomeni criminali, che di recente stanno di nuovo diffondendosi sulla terra, compiuti “nel nome di Dio”. Le biografie della stragrande maggioranza dei cosiddetti “martiri della fede” dovrebbero consentirci di riconoscere il substrato psicopatologico nel quale affondano i loro comportamenti criminali, nella stragrande maggioranza dei quali si lascia facilmente individuare il carattere irreale della loro espressione.

Se è dunque indubitabile che lo strutturarsi del superio trascina seco gli effetti di una censura inconscia che ha intrinseche potenzialità patogene, è altrettanto vero che tale strutturarsi è da porsi in una relazione di consustanzialità, in ciò che all’interno dell’individuo si riflette dal livello sociale, con nozione che, nelle teologie, indichiamo come quella di Dio.

Ecco perché, senza gli abbagli del pregiudizio, sapremo facilmente scorgere, a livello del corpo sociale non meno che dello sviluppo individuale, gli esiti delle ferite prodotte dai “crimini o delitti emanati dal superio”. A livello dello sviluppo individuale, tutta la psicopatologia “tradizionale” riceverà contributi illuminanti di comprensione e quindi di cura. Ma li riceveranno soprattutto quelle nuove forme psicopatologiche che l’occhio lungo di Lacan aveva già individuato (nel 1950!): le “nevrosi del carattere [ora Disturbi di Personalità], i meccanismi di scacco, le impotenze sessuali, der gehemmte mensch[22]”.

È questo gehemmte mensch, anche attraverso tutta la gamma delle “condotte simboliche” attraverso le quali inscena il suo suicidio, specie nella forma oramai abituale di suicidio/omicidio, che rivela la sua inconfondibile silhouette nei reati seriali come nei mass-murders, specie in quelli compiuti “nel nome di dio”, poco importa che si tratti del nome di Allah o di quello di Cristo (come nel caso di Breivik).

Occorre avere chiaro come lo strutturarsi di una solida organizzazione del registro simbolico dipenda dall’equilibrato disporsi delle esperienze del piccolo d’uomo su una scala la cui tenuta, gerarchica perché morale, è garantita, a quel livello ontogenetico sul quale si riflette la regola sociale, dall’azione indefessa di quel Nome del Padre che cattura e rivela gli effetti della Legge.

Occorre tenere ben presente che è con la Legge e con il Crimine che comincia l’uomo, il quale ci restituisce una prova negativa di tale fondamento (che è anche quello del Diritto) attraverso le sue inibizioni e i suoi scarti. Saranno senz’altro più chiare, allora, le parole di Lacan che erano già illuminanti nel 1950:

“Alla concupiscenza che brilla negli occhi del vecchio Karamazov quando interroga il figlio: «Dio è morto, allora tutto è permesso», quest’uomo [der gehemmte Mensch], lo stesso che sogna il suicidio nichilista dell’eroe di Dostoevskij, o che si costringe a soffiare nel pallone nietzschiano, risponde con tutti i suoi mali come con tutti i suoi gesti: «Dio è morto, più niente è permesso»[23]”.

 


[1] Basile F. e Vallar G., Neuroscienze e diritto penale: le questioni sul tappeto, in DPC, 23-12-2017.

[2] Santa Maria L., Diritto penale sospeso tra neuroscienze ancor giovani e una metafisica troppo antica, in DPC, 23-12-2017.

[3] Nietzsche F., Al di là del bene e del male (1886), Adelphi, 1968, pp. 25.

[4] Musil Robert, L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino, 1974, p. 233-4.

«Per definire giuridicamente Moosbrugger bastava una frase.

«Moosbrugger era uno di quei casi-limite che fuori della giurisprudenza e della medicina legale sono noti anche al profano come casi di diminuita capacità di intendere e di volere.

«Caratteristica di questi infelici è che essi non hanno soltanto una salute da poco, ma anche una malattia da poco. La natura ha la strana mania di produrre in abbondanza tali individui; natura non facit saltus, la natura non fa salti, ama le gradazioni, e anche in scala più grande ama tenere il mondo in uno stadio intermedio fra la sanità e l’idiozia. Ma la giurisprudenza non se ne dà per inteso. Essa dice: non datur tertium sive medium inter duo contradictoria, cioè: l’uomo è capace di agire illegalmente o non lo è, perché fra due opposti non esiste un terzo ossia un medio. […]

«Purtroppo v’è anche il fatto che gli psichiatri legali, i quali sarebbero competenti a opporvisi, sono di solito molto più timorosi nella loro professione che i giuristi; essi dichiarano veramente malate solo le persone che non sanno guarire, il che è una modesta esagerazione visto che non sanno guarire neanche le altre. Essi fanno distinzione fra malattie mentali inguaribili, altre che con l’aiuto di Dio dopo qualche tempo migliorano da sé, e altre ancora che il medico non può guarire ma che il paziente potrebbe evitare, posto che per una sorte provvidenziale agissero su di lui al momento giusto opportuni influssi e considerazioni. Il secondo e il terzo gruppo comprendono quei malati di qualità inferiore che l’angelo della medicina tratta come infermi se si presentano a lui come clienti privati, ma che abbandona pavidamente all’angelo della giustizia se gli capitano fra i piedi nella pratica giudiziaria».

[5] Ennis B. J. and Litwack T. R., 1974, ‘Psychiatry and the presumption of expertise: Flipping coins in the courtroom’ vol 62 California Law Review 693–752.

[6] So bene che non c’è bisogno di spiegare che si tratta del magistrato che indaga Raskol’nikov in Delitto e castigo. Se lo rammento è solo per indicare come Fëdor Dostoevskij, attraverso “Il delitto e la pena” (per andare alla traduzione letterale dal russo, che ci restituisce ulteriori e utili livelli di significazione), ci indichi la dimensione della intersoggettività indispensabile per riconoscere che è con la Legge e con il Crimine che comincia l’uomo e, insieme, per consentire al soggetto di imboccare la strada di una pena che solo nel suo avvicinarsi asintotico al riconoscimento della colpa lo sottrae alla coazione a ripetere (e ad ogni automatismo “biologico”).

[7] Il riferimento a La lettera rubata di E. A. Poe non ci serve tanto per sorridere della inutile minuziosità “scientifica” della ricerche della polizia diretta dal Prefetto, quanto per introdurre un altro Autore, Jacques Lacan, che ci ha aperto una strada maestra nella comprensione dei fondamenti del Diritto e che, non ha caso, ha voluto introdurre i suoi Scritti proprio a partire dal seminario sulla lettera rubata.

[8] L’attuale sistema Penale italiano contempla addirittura un tertium codicistico: la seminfermità di mente, prevista dall’art. 89.

[9] Lacan J., Introduzione teorica alle funzioni della psicoanalisi in criminologia (1950), in Ecrits, trad. it. Scritti, Einaudi Torino, Vol. I, p. 123. Preferisco tradurre ‘colpa’ piuttosto che, come si è fatto nella citata edizione italiana, ‘colpevolezza’.

Il confronto con la colpa, che per taluni avviene senza troppi affanni e che conduce allo strutturarsi di un Io integrato, per altri è invece difficilissimo e subisce intoppi, rinvii, tortuose e inefficaci deviazioni.

[10] Brandi G., Falsi forti e nuovi cattivi: gli angeli ribelli del duemila […], ne Il reo e il folle N 8, 1998, 123-130.

[11] Freud S., L’Io e l’Es, in Opere Vol. IX, Torino 1977, p.511-512.

[12] Freud S., Alcuni tipi di carattere tratti dal lavoro psicoanalitico, (1916), in Opere, vol. 8 pp.625 – 652.

[13] Carey B., The Chains of Mental Illness in West Africa, 11 Oct 2015, The New York Times (Health).

[14] Lacan J., Op. Cit. (1950), in Ecrits, trad. it. Scritti, Einaudi Torino, Vol. I, p. 119-144.

[15] Lacan J., Op. Cit. (1950), p. 125

[16] Anders Behring Breivik, il 22 luglio 2011, a Oslo e Utoya ha ucciso 77 persone e ne ha ferite molte altre. In un manoscritto di 1500 pagine ha dichiarato di “vedere sé stesso come un comandante in una guerra santa, un Salvatore della Cristianità dall’invasione dell’Islam, dal Marxismo culturale e dal femminismo […]”. Ha sempre rivendicato una completa salute mentale. In una prima perizia psichiatrica [Sl. 29] egli venne indicato come paranoico. L’opinione pubblica insorse.  È stata eseguita una seconda perizia, che lo ha dichiarato capace di intendere e di volere anche se affetto da un “grave disturbo narcisistico di personalità”. Il 24 agosto 2012 è stato giudicato capace di intendere e di volere e condannato a 21 anni di detenzione “preventiva” (forvaring), una condanna che allo scadere può essere indefinitamente prolungata di 5 anni alla volta fino a quando il condannato non è più considerato pericoloso.

[17] Lacan J., Op. Cit. (1950).

[18] Lacan J., ibidem, p. 119.

[19] Freud S., Analisi terminabile e interminabile, (1937), in Opere Vol. XI, Torino 1977, p.520. «L’apparato psichico non sopporta il dispiacere, deve scacciarlo ad ogni costo, e, quando la percezione della realtà reca dispiacere, è essa – ossia la verità – a dover essere sacrificata».

[20] Lacan J., ibidem, p. 131.

[21] Lacan J., ibidem, p. 124.

[22] Lacan J., ibidem, p. 124. Potremmo tradurre “der gehemmte mensch” come l’uomo inibito, ma anche l’uomo nascosto, l’uomo ritirato (si pensi alla grande questione del “ritiro sociale”).

[23] Lacan J., ibidem, p. 124.