ISSN 2039-1676


14 febbraio 2019 |

Alla Corte Costituzionale una nuova questione di legittimità della disciplina c.d. 'salva-Ilva'

GIP Taranto, ord. 8 febbraio 2019, est. Ruberto

 

1. Con ordinanza dell’8 febbraio 2019 il GIP di Taranto ha sollevato questione di legittimità costituzionale di due disposizioni facenti parte della più ampia normativa c.d. “salva-Ilva” emanata dal legislatore a partire dal 2012, ossia di quel complesso di norme speciali (che l’ordinanza illustra nel dettaglio: v. infra), introdotte allo scopo di autorizzare ex lege la prosecuzione dell’attività produttiva dell’acciaieria ionica, nonostante il sequestro preventivo senza facoltà d’uso disposto dalla magistratura tarantina nell’ambito del noto maxi-procedimento per reati contro l’ambiente, l’incolumità pubblica e la salute pubblica a carico dei gestori pro tempore dello stabilimento.  

All’attenzione dei giudici delle leggi vengono oggi portati, in particolare:

 

L’«art. 2, comma 5 del decreto legge 5 gennaio 2015, n. 1 (convertito con modificazioni dalla L. 4 marzo 2015, n. 20)», nel testo attualmente in vigore dopo successive modifiche[1], «in correlazione all’art. 3 co. 3 d.l. 207/2012 (con con modif. dalla l. 231/2012), per contrasto con gli artt. 3, 24, 32, 35, 41, 112 e 117 della Costituzione, nella parte in cui proroga alla scadenza dell’autorizzazione integrata ambientale (oggi fissata al 23 agosto 2023, a mente dell’art. 2 co. 2 D.P.C.M. 29 settembre 2017) i termini per l’attuazione del Piano delle misure e delle attività di tutela ambientale e sanitaria riguardante lo stabilimento ILVA di Taranto e, in ogni caso, il termine originariamente previsto dall’art. 3 co. 3 d.l. 207/2012 per la prosecuzione “in ogni caso” dell’attività produttiva dello stabilimento».

L’«art. 2, comma 6 del decreto legge 5 gennaio 2015, n. 1 (convertito con modificazioni dalla L. 4 marzo 2015, n. 20)», nel testo attualmente in vigore dopo successive modifiche[2], «per contrasto con gli artt. 3, 24, 32, 35, 41, 112 e 117 della Costituzione, nella parte in cui prevede che “le condotte poste in essere in attuazione del piano di cui al periodo precedente [il Piano approvato con D.P.C.M. del 14 marzo 2014] non possono dare luogo a responsabilità penale o amministrativa del commissario straordinario, dell’affittuario o acquirente e dei soggetti da questi funzionalmente delegati, in quanto costituiscono adempimento delle migliori regole preventive in materia ambientale, di tutela della salute e dell’incolumità pubblica, e di sicurezza sul lavoro”».

 

In sintesi: la prima disposizione produce l’effetto, anche attraverso il richiamo ad altre norme, di concedere ai gestori di Ilva una proroga, fino al 23 agosto 2023, del (già più volte prorogato) termine per l’attuazione del piano di risanamento ambientale e sanitario dell’azienda; la seconda disposizione, dal canto suo, correda detta proroga con un’esenzione da responsabilità penale e amministrativa – sulla cui natura si dirà infra – a beneficio del commissario straordinario di Ilva, dell’acquirente della società, nonché dei rispettivi delegati, per le condotte poste in essere in attuazione del piano di risanamento stesso.

Giova sin d’ora segnalare che l’ordinanza di rimessione tiene conto, tra l’altro, della recentissima sentenza emessa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Cordella e altri c. Italia (24.1.2019) che ha condannato il Governo italiano per non avere adeguatamente tutelato il diritto fondamentale alla vita privata (art. 8 Cedu) di circa centottanta abitanti di Taranto, da anni esposti alle emissioni nocive dell’acciaieria.

 

2. Il giudizio a quo riunisce tre diversi procedimenti, due dei quali a carico di ignoti, per reati contro l’ambiente e l’incolumità pubblica, commessi secondo l’accusa nell’ambito della gestione dell’Ilva di Taranto tra il 2014 ed il 2017. Nel quadro dell’udienza di cui all’art. 409 c.p.p., il GIP osserva che l’operatività della normativa c.d. “salva-Ilva”, e segnatamente delle disposizioni di cui ai citati commi 5 e 6 dell’art. 2 d.l. n. 1 del 2015 e ss. modif., renderebbe superflue eventuali investigazioni suppletive e condurrebbe necessariamente all’archiviazione del procedimento.

Ad avviso del rimettente, tuttavia, entrambe tali disposizioni prestano il fianco a censure di illegittimità costituzionale, che l’ordinanza passa quindi ad illustrare.

 

3. Cominciando dalla rilevanza della questione di legittimità, il GIP prende le mosse dalla prima disposizione censurata, ossia l’art. 2, comma 5 del decreto legge 5 gennaio 2015, n. 1, nella versione attualmente vigente, per effetto della quale, come già anticipato, i gestori dell’Ilva risultano autorizzati a proseguire l’attività produttiva fino al 23 agosto 2023. Al fine di mettere a fuoco i contenuti della norma censurata, risulta peraltro indispensabile collocarla nel più ampio (e assai complesso) quadro della normativa “salva-Ilva” succedutasi dal 2012 ad oggi, che il GIP passa analiticamente in rassegna, e di cui  si riportano di seguito gli snodi essenziali.

 

i) Lo stabilimento ILVA di Taranto è sottoposto, sin dal 25 luglio 2012, a sequestro preventivo emesso dal GIP di Taranto nell’ambito di un maxi-procedimento per reati contro l’incolumità pubblica, la salute pubblica e l’ambiente. Di fatto, tuttavia, l’attività produttiva non è mai cessata, per effetto della concessione ex lege della facoltà d’uso anche in costanza di sequestro penale, ai sensi del primo decreto “salva-Ilva” (d.l. 3 dicembre 2012, n. 207, convertito con modificazioni in legge n. 231 del 2012), che in sostanza autorizzava la prosecuzione dell’attività per 36 mesi decorrenti dalla data di entrata in vigore del decreto (dunque fino al 3 dicembre 2015), nei limiti dell’Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA) riesaminata (concessa dal Ministero dell’Ambiente il 26 ottobre 2012), recante prescrizioni volte a ridurre l’impatto delle emissioni sull’ambiente e la salute umana[3].

ii) Tale disciplina ha superato il vaglio di legittimità della Corte Costituzionale (sent. n. 85 del 2013), la quale ha ritenuto, tra l’altro, che il legislatore avesse effettuato «un ragionevole bilanciamento tra diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, in particolare alla salute (art. 32 Cost.), da cui deriva il diritto all’ambiente salubre, e al lavoro (art. 4 Cost.), da cui deriva l’interesse costituzionalmente rilevante al mantenimento dei livelli occupazionali ed il dovere delle istituzioni pubbliche di spiegare ogni sforzo in tal senso».

iii) L’Ilva è stata successivamente commissariata, per effetto del d.l. 4 giugno 2013, n. 61 (conv. con modif. dalla l. 3 agosto 2013, n. 89) in ragione – recita l’art. 1, comma 1 dello stesso decreto – della “inosservanza reiterata dell’autorizzazione integrata ambientale”, e dunque all’esercizio di un’attività produttiva che comporta “oggettivamente pericoli gravi e rilevanti per l’integrità dell’ambiente e della salute”. Il decreto ha introdotto altresì un procedimento per l’approvazione di un “Piano delle misure e delle attività di tutela ambientale e sanitaria dei lavoratori e della popolazione e di prevenzione del rischio di incidenti rilevanti”. Tale piano di risanamento, che ai sensi dello stesso decreto ha efficacia modificativa dell’AIA, è stato emanato con D.P.C.M. 14 marzo 2014.

iv) Si giunge quindi al decreto legge 5 gennaio 2015, n. 1 (conv. con modif. dalla legge 4 marzo 2015, n. 20), che pone l’Ilva in regime di amministrazione straordinaria delle grande imprese in crisi e che, per effetto delle modifiche introdottevi successivamente, contiene nella versione vigente le norme censurate dal GIP.

In particolare, per effetto dell’art. 1, comma 7 del decreto legge 4 dicembre 2015, n. 191 (conv. con modif. dalla legge n. 13 del 2016), all’art. 2 del d.l. n. 1 del 2015 viene introdotto un nuovo comma 5, che sposta il termine ultimo per l’attuazione del piano di risanamento di cui al D.P.C.M. 14 marzo 2014 al 30 giugno 2017, prevedendo altresì che “è conseguentemente prorogato alla medesima data il termine di cui all’art. 3 comma 3 del decreto legge 3 dicembre 2012, n. 207” (cioè il termine di 36 mesi originariamente previsto dal primo decreto “salva-Ilva”).

Di lì a poco, tuttavia, interviene il d.l. 9 giugno 2016, n. 98 (conv. con modif. dalla legge 1 agosto 2016, n. 151), il quale – ponendo in correlazione la realizzazione del piano di risanamento e la scelta del contraente privato al quale trasferire gli stabilimenti Ilva – modifica l’art. 1, commi 8 e ss. del citato d.l. n. 191 del 2015, introducendo la possibilità di proporre, in sede di presentazione delle offerte, modifiche del piano di risanamento stesso, corredate da eventuale richiesta di ulteriore proroga del termine per attuarle, non superiore a 18 mesi. Conseguentemente, lo stesso d.l. 9 giugno 2016, n. 98, con l’art. 1, comma 4 lett. a), modifica nuovamente il comma 5 dell’art. 2 del d.l. n. 1 del 2015 prevedendo che il termine del 30 giugno 2017 possa essere prorogato, fino a 18 mesi, su istanza dell’aggiudicatario della procedura di cessione dell’azienda, con Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri di approvazione delle modifiche del piano di risanamento.

Ulteriori proroghe vengono poi concesse per effetto dell’art. 6, comma 10-bis, lett. a) e c) del d.l. 30 dicembre 2016, n. 244 (conv. con modif. dalla l. 27 febbraio 2017, n. 19): tale disposizione, infatti, da un lato, nelle more dell’aggiudicazione di Ilva, ritarda nuovamente il termine per l’attuazione del piano di risanamento, fissandolo al 30 settembre 2017; dall’altro lato, e soprattutto, attraverso la modifica dell’art. 8, comma 1 del d.l. n. 191 del 2015, aggancia il termine ultimo per l’attuazione delle modifiche proposte in sede di offerta (laddove approvate con decreto del Presidente del Consiglio) alla scadenza naturale dell’AIA riesaminata, prevista per il 23 agosto 2023, soggiungendo che “a tale scadenza sono conseguentemente adeguati […] i termini previsti dall’art. 2 comma 5, del decreto legge 5 gennaio 2015, n. 1 […]”.

In linea con tali previsioni, e conclusasi la procedura di aggiudicazione dell’Ilva con decreto del 5 giugno 2017[4], le modifiche al piano di risanamento vengono approvate dal D.P.C.M. del 29 settembre 2017, che appunto conferma la scadenza del 23 agosto 2023 (art. 2, comma 2).

 

4. Passando alla seconda disposizione oggetto di censure, ossia l’art. 2 comma 6 del d.l. n. 1 del 2015, l’ordinanza osserva che, per effetto delle modifiche apportate dai già citati d.l. n. 98 del 2016 e d.l. n. 244 del 2016, esso risulta attualmente così formulato: “[…] Le condotte poste in essere in attuazione del Piano di cui al periodo precedente – si tratta del piano di risanamento di cui al D.P.C.M. del 14 marzo 2014 – non possono dare luogo a responsabilità penale o amministrativa del commissario straordinario, dell'affittuario o acquirente e dei soggetti da questi funzionalmente delegati, in quanto costituiscono adempimento delle migliori regole preventive in materia ambientale, di tutela della salute e dell'incolumità pubblica e di sicurezza sul lavoro”.

Tale previsione, secondo il giudicante, deve essere «dogmaticamente inquadrata nella categoria delle scriminanti (speciali)», e non in quella – da taluno prospettata – delle “immunità”; differenza non priva di rilievo – prosegue l’ordinanza – «ove si consideri, tra le altre cose, che le scriminanti si applicano anche ai concorrenti del reato, attesa la loro valenza oggettiva, a differenza delle immunità che hanno esclusiva rilevanza soggettiva» (p. 15). A sostegno di tale inquadramento dogmatico, dopo avere ricordato che il fondamento della scriminanti «risiede nel bilanciamento tra interessi in conflitto» (p. 16), il giudice osserva che la norma è letteralmente costruita in maniera tale da far venire meno il contrasto tra l’ordinamento giuridico e le condotte integranti reati ambientali: «a insindacabile giudizio del legislatore l’attuazione del Piano è il miglior mezzo per raggiungere uno scopo comunque meritevole di tutela, quale la prosecuzione dell’attività aziendale, o perché ritenuto prevalente su altri interessi in conflitto, o perché le misure di quel Piano costituiscono, ex lege, il giusto contemperamento tra interesse alla produzione e contro-interessi lesi dall’attività di impresa (salute, ambiente, integrità dei luoghi di lavoro ecc.)» (ibidem). Né l’inquadramento tra le scriminanti potrebbe essere messo in discussione in virtù della limitazione soggettiva della previsione (che come visto riguarda le sole condotte dell’amministratore straordinario, dell’acquirente e dei loro delegati): osserva infatti l’ordinanza che «tali soggetti vengono “deresponsabilizzati” non perché la loro funzione in quanto tale è meritevole di tutela, ma perché, rivestendo ruolo apicale o agendo su delega dei ruoli apicali, vedrebbero a sé imputata l’attuazione del Piano e le scelte di gestione dello stabilimento» (ibidem).

L’ordinanza segnala, quindi, che l’ambito di applicazione temporale dell’esimente risulta limitato al 30 marzo 2019 (l’art. 2 comma 6 del d.l. n. 1 del 2015, infatti, ne limita l’operatività ai 18 mesi successivi all’approvazione del piano ambientale, avvenuta come detto con D.P.C.M. del 29 settembre 2017). Tale “scollamento” rispetto al termine dell’attività autorizzata (23 agosto 2023), di cui peraltro non è chiara la ratio[5], è comunque irrilevante nella prospettiva dei fatti oggetto del giudizio a quo, avvenuti come visto tra il 2014 ed il 2017.

Infine, concludendo sulla rilevanza della questione, il GIP richiama la giurisprudenza della Corte Costituzionale sulle pronunce in malam partem, la quale è stabile nell’affermare che, sebbene la declaratoria di illegittimità di norma penale di favore non possa avere effetto per gli autori dei fatti commessi nella sua vigenza, ciò non si riflette negativamente sulla rilevanza della QLC: «altro – ricorda l’ordinanza citando la nota sentenza n. 148 del 1983 –  è la garanzia che i principi del diritto penale-costituzionale possono offrire agli imputati, circoscrivendo l'efficacia spettante alle dichiarazioni d'illegittimità delle norme penali di favore; altro è il sindacato cui le norme stesse devono pur sempre sottostare, a pena di istituire zone franche del tutto impreviste dalla Costituzione, all'interno delle quali la legislazione ordinaria diverrebbe incontrollabile».

 

5. Il GIP volge quindi l’attenzione alle ragioni che, a suo avviso, soddisfano anche la condizione della non manifesta infondatezza.

In termini generali, l’ordinanza si mostra critica nei confronti della illustrata «copiosa produzione normativa […] sovente estrinsecatasi […] attraverso frettolosa decretazione d’urgenza», costantemente caratterizzata dalla finalità di favorire un’attività industriale posta sotto sequestro per reati contro l’incolumità e la salute pubblica; il GIP si sofferma, a tale proposito, sulla circostanza che il provvedimento ablatorio fosse anche fondato «sulle conclusioni della perizia epidemiologica disposta in sede di incidente probatorio, che ha evidenziato come l'esposizione prolungata alle emissioni inquinanti fosse la causa dell'aumento della percentuale di diffusione di particolari malattie fra gli operai dell'ILVA e gli abitanti del circondario» (p. 20).

Alla luce delle «palesi deroghe alle norme comuni» racchiuse nella legislazione “salva-Ilva”, il GIP si domanda «se non sia stato creato un sottosistema penale connesso a questa particolare realtà industriale, confinata in zone di difficile perseguibilità, se non di sostanziale irrilevanza penale, dove la tutela di beni primari (quali la salute e lo stesso diritto alla vita) deve subire vistose deroghe per garantire la continuità di impresa e, comunque, per ragioni economiche» (p. 21).

L’ordinanza illustra, quindi, gli elementi che, nel sentenza n. 85 del 2013, erano stati valorizzati dalla Consulta a sostegno della legittimità del primo decreto “salva-Ilva”: i) l’autorizzazione a proseguire la produzione era stata concessa «per un tempo definito», pari a 36 mesi, «considerato dal legislatore necessario e sufficiente a rimuovere […] le cause dell’inquinamento ambientale e dei pericoli conseguenti per la salute delle popolazioni»; ii) l’attività era «ritenuta lecita» ex lege purché conforme alle prescrizioni dettate dall’AIA riesaminata, ossia dall’atto indicante il «nuovo punto di equilibrio» tra i confliggenti interessi in gioco, all’interno del quale erano rinvenibili «modalità e tempi per l’adeguamento dell’impianto produttivo rispetto alle regole della protezione dell’ambiente e della salute»; iii) erano previste specifiche sanzioni in caso di inosservanza della «scansione graduale degli interventi», senza peraltro prevedere «alcuna “immunità penale”» (anzi, la stessa disciplina speciale rinviava esplicitamente all’obbligo di trasmettere all’autorità giudiziaria, da parte delle autorità addette alla vigilanza ed ai controlli, le eventuali notizie di reato connesse alle inosservanze dell’AIA). In definitiva, «quelle norme tracciavano un “percorso di risanamento ambientale ispirato al bilanciamento” tra le tutela dei beni ambiente e salute e quella dell’occupazione, nessuno dei quali poteva considerarsi preminente sull’altro» (p. 23).

Tali condizioni non sono invece rinvenibili, ad avviso del GIP, nella disciplina successiva, e segnatamente nelle due disposizioni censurate, le quali hanno rispettivamente dilatato il periodo dell’autorizzazione ben oltre il limite di 36 mesi originariamente previsto, ed al contempo introdotto una causa di non punibilità ad hoc, con conseguente venire meno di quei criteri di proporzionalità e ragionevolezza che, in precedenza, avevano consentito il contemperamento di preminenti valori costituzionali (la salute e l’ambiente) con altri beni e interessi costituzionalmente tutelati.

Parafrasando un noto passaggio della sentenza n. 85 del 2013, il GIP si interroga «se, attualmente, sia proprio l’interesse economico ad essere divenuto “tiranno” rispetto al diritto alla salute» (p. 26); e rinviene un indizio in tal senso nella sentenza della Corte Costituzionale n. 58 del 2018, la quale ha ritenuto manifestamente irragionevole il sacrificio imposto alla sicurezza dei lavoratori dell’Ilva dalle norme che consentivano l’utilizzo di impianti posti sotto sequestro nell’ambito di un procedimento per i reati di cui agli artt. 437 e 589 c.p. (si trattava dell’art. 3 del decreto legge n. 92 del 2015 e degli artt. 1 comma 2 e 21-octies della legge n. 132 del 2015).

 

6. Quanto alle specifiche censure di incostituzionalità, l’ordinanza si sofferma, anzitutto, sul contrasto con l’art. 3 Cost., che viene ravvisato sotto tre distinti profili.

Il GIP individua, anzitutto, un’irragionevole disparità di trattamento tra l’Ilva e la generalità delle altre imprese: «la impugnata disciplina […] sottrae ai criteri di ordinaria perseguibilità di un reato commesso nella gestione di uno stabilimento industriale, per un prolungato lasso di tempo, esclusivamente i proprietari e i commissari dello stabilimento ILVA di Taranto (ovvero i loro delegati), mentre lascia assoggettabili a sanzioni penali tutti i dirigenti e/o proprietari di altre imprese che, nelle stesse condizioni, esercitino un'attività economica potenzialmente pericolosa per la salute pubblica (ma analogamente importante per l’economia e/o i livelli occupazionali di un territorio)» (p. 26).

In secondo luogo, il principio di uguaglianza appare violato anche «sotto il profilo della “ragionevolezza – razionalità” della disparità di trattamento: ciò in quanto – osserva il GIP – «se le condotte non punibili sono quelle in attuazione del Piano ambientale, perché rappresentano ex lege […] “adempimento delle migliori regole preventive in materia ambientale, di tutela della salute e dell’incolumità pubblica e di sicurezza sul lavoro”, perché prevedere una scriminante ad hoc, quando sarebbe stato sufficiente, per l’autore del fatto, invocare la esimente comune prevista dall’art. 51 c.p. (esercizio del diritto)?» (p. 28).

Il terzo ed ultimo profilo di violazione del principio in esame riguarda la ingiustificata disparità di trattamento che si viene a determinare anche all’interno del genus degli “stabilimenti di interesse strategico nazionale”: solamente allo stabilimento ILVA di Taranto, e non all’intera categoria, è stato infatti concesso di proseguire così a lungo l’attività produttiva, in costanza di sequestro e pur in presenza di impianti palesemente inquinanti; e soltanto ai suoi gestori è stata riconosciuta la copertura offerta dalla scriminante speciale. Tale assetto appare in contrasto con quanto stabilito dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 80 del 1969, la quale, «nel delineare i profili di legittimità delle “leggi singolari”, ha rilevato che esse devono corrispondere a una obiettiva diversità della situazione considerata, rispetto a realtà omogenee, la quale giustifichi razionalmente la disciplina differenziata per questa adottata» (ibidem).

 

7. Il secondo ordine di censure si fonda sul diritto alla salute dentro e fuori i luoghi di lavoro: dunque, in particolare, sul combinato disposto dell’art. 35 Cost., che prevede la tutela del lavoro “in tutte le sue forme ed applicazioni”, e dell’art. 32 Cost., che come noto tutela il diritto alla salute in generale. Le norme censurate, infatti, consentono di lasciare i lavoratori e la popolazione esposti a livelli intollerabili di inquinamento per un lungo lasso temporale, potenzialmente soggetto a nuove estensioni, ed esonerando da responsabilità gli autori delle condotte lesive.

Sostanzialmente sugli stessi argomenti si fonda anche la censura basata sull’art. 41 Cost., che impone all’attività di impresa di non recare danno alla sicurezza, alla libertà ed alla dignità umana; principi richiamati anche dalla rilevante giurisprudenza costituzionale (sono citate la sent. n. 399 del 1996 e la sent. n. 405 del 1999, secondo la quale «la tutela dell'iniziativa economica privata si arresta quando l'attività di impresa ponga in pericolo la sicurezza del lavoratore») (p. 29).

Ancora, si richiama l’attenzione su un ulteriore argomento sviluppato dalla Corte Costituzionale nella già richiamata sent. n. 85 del 2013, laddove in particolare i giudici delle leggi hanno valorizzato la stretta relazione esistente tra la necessità di fronteggiare un’emergenza di carattere ambientale e occupazionale, da un lato, e la «temporaneità delle misure adottate», dall’altro lato, sottolineando come quest’ultima rappresenti «una delle condizioni poste dalla giurisprudenza di questa Corte perché una legislazione speciale fondata sull’emergenza possa ritenersi costituzionalmente compatibile (sentenza n. 418 del 1992)» (p. 30).

In conclusione, secondo il GIP il «pregiudizio ai valori costituzionali tutelati dagli artt. 32, 35 e 41 della Costituzione appare dunque palese, per l’irragionevole “sbilanciamento” che quella dilatazione temporale ha provocato» (p. 30).

 

8. Ancora, le disposizioni in questione violerebbero gli artt. 24 e 112 Cost., ponendosi «in netto contrasto con il dovere dell’ordinamento di reprimere e prevenire reati che pure il Giudice delle leggi ha riconosciuto come bene oggetto di protezione costituzionale (cfr. Corte Cost. sentenza n. 34/1973), attraverso l’azione dei pubblici ministeri e l’eventuale sollecitazione del privato leso nei suoi diritti» (p. 31). Ciò in quanto la disciplina censurata «compromette irragionevolmente e, dunque, illegittimamente, la predetta potestà costituzionale, consentendo il perpetuarsi di situazioni penalmente rilevanti (artt. 434, 437 c.p., 674 c.p.) senza l’adeguata possibilità di prevenire e reprimere tali situazioni» (ibidem).

 

9. Da ultimo, l’intervento del legislatore viene altresì giudicato in contrasto con l’art. 117 Cost., alla luce delle norme interposte di cui all’art. 2 Cedu (diritto alla vita), 8 Cedu (diritto alla vita privata) e 13 Cedu (diritto ad un ricorso effettivo), «come da ultimo sancito dalla Corte Europea di Strasburgo nel procedimento n. 54413/13 (F. Cordella e altri c. Italia), definito con sentenza del 24 gennaio 2019» (p. 31).

L’ordinanza riporta anzitutto il passaggio in cui la Corte europea ha affermato «che il persistente inquinamento causato dalle emissioni dell’Ilva ha messo in pericolo la salute dell’intera popolazione che vive nell’area a rischio». In questo scenario, a determinare la condanna di Strasburgo è stata la violazione degli obblighi positivi gravanti in capo all’Italia, considerata l’omessa adozione di «tutte le misure necessarie per proteggere efficacemente il diritto al rispetto della vita privata dei ricorrenti» (p. 31); misure che, secondo la stessa Corte europea, dovranno essere messe in atto il più rapidamente possibile.

Dalle motivazioni della condanna, che prendono analiticamente in considerazione tanto gli accertati rischi per la popolazione di Taranto, quanto l’evoluzione della normativa “salva-Ilva”, emerge secondo il GIP che «i giudici sovranazionali hanno già ritenuto la normativa attualmente in vigore inidonea a garantire diritti primari, quali la salute, la vita privata in ambiente salubre e quello alla tutela effettiva dei diritti medesimi» (p. 31) (sottolineato in originale).  

Quanto infine al diritto ad un ricorso effettivo, l’ordinanza rileva che «le norme oggi censurate, che autorizzano l’attività produttiva pur in presenza di situazioni di grave compromissione dell’ambiente e della salute e che esentano i potenziali responsabili della perpetrazione di gravi fatti di inquinamento ambientale dalla responsabilità penale, continuano a privare i soggetti potenzialmente lesi della possibilità di ottenere in sede giurisdizionale la tutela dei loro diritti primari» (p. 32).

 

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10. A pochi giorni dalla pesante condanna riportata dall’Italia dinanzi alla Corte di Strasburgo – che come visto ha ravvisato la violazione dei diritti fondamentali dei ricorrenti alla vita privata ed a un ricorso effettivo (artt. 8 e 13 Cedu) –, l’ordinanza del GIP di Taranto aggiunge un nuovo tassello all’affaire Ilva, riportando all’attenzione dei giudici delle leggi l’annoso quesito in ordine alla ragionevolezza delle scelte compiute dal legislatore quando pone su un piatto della bilancia gli interessi all’ambiente ed alla salute e sull’altro i livelli di occupazione e produzione.

Un quesito che, al netto delle specificità delle singole vicende, era già arrivato al palazzo della Consulta attraverso le censure rivolte, nel corso degli anni, ad altri frammenti della normativa “salva-Ilva”. Successivamente alla più volte richiamata C. Cost. n. 85 del 2013, sono infatti intervenute le sentenze n. 182 del 2017[6] e n. 58 del 2018[7]: la prima ha ritenuto infondate le censure rivolte dalla Regione Puglia all’art. 1, comma 1, lett. b) del d.l. n. 98 del 2016 (conv. con modif. in legge 1 agosto 2016, n. 1519), recante una procedura accelerata per la modifica del piano di risanamento ambientale; la seconda ha invece dichiarato l’illegittimità dell’art. 3 del d.l. 4 luglio 2015, n. 92 (non convertito), nonché degli artt. 1, comma 2 e 2-octies della legge 6 agosto 2015, n. 132, che autorizzavano la prosecuzione dell’attività produttiva posta sotto sequestro in relazione a procedimenti per reati contro la sicurezza del lavoro. Decisiva, in tutte le menzionate pronunce, è stata la valutazione della Corte in merito alla ragionevolezza (o meno) del bilanciamento effettuato dal legislatore tra gli interessi confliggenti in gioco.

 

11. L’impressione che oggi si ricava dalla lettura della densa ed articolata ordinanza, è che il rimettente abbia colto nel segno laddove ha denunciato l’irragionevolezza insita nel convulso succedersi di continue proroghe del termine per l’attuazione del piano di risanamento, da ultimo rilanciato addirittura al 2023.

In effetti, davanti ai dati offerti da univoci studi epidemiologici, che descrivono un’allarmante situazione sanitaria nelle aree circostanti l’acciaieria, ogni ritardo nell’attuazione del piano di risanamento si paga in termini di anni di vita, o di vita sana. Possiamo certamente discutere sul significato che l’aumento della mortalità riveste ai fini della prova del nesso causale nei processi penali per reati d’evento; ma non possiamo sensatamente discutere, quanto meno non tra giuristi, sul significato che quel dato riveste per indicare una situazione di rischio sanitario diffuso, e che per questa ragione chiama le competenti autorità ad adottare provvedimenti capaci di garantire un livello di tutela adeguato al rango che il diritto alla salute riveste nella Costituzione.

La ragionevolezza che poteva ravvisarsi in un provvedimento come il decreto “salva-Ilva” del 2012, il cui difficile obiettivo era fronteggiare una prima emergenza (ambientale), senza provocarne un’altra (occupazionale), viene meno quando lo stato di emergenza si cronicizza, cessando dunque di essere realmente tale, in ragione di inerzie e conseguenti ritardi che trovano sempre la sponda di una nuova proroga; quest’ultima, infatti, è per definizione un tributo pagato alle sole ragioni della produzione e dei livelli generali di occupazione, ragioni che perciò finiscono per sovrastare con sacrificio intollerabile quelle di segno opposto dell’ambiente e della salute[8].

L’incompatibilità dell’intervento legislativo con le norme costituzionali strutturalmente chiamate ad ospitare i bilanciamenti in questione – artt. 32 e 41 Cost. – emerge, dunque, osservando la normativa “salva-Ilva” nel suo quadro complessivo, contrassegnato dal susseguirsi di proroghe la cui unica giustificazione appare essere il ritardo maturato a monte; e dunque dall’univoca tensione verso l’obiettivo di dare precedenza, comunque, all’esercizio dell’attività produttiva. Altro, infatti, è la compressione episodica di un diritto per far fronte ad un confliggente interesse costituzionalmente rilevante; altro è una compressione strutturale, quand’anche per effetto del succedersi di più provvedimenti: una logica – quella che spalma il giudizio di manifesta irragionevolezza sull’unitarietà degli effetti prodotti da autonomi provvedimenti – certamente non estranea alla Corte Costituzionale, che di recente ne ha fatto applicazione – mutatis mutandis – nella sentenza n. 178 del 2015. In quella sede, infatti, l’illegittimità delle disposizioni che hanno determinato il “blocco” della contrattazione collettiva tra il 2010 ed il 2014 è stata ravvisata, appunto, nell’«assetto durevole di proroghe» generato da più interventi legislativi; una sistematicità che, come tale, è sconfinata «in un bilanciamento irragionevole tra libertà sindacale […] ed esigenze di razionale distribuzione delle risorse e controllo della spesa», con conseguente «sopravvenuta illegittimità costituzionale» delle norme in questione, foriere di un sacrificio dell’art. 39 Cost. che «non [era] più tollerabile».

Sempre nella prospettiva di un sindacato di ragionevolezza esteso al complessivo operato del legislatore nel caso Ilva, appare opportuno il richiamo effettuato del rimettente alle statuizioni formulate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella già ricordata sentenza Cordella e altri c. Italia (ancorché limitatamente agli artt. 8 e 13 Cedu, e non anche al diritto alla vita di cui all’art. 2, sul quale a ben vedere la Corte edu non si è pronunciata). Anche tale pronuncia, infatti, si misura con il bilanciamento tra il diritto alla vita privata dei ricorrenti (art. 8 Cedu) ed i relativi contro-interessi (che la Corte raccoglie nella formula “interesse della società complessivamente intesa”); ed anch’essa, guardando alla complessiva gestione dell’affaire Ilva lungo un arco temporale cominciato quanto meno nel 2012, perviene alla conclusione secondo cui le autorità italiane non sono state in grado di individuare un corretto punto di equilibrio (malgrado, si badi, gli ampi margini di bilanciamento consentiti dall’art. 8 § 2 Cedu, che annovera tra i contro-interessi meritevoli di tutela anche il “benessere economico del paese”). Per quanto ciò non significhi, ci pare, che dal dictum di Strasburgo possa automaticamente discendere la violazione dell’art. 117 Cost. (manca infatti un testuale contrasto tra la disciplina “salva-Ilva” e la norma convenzionale interposta di cui all’art. 8 Cedu), è verosimile ritenere che l’accertamento della violazione di un diritto fondamentale avrà un suo peso specifico nella valutazione della Consulta in ordine alla ragionevolezza del bilanciamento operato dal legislatore italiano attraverso le norme censurate.

 

12. Suscitano invece alcune perplessità i passaggi dell’ordinanza dedicati alla causa di esclusione della responsabilità (anche) penale di cui all’art. 2, comma 6 del d.l. n. 1 del 2015.

Non convince del tutto, in primis, la qualificazione della stessa in termini di causa di giustificazione. A tale riguardo, occorre muovere dalla formulazione testuale della norma, in base alla quale le condotte poste in essere “in attuazione del Piano di cui al periodo precedente [ossia il D.P.C.M. 14 marzo 2014]” non sono punibili “in quanto costituiscono adempimento delle migliori regole preventive in materia ambientale, di tutela della salute e dell’incolumità pubblica e di sicurezza sul lavoro”. L’esimente, dunque, opera a favore delle condotte conformi a regole modali la cui ratio è consentire l’esercizio dell’impresa prevenendo al contempo danni per l’ambiente e la salute (sembrerebbero peraltro escluse dal beneficio, quanto meno letteralmente, le condotte poste in essere in attuazione delle modifiche al piano di risanamento introdotte dal D.P.C.M. del 29 settembre 2017).

Vista da questa prospettiva, la norma non sembrerebbe tanto escludere l’antigiuridicità, quanto sancire una sorta di presunzione di diligenza a favore delle condotte attuative del piano di risanamento; presunzione a sua volta funzionale a cristallizzare un’area di rischio consentito.

La funzione della norma in esame, allora, non consisterebbe nel creare un’area speciale di liceità a favore dei soggetti indicati; bensì nel mettere al riparo condotte conformi a regole cautelari positivizzate rispetto ad eventuali successivi giudizi di prevedibilità ed evitabilità in concreto formulati dal giudice penale. Si tratterebbe, in altre parole, di un presidio rispetto al diffuso orientamento giurisprudenziale tendente a ravvisare profili di colpa generica residuale ogniqualvolta, malgrado il rispetto delle regole cautelari formalizzate per l’esercizio di una data attività pericolosa, permangano rischi prevedibili associati alla realizzazione della stessa[9]. Un orientamento emerso anche nelle pronunce cautelari del filone principale del processo Ilva[10]; e che, come più diffusamente illustrato in altra sede[11], appare in contrasto con il principio costituzionale di colpevolezza, sub specie di calcolabilità delle conseguenze penali delle proprie azioni. Riletta in questi termini, la norma in esame da un lato risulta ridondante, in quanto mera espressione di principi generali in materia di imputazione per colpa; dall’altro lato, appare immune da censure di illegittimità costituzionale, per essere anzi essa stessa espressione di uno dei principi cardine dell’ordinamento penale (quello, appunto, di cui all’art. 27 co. 1 Cost.). Non risulta, invece, superflua, proprio in ragione della necessità di porre un argine ad un censurabile utilizzo della colpa generica sovente rinvenibile nella prassi giurisprudenziale.

A tutto concedere, qualche perplessità potrebbe derivare dalla formulazione testuale della disposizione, che a prima vista sembrerebbe racchiudere una presunzione assoluta di diligenza, dalla quale potrebbero perciò discendere intollerabili sacche di impunità. Peraltro, nell’ottica di (ri)stabilire un ragionevole bilanciamento tra l’affidamento riposto dall’agente nella liceità delle proprie condotte, da un lato, e la tutela dei beni giuridici minacciati da quelle stesse condotte, dall’altro lato, potrebbe essere sufficiente rileggere la previsione in chiave di presunzione iuris tantum, ammettendo cioè la prova contraria ogniqualvolta l’agente avrebbe dovuto prevedere, o abbia addirittura previsto, il fallimento della regola cautelare formalmente rispettata, ossia la sua incapacità di raggiungere il livello di sicurezza ex ante desiderato. Siffatta valvola di sicurezza – da introdurre in via interpretativa o eventualmente attraverso una pronuncia additiva del giudice delle leggi – consentirebbe in particolare di valorizzare fatti sopravvenuti quali nuove scoperte scientifiche o la manifesta inidoneità del piano di risanamento, rivelata ad esempio da nuovi studi epidemiologici, a garantire un elevato livello di tutela della salute pubblica.

Nell’ottica del rischio consentito, diventa altresì evidente la rilevanza dell’inquadramento della previsione in esame nell’ambito del giudizio di diligenza (e dunque della tipicità ovvero della colpevolezza, a seconda dell’impostazione dogmatica che si preferisce adottare), anziché in quello di antigiuridicità: mentre infatti il bilanciamento di interessi sotteso alle cause di giustificazione deve essere effettuato in concreto (si pensi, ad esempio, alla “proporzionalità” nella legittima difesa), il bilanciamento di interessi racchiuso nelle regole cautelari positivizzate è effettuato una volta per tutte dall’autorità che le pone, e non può in linea di principio essere rimesso in discussione caso per caso, pena la completa perdita di funzione “tipizzante” che spetta alla regola cautelare all’interno del sistema.

 

13. Le brevi riflessioni svolte sono il frutto della prima lettura di un provvedimento depositato da pochissimi giorni. Il loro unico obiettivo, pertanto, è quello di stimolare l’apertura di un dibattito su questioni attuali di estrema complessità, che nei prossimi mesi dovranno essere affrontate in diverse sedi, politiche e giurisdizionali, anche allo scopo di individuare le misure generali richiesteci dalla pronuncia di Strasburgo per porre termine alla perdurante indebita compressione del diritto alla vita privata degli abitanti di Taranto. Si tratta peraltro di questioni che, sebbene siano giunte in prima battuta sulle scrivanie dei penalisti, evidentemente coinvolgono valutazioni di ben più ampio respiro e impatto, meritevoli perciò di attenzione da parte dell’intera comunità dei giuristi.

 


[1] Le successive modifiche sono state introdotte: dall’art. 1, comma 7 d.l. 4 dicembre 2015, n. 191 (conv. con modif. dalla l. 1 febbraio 2016, n. 13); dall’art. 1, comma 4 lett. a) del d.l. 9 giugno 2016, n. 98 (conv. con modif. dalla l. 1 agosto 2016, n. 151; nonché dall’art. 6, comma 10-bis, lett. a) e c) d.l. 30 dicembre 2016, n. 244 (conv. con modif. dalla l. 27 febbraio 2017, n. 19)

[2] Introdotte dall’art. 1, comma 4, lettera b) del d.l. 9 giugno 2016, n. 98 (conv. con modif. dalla l. 1 agosto 2016, n. 151; nonché dall’art. 6, comma 10-ter del d.l. 30 dicembre 2016, n. 244 (conv. con modif. dalla l. 27 febbraio 2017, n. 19).

[3] Nel dettaglio, l’art. 1, comma 1 del d.l. n. 207 del 2012 stabilisce che, a favore degli “stabilimenti di interesse strategico nazionale”, e nei casi di “assoluta necessità di salvaguardia dell’occupazione e della produzione”, il Ministero dell’ambiente possa autorizzare, in sede di riesame dell’Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA), la prosecuzione dell’attività produttiva per un tempo non superiore a 36 mesi, a condizione che nello stesso periodo vengano adempiute le prescrizioni contenute nell’AIA riesaminata. Il successivo comma 4 stabilisce che l’autorizzazione di cui al comma 1 possa essere disposta anche quando l’impresa sia posta sotto sequestro dall’autorità giudiziaria. Quanto alle disposizioni specificamente dedicate all’Ilva di Taranto, l’art. 3, comma 1 provvede a qualificarla come “stabilimento di interesse strategico nazionale”; mentre i successivi commi 2 e 3 autorizzano direttamente la prosecuzione dell’attività ex lege, purché entro 36 mesi dall’entrata in vigore del decreto siano effettuati gli adeguamenti richiesti dall’AIA riesaminata del 26 ottobre 2012.

[4] Il  Ministero  dello  sviluppo  economico, con decreto  del  5 giugno 2017, ha aggiudicato la procedura di trasferimento dei complessi aziendali del gruppo ILVA alla società A.M. InvestCo Italy S.r.l.

[5] Sul punto l'ordinanza segnala, mostrando peraltro di non condividerne la posizione, il parere reso il 21 agosto 2018 al Ministero dello Sviluppo Economico, del Lavoro e delle Politiche Sociali, nel quale l’Avvocatura dello Stato ha affermato, anche richiamando il proprio precedente parere del 14 settembre 2017, che l’esimente in esame dovrà operare «per tutto l’arco temporale in cui l’aggiudicatario sarà chiamato ad attuare le prescrizioni ambientali impartite dall’amministrazione […] detto arco temporale risulterà quindi coincidente con la data di scadenza dell’autorizzazione integrata ambientale in corso di validità (23.8.2023)» (p. 23)

[6] Cfr. Verdolini E., Il caso ILVA Taranto e il fil rouge degli interessi costituzionali: commento alla sentenza 182 del 2017 della Corte Costituzionale, in Forum dei Quaderni Costituzionali, 29.2.2018.

[7] Cfr. Amendola G., Ilva e il diritto alla salute. La Corte costituzionale ci ripensa?, in Questione Giustizia, 10.4.2018; Zirulia S., Sequestro preventivo e sicurezza sul lavoro: illegittimo il decreto “salva-Ilva” n. 92 del 2015, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, pp. 947-952.

[8] Si tratta, in ultima analisi, della stessa logica posta dalla Corte Costituzionale alla base della declaratoria di illegittimità della normativa “salva-Ilva” in materia di sicurezza sul lavoro (sent. n. 58 del 2018, cit.). Sul limite al bilanciamento di interessi costituito dal “nucleo essenziale” di ciascun diritto, cfr. Morrone A., Il bilanciamento nello stato costituzionale, Giappichelli, 2014, 99-104 ed ivi per ulteriori riferimenti.

[9] L’esistenza di margini leciti di rischio per la salute umana, in quanto correttamente contro-bilanciati da altri interessi costituzionalmente rilevanti, è connaturata alla complessità del tessuto costituzionale, che impone limitazioni anche ai diritti di rango più elevato: cfr., oltre alla già citata sent. n. 85 del 2013, Bin R., Diritti e argomenti. Il bilanciamento degli interessi nella giurisprudenza costituzionale, Giuffrè, 1992, 32-35; Cartabia M., I principi di ragionevolezza e proporzionalità nella giurisprudenza costituzionale italiana, relazione nell’ambito della Conferenza trilaterale delle Corte costituzionali italiana, portoghese e spagnola, Roma, Palazzo della Consulta, 24-26 ottobre 2013, in www.cortecostituzionale.it, 9 ss. Sul tema, proprio con riferimento al caso Ilva, v. anche Onida V., Un conflitto fra poteri sotto la vesti di questione di costituzionalità: amministrazione e giurisdizione per la tutela dell’ambiente, in Rivista Associazione Italiana dei Costituzionalisti, 2013, n. 3, p. 2, il quale riconosce come molte attività umane ordinarie siano in linea di principio suscettibili di incidere negativamente sui diritti fondamentali della persona, e sottolinea che il bilanciamento tra costi e benefici spetta in primis ai poteri politici (legislativi e amministrativi).

[10] Cfr. Trib. Taranto (in funzione di giudice del riesame), 7 agosto 2012 (dep. 20.8.2012), secondo cui il garante risponde per gli eventi lesivi occorsi nell’ambito dei processi produttivi «ove, pur nel rispetto delle norme vigenti all’epoca della esecuzione dell’attività lavorativa da cui è scaturita l’esposizione […] non abbia adottato le ulteriori misuri preventive necessarie per ridurre il rischio concreto prevedibile di contrazione della malattia, assolvendo così all’obbligo di garantire la salubrità dell’ambiente di lavoro». Trattasi di principio frequentemente rinvenibile anche nella giurisprudenza di legittimità: cfr., ex multis, Cass. pen. n. 35341 del 2015; n. 5273 del 2016; n. 33311 del 2012 (tutte in materia di esposizione ad amianto).

[11] Sia consentito sul punto il rinvio a Zirulia S., Esposizione a sostanze tossiche e responsabilità penale, Giuffrè, 2018, pp. 348 ss., 435 ss.