ISSN 2039-1676


25 maggio 2011 |

L'Italia condannata a Strasburgo per una violazione dell'art. 3 Cedu in relazione all'uso eccessivo della forza da parte di alcuni agenti di polizia all'aeroporto di Fiumicino

Nota a Corte EDU, sez. II, sent. 5.04.2011, Pres. Tulkens, ric. n. 14569/09, Sarigiannis c. Italia

Con la sentenza Sarigiannis c. Italia resa il 5 aprile 2011, leggibile nell'allegato in calce, la Corte europea dei diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia per la violazione dell’art. 3 Cedu (che, come è noto, vieta il ricorso a pene o trattamenti inumani o degradanti) in relazione all’uso eccessivo della forza da parte di alcuni agenti della Guardia di Finanza nei confronti di due cittadini francesi, che al loro arrivo all’aeroporto di Fiumicino, erano stati fermati per un controllo, ammanettati e picchiati.
 
Il primo ricorrente – giunto all’aeroporto di Fiumicino con la moglie e i due figli – si era allontanato verso l’uscita mentre la moglie si trovava ancora all’interno della zona di riconsegna dei bagagli. Resosi conto che quest’ultima era stata fermata dalla polizia per un controllo, faceva ivi immediatamente ritorno per chiedere spiegazioni, nonostante il divieto di accesso in vigore. I poliziotti lo avevano quindi fermato, intimandogli di esibire un documento d’identità, ma lui si era rifiutato affermando che, come cittadino della UE, non era obbligato a dichiarare le proprie generalità. A questo punto era sopraggiunto sul posto anche il figlio (il secondo ricorrente). Poiché entrambi si rifiutavano di essere identificati, erano stati condotti all’interno dell’ufficio della polizia dell’aeroporto: qui i poliziotti li avevano ammanettati, minacciati e malmenati procurando ad entrambi, oltre a numerosi lividi sulle braccia e sulle gambe, anche un trauma cranico e delle ferite sul volto. Successivamente erano stati rinchiusi in due stanze diverse per due ore e mezza, prima di essere rilasciati.
 
Il procedimento penale instaurato nei confronti degli agenti si concludeva con un decreto di archiviazione perché gli elementi di indagine non venivano ritenuti sufficienti per vagliare la legittimità del ricorso all’uso della forza da parte della polizia, dal momento che gli stessi agenti di polizia, durante le operazioni di fermo, avevano riportato delle contusioni alle braccia e alle gambe.
 
I ricorrenti si dolgono della violazione degli artt. 5 § 1 (per essere stati illegittimamente trattenuti nel corso della procedura di identificazione) e 3 Cedu (per essere stati malmenati e minacciati dagli agenti di polizia).
 
Quanto alla violazione dell’art. 5 § 1 Cedu, la Corte europea rileva anzitutto che i ricorrenti erano stati condotti nell’ufficio della polizia aeroportuale a causa del loro rifiuto a sottoporsi ad un controllo d’identità. Circostanza questa che del resto non veniva messa in discussione neanche dai ricorrenti, i quali si erano limitati a contestare la legittimità di tale controllo, affermando che si trattava di una misura discriminatoria e non giustificata, dal momento che essi si trovavano nello spazio di Schengen e che la polizia aveva deciso di controllare l’identità della Signora Sarigiannis solo a causa dei suoi lineamenti orientali. I giudici europeiosservano poi che la legge italiana riconosce espressamente agli ufficiali e agli agenti di polizia la facoltà di accompagnare nei propri uffici chiunque, richiestone, rifiuti di dichiarare le proprie generalità e di ivi trattenerlo per il tempo necessario all’identificazione o comunque non oltre le ventiquattro ore (art. 11 d.lgs. n. 59 del 1978). Ciò posto, a loro avviso, la privazione della libertà personale dei ricorrenti doveva considerarsi giustificata ai sensi dell’art. 5 § 1 lett. b Cedu, che consente appunto l’arresto o la detenzione legittima per garantire l’esecuzione di un obbligazione prescritta dalla legge. Al riguardo, la Corte rileva, da un lato, che l’obbligo di dichiarare la propria identità agli ufficiali di polizia (anche qualora non sussistano sufficienti indizi per ritenere che la persona richiesta abbia commesso un reato) deve essere considerato in via generale un obbligo sufficientemente specifico e concreto (secondo quanto affermato dalla Corte di Strasburgo nella Vasileva c. Danimarca del 2003); e, dall’altro, che nel caso di specie la privazione della libertà dei ricorrenti era stata necessaria e proporzionata rispetto all’esigenza di eseguirne l’identificazione, in considerazione della breve durata del loro trattenimento (due ore e mezza). 
 
Per quel che concerne invece la violazione dell’art. 3 Cedu, la Corte europea ritiene che i maltrattamenti subiti dai ricorrenti mentre si trovavano in stato di fermo per l'identificazione, dimostrati dai certeificati medici allegati al ricorso, abbiano raggiunto la soglia minima di gravità necessaria per integrare un'ipotesi di "trattamento inumano e degradante".
 
La Corte osserva invero che, sulla base dei certificati medici prodotti dallo Stato italiano – dai quali emergeva che gli stessi agenti di polizia avevano riportato delle lesioni al momento dell’arresto –, il ricorso all’uso della forza fisica poteva ritenersi necessario per vincere la resistenza opposta dai ricorrenti di fronte alla legittima pretesa degli agenti di procedere alla loro identificazione, attestata anche dalle lesioni subite dagli stessi agenti di polizia. Sul punto la Corte ha richiamato a contrario la recentissima sentenza Darraj c. Francia, in cui i giudici di Strasburgo avevano ravvisato una violazione dell’art. 3 Cedu affermando che la forza usata dagli agenti subito dopo l’arresto di un minore, prima ancora che sproporzionata, non poteva ritenersi necessaria, considerata l’età e la gracile corporatura del ricorrente e il fatto che il medesimo non avesse tenuto comportamenti aggressivi durante l’arresto (cfr. diffusamente la scheda di Angela Colella pubblicata in questa Rivista).Tuttavia, a far difetto nella specie era l'ulteriore requisito della proporzione nell'uso della forza fisica, non avendo le autorità italiane fornito alcuna spiegazione delle lesioni subite dai ricorrenti alla testa e al volto, che appaiono del tutto ultronee rispetto alla finalità di immobilizzare e ammanettare i ricorrenti durante la procedura di identificazione. Sottolinea inoltre la Corte che i ricorrenti furono isolati ciascuno in una stanza separata, mentre la signora Sarigiannis e la figlia minore rimasero all'esterno per diverse ore, senza alcuna notizia circa la sorte dei propri cari. Una tale situazione appare alla Corte "di natura tale da provocare nei ricorrenti sofferenze fisiche e mentali [...] oltre che sentimenti di paura, di ansia e di inferiorità in grado di uminliare, avvilire e vincere alla fine la loro resistenza fisica e mentale". Ciò conduce la Corte a ritenere sussistente una violazione diretta dell’art. 3 Cedu, nella quale la Corte considera assorbita la doglianza relativa alla violazione degli obblighi procedurali discendenti da tale norma.
 
 
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La sentenza conferma l'orientamento consolidato della Corte EDU, secondo cui la legittimità dell'uso della forza da parte della polizia per superare la resistenza del privato è subordinata al duplice requisito della necessità e della proporzione. In difetto di tali requisiti, l'uso della forza - purché superiore ad una soglia minima di gravità - può configurare alternativamente una violazione dell'art. 3 Cedu, o addirittura dell'art. 2 Cedu, allorché la condotta della polizia esponga a pericolo la vita stessa del privato.
 
Sui riverberi di questa giurisprudenza della Corte EDU sull'interpretazione dell'art. 53 c.p., che non menziona espressamente il requisito della proporzione nell'uso delle armi o di altri mezzi di coazione fisica da parte della forza pubblica, cfr. da ultimo Viganò, Obblighi convenzionali di tutela penale?, in Manes-Zagrebelsky (a cura di), La Convenzione europea dei diritti dell'uomo nell'ordinamento penale italiano, 2011 Giuffrè, Milano, p. 287 ss. e ivi ult. rif.