ISSN 2039-1676


10 maggio 2019 |

Monitoraggio Corte EDU gennaio 2019

Rassegna di sentenze e decisioni della Corte EDU rilevanti in materia penale sostanziale e processuale

A cura di Francesco Zacchè e Stefano Zirulia.

Tutti i provvedimenti citati sono agevolmente reperibili sul database ufficiale della Corte EDU.

Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, questo mese, da Riccardo Bertolesi (artt. 2, 3 e 8 Cedu) e Pietro Zoerle (artt. 5, 6, e 8 Cedu).

 

a) Art. 2 Cedu

Con riferimento al diritto alla vita convenzionalmente tutelato si segnalano, in questo mese, due importanti pronunce della grande camera della Corte di Strasburgo.

In primo luogo, con la sent. 29 gennaio 2019, Güzelyurtlu et a. c. Cipro e Turchia la grande camera della C. eur. dir. uomo ha riconosciuto la violazione degli obblighi procedurali di cui all’art. 2 Cedu. Il caso riguardava l’assassinio di un uomo di affari originario della Repubblica Turca di Cipro del Nord e della sua famiglia, verificatosi nella parte dell’isola sottoposta al controllo del Governo Cipriota. Ad avviso dei ricorrenti, i due Stati coinvolti, Cipro e Turchia, che esercita un controllo effettivo sulla Repubblica Turca di Cipro del Nord, avrebbero violato gli aspetti procedurali e sostanziali dell’art. 2 Cedu, omettendo di collaborare proficuamente allo svolgimento di una indagine effettiva in relazione all’omicidio, ancorché le Autorità Cipriote fossero riuscite ad individuare alcuni sospettati. 

In via preliminare, la C. eur. dir. uomo afferma l’ammissibilità ratione loci del ricorso proposto nei confronti della Turchia. Sebbene l’omicidio sia avvenuto nella parte dell’isola sottoposta alla autorità cipriota, la competenza giurisdizionale della Repubblica di Cipro del Nord sui crimini commessi nel territorio di tutta l’isola ed il controllo effettivo esercitato dalla Turchia su detta Repubblica integrano un “jurisdictional link” tra i ricorrenti e lo Stato Turco.

Quanto al merito della vicenda, dopo avere ribadito che nel contesto di indagini transnazionali l’art. 2 Cedu impone agli Stati un obbligo di collaborazione transnazionale al fine di condurre una indagine effettiva, la Corte europea ritiene che, mentre il Governo di Cipro abbia adottato ogni misura ragionevole per assicurare una tale collaborazione, la Turchia abbia invece violato le disposizioni convenzionali, omettendo di fornire risposte adeguate alle richieste di estradizione provenienti da Cipro.

Con la sent. 31 gennaio 2019 Fernandes de Oliveira c. Portogallo la grande camera della Corte di Strasburgo ha invece modo di soffermarsi sugli obblighi di protezione delle persone vulnerabili scaturenti dalla disposizione convenzionale. Nel caso sottoposto al suo esame, la ricorrente lamentava la violazione degli obblighi positivi di cui all’art. 2 Cedu, asserendo che il suicidio commesso dal figlio doveva considerarsi riconducibile alle negligenze dell’ospedale psichiatrico nel quale egli si era volontariamente ricoverato. In particolare, la struttura non avrebbe supervisionato sufficientemente il paziente, né adottato adeguati sistemi di sicurezza e nemmeno previsto una adeguata procedura di emergenza. Una ulteriore violazione dei principi scaturenti dalla Carta sarebbe poi ravvisabile nella inadeguatezza del quadro normativo statale e, segnatamente, nella assenza di linee guida scritte relative alle misure di contenimento da adottare per la protezione della vita dei pazienti ricoverati in strutture psichiatriche ospedaliere.

La C. eur. dir. uomo esclude che, nel caso in esame, sia configurabile una violazione dei profili sostanziali di cui all’art. 2 Cedu.

Anzitutto, deve ritenersi adeguato al parametro convenzionale il quadro normativo predisposto dallo Stato convenuto: il requisito della “quality of law” va infatti valutato diversamente ove a venire in gioco siano i limiti negativi di cui agli artt. 3, 5 e 8 Cedu, oppure, come nel caso di specie, gli obblighi positivi di protezione di cui all’art. 2 Cedu.

Del pari, la Corte di Strasburgo ritiene che, alla luce del comportamento del paziente nell’ultimo periodo della sua vita, non sussistessero segnali tali da rendere prevedibile il rischio di suicidio, sicché si deve escludere la violazione dell’obbligo di adottare le necessarie misure operative per la tutela delle persone in condizioni di vulnerabilità.

Considerata la durata della vicenda giudiziaria (più di unici anni), la Corte ritiene invece violato il profilo procedurale dell’art. 2 Cedu, sul versante del diritto a che l’accertamento processuale sia definito in tempi ragionevoli. (Riccardo Bertolesi)

 

b) Art. 3 Cedu

Tra le numerose sentenze in materia di art. 3 Cedu, si segnala in primis la sent. 15 gennaio 2019 Ilghiz Khalikov c. Russia con cui la Corte europea ha riconosciuto la violazione degli obblighi di protezione contro la tortura e i trattamenti inumani e degradanti verso le persone in vinculis. Il caso riguardava un cittadino russo che, nel corso del trasferimento verso una prigione, veniva ferito ad una gamba da un proiettile sparato dalle guardie penitenziarie per sedare un tentativo di fuga di alcuni detenuti. Nel caso in esame, la Corte di Strasburgo ha ritenuto che il ferimento fosse da rimproverare alle negligenze delle guardie nella organizzazione del trasporto. La Corte europea ha altresì accertato la violazione da parte delle autorità statali dell’obbligo di compiere una indagine effettiva per fare luce sull’accaduto.

Nella sent. 17 gennaio 2019 X et a. c. Bulgaria, la Corte di Strasburgo ha escluso invece la violazione degli obblighi positivi di cui all’art. 3 Cedu. I ricorrenti, una coppia di cittadini italiani e i loro tre figli adottati in Bulgaria, affermavano che i bimbi avevano rivelato di avere patito abusi sessuali durante il periodo trascorso in orfanatrofio prima dell’adozione. Tali fatti non erano però stati fatto oggetto di adeguate indagini.

La Corte europea ha ritenuto, da un lato, l’adeguatezza delle indagini svolte, dall’altro, che i risultati delle stesse non consentissero di provare omissioni addebitabili alle persone della struttura.

Di grande interesse per il nostro Paese, anche in virtù della risonanza ricevuta da parte di molte testate giornalistiche, è la sent. 24 gennaio 2019 Knox c. Italia, con cui la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia, tra l’altro, per la violazione degli obblighi procedurali scaturenti dall’art. 3 Cedu.

Questi, in estrema sintesi, i fatti presi in considerazione dalla Corte europea. A Perugia, nella notte tra l’1 ed il 2 novembre 2007, veniva uccisa M.K., una ragazza inglese che si trovava in Italia per un soggiorno di studio. Le indagini condotte dagli inquirenti si concentravano sulla ricorrente, Amanda Knox, coinquilina di M.K. e sul suo fidanzato, Raffaele Sollecito. Nei primi giorni successivi al delitto, le Forze dell’ordine interrogavano più volte la ricorrente, la quale originariamente aveva raccontato di non essersi recata quella sera al lavoro e di avere trascorso la notte in compagnia del suo ragazzo. Nella notte del 6 novembre 2007, la Knox, che si trovava in Commissariato per accompagnare il suo fidanzato all’interrogatorio, veniva tuttavia nuovamente risentita. Secondo il suo racconto, in assenza di un avvocato, sotto la continua pressione degli inquirenti, i quali – con grida e continui appellativi di “bugiarda” – la invitavano a raccontare la verità e la colpivano anche con scappellotti alla testa, la ragazza entrava in uno stato di confusione che la portava a raccontare una nuova versione dei fatti: la notte dell’omicidio non sarebbe rimasta dal suo fidanzato ma sarebbe stata nel proprio appartamento insieme al suo datore di lavoro D.L. e alla vittima. Questi ultimi si sarebbero chiusi nella camera della ragazza, mentre la ricorrente sarebbe rimasta in cucina, finché, a un certo punto, la Knox avrebbe sentito gridare la vittima e visto D.L. uccidere la ragazza.

In seguito a tali dichiarazioni, la Knox veniva indagata e arrestata, dapprima, per l’omicidio di M.K. e, successivamente, per calunnia nei confronti di D.L., che – nel frattempo – aveva fornito un alibi alla Polizia. Fin dalle prime ore successive a queste dichiarazioni, la ricorrente sosteneva che esse fossero state rese a causa del comportamento della autorità.

Nel caso in esame, la Corte europea ha ritenuto che le autorità italiane avessero omesso di svolgere una indagine per chiarire le circostanze e le eventuali responsabilità in merito ai fatti raccontati dalla ricorrente e inerenti la notte del 6 dicembre.

Nella valutazione della Corte europea assumono grande rilevanza una serie di fattori che, essendo particolarmente indicativi della situazione di disordine e di confusione verificatasi quella notte in commissariato, avrebbero dovuto mettere in allerta le autorità italiane circa una possibile violazione della dignità della ricorrente e la connessa esigenza di avviare delle indagini effettive. Tra i fatti presi in considerazione vi sono in particolare: la durata degli interrogatori subiti dalla Knox; la sua situazione di vulnerabilità; l’atteggiamento tenuto dall’interprete, il quale aveva agito come “mediatore” tra gli inquirenti e la ragazza piuttosto che nel corretto esercizio della sua funzione; nonché il comportamento inappropriato di un agente di polizia, che aveva persino abbracciato e consolato la ricorrente.

La Corte di Strasburgo ha invece escluso che vi siano elementi sufficienti per concludere che vi sia stata una violazione del profilo materiale della disposizione convenzionale.

In materia di condizioni detentive, viene in rilievo la sent. 29 gennaio 2019, Nikitin et a. c. Estonia, nella quale la C. eur. dir. uomo ha riconosciuto che la situazione di sovraffollamento e le dimensioni dello spazio personale inferiore ai tre metri quadri in cui i ricorrenti avevano vissuto nel carcere di Tallin costituiscono un trattamento inumano e degradante.

Infine, nella sent. 31 gennaio 2019, Rooman et a. c. Belgio, la grande camera della Corte di Strasburgo si è occupata dei trattamenti sanitari alle persone detenute. Il ricorrente, un cittadino belga affetto da disturbi mentali, in detenzione presso un istituto carcerario, lamentava di non avere ricevuto cure mediche adeguate all’interno del carcere in cui si trova recluso. Più di preciso, all’interno dell’istituto non sarebbe stato presente alcun medico di lingua tedesca – ossia la lingua originaria del ricorrente -, con la conseguenza che questo ultimo non avrebbe potuto riceve idonei trattamenti medici e che, dunque, la sua permanenza nell’istituto senza alcuna speranza realistica di cambiamento avrebbe integrato una violazione degli obblighi di cui all’art. 3 Cedu. La C. eur. dir. uomo divide in due periodi la detenzione del ricorrente: nel periodo che va dal 2004 al 2017, la mancanza di un medico di lingua tedesca e l’impossibilità di accedere a cure appropriate rappresenta una esperienza particolarmente dolorosa, tale da eccedere la sofferenza intrinseca alla detenzione e da costituire la violazione dell’art. 3 Cedu; viceversa, dopo l’agosto 2017, il tentativo delle Autorità di apprestare trattamenti idonei, seppure non scevro da alcune carenze, non raggiunge un livello di gravità tale da comportare un ulteriore infrangimento della disposizione convenzionale. (Riccardo Bertolesi)

 

c) Art. 5

Con riferimento alla libertà personale si segnalano due sentenze in tema di diritto alla riparazione per ingiusta detenzione, dove viene affrontato il tema dell’equità dell’indennizzo riconosciuto dai tribunali nazionali. In particolare, la sent. 22 gennaio 2019, Gorea c. Moldavia, ha per oggetto un arresto amministrativo-penale della durata di cinque giorni, compiuto sulla base di un provvedimento giurisdizionale successivamente annullato. La sent. 22 gennaio 2019, Móry e Benc c. Slovacchia, prende, invece, le mosse da due misure di custodia cautelare, annullate perché fondate su formule astratte e stereotipate. In entrambi i casi le autorità nazionali hanno stabilito il diritto al risarcimento per l’illegittima privazione della libertà personale, liquidando, però, un importo nettamente inferiore alle somme riconosciute in casi simili dalla Corte europea. I giudici di Strasburgo, proprio considerando il quantum della riparazione, hanno riconosciuto ai ricorrenti lo status di vittime in riferimento all’art. 5, comma 1 lett. c Cedu e - non discostandosi dagli accertamenti in merito all’illegalità della detenzione compiuti dai tribunali nazionali - hanno dichiarato la violazione della disposizione convenzionale, liquidando una somma che è andata a integrare quanto già stabilito a livello interno. (Pietro Zoerle)

 

d) Art. 6

Sotto il profilo dell’equità processuale, viene in risalto la sent. 8 gennaio 2019, Nikotin c. Russia. Nel caso di specie, il ricorrente, condannato per omicidio, contestava le indebite pressioni della madre della vittima sui giurati che avevano emesso il verdetto, minando l’imparzialità soggettiva del collegio giudicanate. La Corte ha affermato la violazione convenzionale, osservando che le indagini condotte su ordine del presidente del tribunale non apparivano sufficienti a dissipare ogni dubbio circa la realtà e la natura delle accuse del ricorrente.

Viene poi in rilievo, sotto diversi profili, la sent. 24 gennaio 2019, Knox c. Italia, con la quale sono state sollevate diverse censure con riferimento ad alcuni atti relativi alle indagini preliminari nel procedimento sull’omicidio di Meredith  Kercher (v. Gialuz, La violazione dei diritti fondamentali nuoce alla ricerca della verità: la Corte di Strasburgo condanna l'Italia per il procedimento nei confronti di Amanda Knox, in questa rivista, 25 febbraio 2019). In primo luogo, la Corte ha riconosciuto la violazione del diritto all’assistenza difensiva (art. 6, § 3, lett. c Cedu) allorché la ricorrente è stata sottoposta ai primi interrogatori. Difatti, sebbene non fosse stata ancora formalizzata un’accusa nei suoi confronti, le autorità inquirenti - secondo i canoni giurisprudenziali europei - avevano già ragionevoli motivi per ritenere la ragazza implicata nell’omicidio e, quindi, titolare del diritto di ricevere informazioni sull’accusa e accedere all’assistenza di un difensore. D’altronde, la circostanza che le dichiarazioni così acquisite siano state dichiarate inutilizzabili non esclude la violazione convenzionale. Diversamente, per quanto riguarda la presunta violazione al diritto all’informazione dettagliata sulla natura e sui motivi dell’accusa in una lingua comprensibile all’indagato, la Corte non riconosce le fondatezza del ricorso, osservando che l’avviso di conclusione delle indagini è stato redatto sia in inglese sia in italiano. Un ulteriore motivo del ricorso ha avuto per oggetto il diritto all’assistenza di un interprete. In proposito, i giudici europei hanno riconosciuto la violazione dell’art. 6 commi 1 e 3 lett. c Cedu, sottolineando che le autorità nazionali non hanno compiuto alcuna indagine sull’adeguatezza dell’assistenza linguistica offerta alla ricorrente. L’interprete, infatti, si è spinta a intrecciare una relazione umana ed emotiva con l’indagata e tale comportamento, unitamente ad altri fattori, avrebbe provocato ripercussioni sulla generale equità del processo.

Con riferimento alla presunzione di innocenza, si segnala la sent. 29 gennaio 2019, Stirmanov c. Russia. In particolare, il ricorrente, denunciato per arbitrary unlawful acts commessi nell’esercizio delle proprie funzioni all’interno di una società, si lamentava delle ripercussioni negative subite sul luogo di lavoro a seguito del provvedimento del pubblico ministero con il quale, per un verso, veniva dichiarata la prescrizione del reato e, per un altro verso, si riconosceva espressamente la responsabilità penale. La Corte ha dichiarato la violazione dell’art. 6 comma 2 Cedu, sottolineando come la dichiarazione di colpevolezza espressa dall’autorità inquirente abbia danneggiato la reputazione del ricorrente, senza, peraltro, consentirgli l’esercizio dei propri diritti difensivi rinunciando alla causa di estinzione del reato.

Sempre in tema di presunzione di innocenza, la sent. 31 gennaio 2019, Maslarova c. Bulgaria torna sull’impatto che le dichiarazioni rese dalle autorità possono riverberare nell’opinione pubblica. La ricorrente, ex ministro del governo bulgaro indagata per reati contro la pubblica amministrazione, ha contestato la lesività delle affermazioni pubbliche rese da diversi soggetti nell’ambito del procedimento volto a togliere l’immunità parlamentare. La Corte non ha riconosciuto la violazione con riferimento alle dichiarazioni rese dal procuratore generale, rilevando che le stesse risultavano funzionali ad argomentare la richiesta di revoca dell’immunità. Diversamente, le affermazioni rese da un portavoce del pubblico ministero e dal vicepresidente della commissione parlamentare incaricata del caso hanno violato il dettato convenzionale, poiché si sono spinte al di là della semplice descrizioni delle circostanze fattuali, potendo essere interpretate dal pubblico come una categorica affermazione di responsabilità penale. (Pietro Zoerle)

 

e) Art. 8

Sul versante del diritto al rispetto della vita private e familiare, si segnala la sent. 10 gennaio 2019, Ēcis c. Lettonia, dove viene censurata la disparità di trattamento tra detenuti di sesso maschile e femminile. In particolare, le autorità penitenziarie avevano negato al ricorrente un permesso per recarsi al funerale di un congiunto, possibilità che sarebbe stata concessa a una detenuta che si fosse trovata nelle sue stesse condizioni. I giudici europei, pronunciandosi nel senso della violazione convenzionale, sottolineano che un regime carcerario più favorevole nei confronti delle detenute può trovare giustificazione solo sulla base di esigenze particolari, come, per esempio, la maternità.

Sempre sotto il profilo dell’art. 8 Cedu, la sent. 10 gennaio 2019, Khadija Ismayilova c. Azerbaijan, ha dichiarato violato il dettato convenzionale a favore di una giornalista di inchiesta vittima di una campagna diffamatoria, evidentemente ordita da organi di Stato. In proposito, viene censurata l’assenza di indagini adeguate rispetto alle denunce della ricorrente da parte dell’autorità giudiziaria, che, anzi, autorizzando le pubblicazioni di resoconti sulle investigazioni, ha deliberatamente divulgato dati sensibili della giornalista e dei suoi familiari.

Diversamente, la sent. 17 gennaio 2019, X e altri c. Bulgaria, ha riconosciuto l’adeguatezza delle indagini condotte dalla autorità nazionali (penali e amministrative), su presunti maltrattamenti subiti in orfanotrofio da bambini di origine bulgara, poi adottati in Italia.

Ancora, la sent. 24 gennaio 2019, Catt c. Regno Unito ha stabilito la violazione del diritto alla vita privata e familiare a favore di un cittadino britannico di novantaquattro anni i cui dati sensibili erano stati conservati dalle forze dell’ordine senza ragionevoli motivazioni. Si trattava, infatti, di un attivista politico che aveva semplicemente preso parte ad alcune proteste sfociate in scontri con la polizia. L’assenza di precedenti penali, l’età del ricorrente e la circostanza che non si fosse mai rivelato un soggetto socialmente pericoloso escludono la sussistenza di valide ragioni che possano giustificare, secondo i parametri convenzionali, un’interferenza nella sua vita privata.

Infine, si segnala la sent. 24 gennaio Cordella e a. c. Italia, nella quale la C. eur. dir. uomo si è occupata della ben nota vicenda dell’industria siderurgica Ilva di Taranto (per un commento, v. Zirulia S., Ambiente e diritti umani nella sentenza della Corte di Strasburgo sul caso Ilva, in questa Rivista). I numerosi cittadini italiani ricorrenti lamentavano, tra l’altro, la violazione degli artt. 8 e 13 Cedu, contestando allo Stato italiano di non avere adottato le misure normative volte a proteggere la loro salute e l’ambiente dagli effetti nocivi derivanti dalle emissioni dello stabilimento, nonché di avere omesso di fornire le informazioni sull’inquinamento e sui rischi correlati per la loro salute. Nel ravvisare una violazione dell’art. 8 Cedu la Corte ricorda anzitutto come, nel caso di esercizio di attività pericolose, la previsione convenzionale prevede l’obbligo positivo per gli Stati di mettere in atto una legislazione adatta alla specificità di tale attività e, in particolare, al livello di rischio che potrebbe derivarne. Nel caso in esame, le autorità nazionali avrebbero omesso di affrontare la questione con la diligenza dovuta: gli sforzi messi in atto dalle autorità nazionali di ridurre il livello dell’inquinamento non sarebbero stati infatti adeguati a fare fronte agli effetti inquinanti dello stabilimento, effetti accertati dai diversi studi scientifici che si sono susseguiti nel tempo. In tale valutazione, la Corte di Strasburgo focalizza in particolare i cd. decreti legge “salva Ilva” con cui il Governo italiano ha dettato misure urgenti per garantire la continuazione dell’attività produttiva, accordando una immunità penale ed amministrativa alle persone incaricate di rispettare le prescrizioni, e ciò nonostante la constatazione da parte delle competenti autorità giudiziarie dei gravi rischi per la salute e per l’ambiente. La Corte di Strasburgo riconosce poi una violazione dell’art. 13 Cedu, per l’assenza nell’ordinamento italiano di vie di ricorso utile ed effettive che consentano ai ricorrenti di sollevare doglianze di fronte alle autorità nazionali relative alla impossibilità di ottenere misure che garantiscano la bonifica del territorio. (Pietro Zoerle e Riccardo Bertolesi)