15 aprile 2019 |
Contestazione dibattimentale del reato connesso e patteggiamento: una nuova dichiarazione d'illegittimità costituzionale dell'art. 517 comma 1 c.p.p. dai forti toni programmatici
Corte cost., sent. 11 aprile 2019, n. 82, Pres. Lattanzi, Red. Modugno
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1. Con la sent. cost. n. 82 dell’11 aprile 2019, la Consulta ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 517 c.p.p., per contrasto con gli art. 3 e 24 comma 2 Cost., «nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione della pena, a norma dell’art. 444 cod. proc. pen., relativamente al reato concorrente emerso nel corso del dibattimento e che forma oggetto di nuova contestazione».
La Corte costituzionale prosegue, così, a tappe forzate – con decisioni che fatalmente si susseguono con cadenza meno che annuale – l’opera di profonda ricostruzione della disciplina delle nuove contestazioni allo scopo di assicurare una piena tutela del diritto di difesa pure dopo l’aggiornamento dibattimentale dell’accusa. Dell’impianto originario in materia rimangono, in effetti, isolate tracce, lasciate dall’approccio inevitabilmente casistico proprio del giudice delle leggi. Da qui, lo scontato pronostico di ulteriori interventi additivi, mano a mano che dalla prassi emerga la rilevanza di residui ambiti normativi ove resta ancora inammissibile il rito alternativo dopo le nuove contestazioni.
2. Il valore della pronuncia qui esaminata trascende, però, la declaratoria d’illegittimità costituzionale dell’art. 517 comma 1 c.p.p., rivestendo, invece, un’intensa portata programmatica che puntualmente emerge da alcuni passaggi argomentativi, in rapporto al necessario adeguamento dell’assetto codicistico in favore di una più avanzata tutela del diritto di difesa.
Non serve ripercorrere l’esaustivo excursus dispiegato nell’apparato motivazionale in ordine al mutamento di paradigma registratosi, a seguito delle numerose pronunce della Corte costituzionale, sul rapporto fra le nuove contestazioni dibattimentali e i riti alternativi (Considerato in diritto, § 2.3. ss).
Piuttosto, va evidenziato che, per la Consulta, «rievocare» le «tappe salienti» dell’evoluzione normativa dalla stessa operata in ben più che un ventennio riveste un’importante funzione strumentale all’«enunciazione di taluni approdi, che valgano ad esaurire, pro futuro, l’intera tematica» (Considerato in diritto, § 2.2.). L’originario assetto codicistico era sostanzialmente ispirato, nella materia qui affrontata, ad una tutela “formale” del diritto di difesa in rapporto alla scelta del rito: quest’ultimo, instaurato il dibattimento e modificata l’imputazione, doveva comunque cedere a fronte del mancato soddisfacimento di esigenze economiche ed efficientistiche, che sole giustificavano i benefici premiali propri dei riti alternativi. La debolezza della costruzione emerse non appena maturò la piena consapevolezza che l’imputazione rappresenta il decisivo parametro per orientare l’esercizio del diritto di difesa: mutata la prima è irragionevole limitare il secondo.
Da qui, la conclusione, a quanto pare sino a oggi mai enunciata con tanta nettezza dalla Corte costituzionale: «[s]e … la possibilità di richiedere i riti alternativi si salda a fil doppio al diritto di difesa – in particolare, al diritto di scegliere il modello processuale più congeniale all’esercizio di quel diritto – e se è la regiudicanda … a costituire la base su cui operare tali scelte, non può che desumersi la incoerenza con quel diritto di qualsiasi preclusione che ne limiti l’esercizio concreto, tutte le volte in cui il sistema ammetta una mutatio libelli in sede dibattimentale» (Considerato in diritto, § 2.13).
Il messaggio è inequivoco. Superata ogni differenza fra gli effetti delle nuove contestazioni “fisiologiche” e “patologiche” (sent. cost. n. 237 del 2012 e n. 206 del 2017), affievolito – per non dire azzerato – il peso del criterio dell’economia processuale e della deflazione dibattimentale per escludere l’innesto di una sequenza alternativa premiale dopo le nuove contestazioni (da ultimo, sent. cost. n. 141 del 2018), data centralità al diritto di difesa in rapporto all’imputazione comunque aggiornata (fra le prime, sent. cost. n. 333 del 2009), non v’è alcuna ragione capace di giustificare una limitazione del diritto di accesso dell’imputato a un rito alternativo dopo la modifica dell’imputazione ex art. 516 c.p.p. o la contestazione suppletiva effettuata ex art. 517 c.p.p.
È, dunque, già segnata la sorte di quelle norme che ancora rendono inammissibile la richiesta di un rito alternativo dopo la nuova contestazione. Si pensi, esemplificativamente, alla preclusione verso la messa alla prova in rapporto al fatto diverso o al reato connesso, rispettivamente contestati ex art. 516 e 517 c.p.p., a maggior ragione dopo che la Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 517 c.p.p. nella parte in cui non riconosce all’imputato il diritto di chiedere tale rito alternativo (sent. cost. n. 240 del 2015) dopo la contestazione d’una circostanza aggravante (sent. cost. n. 141 de 2018).
4. Sul piano sistematico, merita appena evidenziare che non pone dubbi di compatibilità costituzionale la mancata previsione dell’accesso a un rito alternativo dopo la contestazione dibattimentale del fatto nuovo ex art. 518 c.p.p.
Avere costruito il consenso dell’imputato alla contestazione del fatto nuovo come condizione necessaria per lo svolgimento del processo cumulativo oppure sul solo fatto nuovo “sostituitosi” a quello originario, previa pronuncia di proscioglimento su quest’ultimo (cfr. T. Rafaraci, Le nuove contestazioni nel processo penale, Giuffrè, Milano, 1996, p. 55), rende l’inammissibilità della successiva richiesta del rito alternativo una soluzione normativa coerente e costituzionalmente compatibile. Detto altrimenti, il consenso dell’imputato alla contestazione del fatto nuovo ex art. 518 comma 2 c.p.p. opera come rinuncia implicita all’immediato svolgimento di un rito alternativo, comunque garantito nell’autonomo processo instaurato ex c.p.p. 518 comma 1 c.p.p. Il legislatore resta ovviamente libero di prevedere che, pure a seguito del consenso alla contestazione del fatto nuovo, l’imputato possa senza soluzione di continuità chiedere lo svolgimento di un rito alternativo, ma l’opzione normativa esorbita dall’alveo di ciò che è costituzionalmente indefettibile.
Quest’ultimo rilievo conferma come debba, invece, essere opposta la conclusione in rapporto all’accesso ai riti alternativi dopo le nuove contestazioni del fatto diverso, della circostanza aggravante e del reato connesso ex art. 12 lett. b c.p.p., effettuate nelle forme di cui agli art. 516 e 517 c.p.p. e, quindi, subite passivamente dall’imputato: sono solidi gli argomenti addotti dalla Corte costituzionale nella pronuncia in esame, nella prospettiva di assicurare un generalizzato accesso ai riti alternativi dopo l’aggiornamento dibattimentale dell’accusa.
5. A tal punto, tocca considerare in chiave critica un profilo su cui la giurisprudenza costituzionale si mostra granitica e che, nondimeno, presenta profili sistematici e operativi di rilievo non secondario. Si allude all’individuazione dell’oggetto della richiesta del rito alternativo dopo la nuova contestazione.
La pronuncia in esame – in stretta aderenza alla questione di legittimità costituzionale sollevata – fa implicitamente propria la consolidata giurisprudenza della Consulta secondo cui l’accesso al rito alternativo è consentito limitatamente al reato oggetto della contestazione suppletiva, fermo restando la preclusione per il reato oggetto dell’originaria imputazione. Sono inequivoci, in tal senso, i dispositivi delle sent. cost. n. 265 del 1994, n. 333 del 2009, n. 237 del 2013 e n. 139 del 2015. Detto altrimenti, per la Corte costituzionale, contestato in dibattimento il reato connesso ex art. 12 lett. b c.p.p., il rito alternativo può essere instaurato solo per quest’ultimo, previa separazione delle regiudicande (cfr. sent. cost. n. 265 del 1994), con prosecuzione del dibattimento in ordine all’accusa originaria. Se così non fosse, l’imputato verrebbe a trovarsi in situazione «non già uguale, ma addirittura privilegiata rispetto a quella in cui si sarebbe trovato se la contestazione [del reato connesso] fosse avvenuta nei modi ordinari» (sent. cost. n. 139 del 2015), poiché egli beneficerebbe di una sostanziale restituzione nel termine per proporre la richiesta del rito.
Sennonché, proprio il superamento dell’originario assetto codicistico, improntato alla rigida preclusione verso i riti alternativi nel dibattimento pur a seguito dell’evoluzione dell’accusa per opera dei molteplici interventi della Consulta, suggerisce una conclusione opposta.
Risultano ormai insussistenti le originarie ragioni sistematiche che giustificavano l’accesso al rito alternativo per il solo reato connesso contestato ex art. 517 c.p.p. Naturale che, in presenza dei presupposti per la connessione, l’imputato – che non aveva chiesto un rito alternativo sull’unica imputazione sino a quel momento elevata – possa vantare, invece, un interesse alla riconsiderazione della propria complessiva strategia difensiva dopo la nuova contestazione. Ovvia la condizione per una richiesta estesa anche al reato originariamente contestato: che i limiti di ammissibilità propri del rito alternativo sussistano per l’imputazione originaria e per quella oggetto della nuova contestazione. Accogliere la soluzione proposta risolverebbe anche i significativi problemi di ordine operativo in cui si dibatte il giudice nell’eventualità in cui l’imputato, contestato un reato connesso, formuli una richiesta del rito alternativo limitata solo al reato di nuova contestazione. Non si dimentichi che manca, in proposito, un’espressa normativa volta a regolare gli sviluppi procedimentali per l’ipotesi in cui l’imputato proponga una simile richiesta, al di là dell’ovvio provvedimento di separazione delle regiudicande.
Il principio di legalità processuale di cui all’art. 111 comma 1 Cost. implica che la regolamentazione di tali eventualità non possa essere lasciata alla prassi, sempre ovviamente esposta al rischio di generare disparità di trattamento, venendo, del resto, in gioco anche canoni costituzionali ineludibili, ulteriori al diritto di difesa, come l’imparzialità dell’organo giurisdizionale. Basti un esempio: nel caso di richiesta parziale d’un rito alternativo, il giudice dibattimentale sarebbe investito della prosecuzione del dibattimento sull’imputazione originaria e, al contempo, della definizione del rito alternativo su quella oggetto della nuova contestazione, con la conseguente necessità di delimitare il materiale probatorio utilizzabile nei due contesti. Operazione tutt’altro che agevole, se si pone mente che la ricostruzione del fatto e l’accertamento della colpevolezza nel caso della nuova contestazione d’un reato connesso ex art. 12 lett. b c.p.p. riposano su un’unica condotta (concorso formale di reati) oppure su una pluralità di condotte, avvinte dal nesso qualificato del medesimo disegno criminoso (reato continuato).
L’individuazione delle soluzioni in campo – ad esempio, quella d’imporre all’imputato una scelta secca fra il rito alternativo o quello ordinario per tutte le imputazioni (cfr., per tutti, M. Caianiello, Giudizio abbreviato a seguito di nuove contestazioni. Il prevalere delle tutele difensive sulle logiche negoziali, in Giur. cost., 2009, p. 4958) – esorbita dai poteri della Corte costituzionale. Quest’ultima non è, ovviamente, investita del compito di riscrivere la disciplina dell’accesso ai riti alterativi dopo le nuove contestazioni, rimesso, invece, alla discrezionalità del legislatore, chiamato a conformare gli istituti processuali in piena libertà, con solo limite della ragionevolezza.
6. Al di là di ciò, occorrerebbe che il legislatore ponesse l’accento sulla disciplina delle garanzie difensive dopo le nuove contestazioni dibattimentali. Sede naturale del generale riconoscimento del diritto dell’imputato a chiedere un rito alternativo dopo la mutatio libelli sono gli art. 519 e 520 c.p.p., volti a regolare, per l’appunto, le prerogative delle parti dopo l’aggiornamento dell’accusa, indipendentemente dalla natura della contestazione (fatto salvo quanto già detto – v. supra, § 4 – circa la contestazione del fatto nuovo), del presupposto probatorio che la sorregge e del rito di volta in volta prescelto.
Un simile intervento avrebbe il pregio di riportare coerenza nel disordinato, seppur necessitato affastellarsi delle pronunce della Corte costituzionale a proposito degli art. 516 e 517 c.p.p., rinsaldando l’importante funzione sistematica propria del codice, che non da oggi – si sa – vive un momento di profonda crisi (cfr. già E. Amodio, Il processo penale tra disgregazione e recupero del sistema, in Ind. pen., 2003, p. 7 ss.).
D’altra parte, è ben vero che fino ad ora, la Corte costituzionale ha mostrato un approccio assai cauto nel fare impiego del potere di dichiarare l’illegittimità costituzionale di norme in via conseguenziale, peraltro rendendo così evidenti i limiti intrinseci alla parcellizzazione delle sue pronunce, ove una ne implica, ormai meccanicisticamente, altre. La sent. cost. n. 82 del 2019 si atteggia, tuttavia, a punto di svolta: nel perdurante silenzio del legislatore, la rimarcata necessità di conferire effettività al diritto dell’imputato di optare per un rito alternativo dopo ogni nuova contestazione dibattimentale potrebbe indurre i giudici di Palazzo della Consulta a ben più radicali sentenze additive.