ISSN 2039-1676


19 dicembre 2018 |

Monitoraggio Corte Edu settembre 2018

Rassegna di sentenze e decisioni della Corte Edu rilevanti in materia penale sostanziale e processuale

A cura di Francesco Zacchè e Stefano Zirulia.

Tutti i provvedimenti citati sono agevolmente reperibili sul database ufficiale della Corte EDU.

Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, questo mese, da Lucrezia Rossi (artt. 2, 3, 9, 10, 11) e Francesca Ertola (artt. 5, 6, 8 Cedu).

 

a) Art. 2 Cedu

In materia di diritto alla vita si segnala la sent. 4 settembre 2018, Yirdem e altri c. Turchia. Il ricorso era stato presentato dalla moglie e dai figli di Nayim Yirdem, deceduto per ischemia celebrale e cardiaca, come conseguenza di un’intossicazione da eptano e toluene, il 16 agosto 2003, pochi giorni dopo il ricovero presso un ospedale di Istanbul. I ricorrenti lamentavano la violazione dell’art. 2 Cedu sotto il profilo sia sostanziale che procedurale: ritenevano, infatti, non solo che il personale medico non avesse agito con la diligenza necessaria a fronte della rottura della bombola d’ossigeno collegata al loro familiare, ma anche che i processi instaurati davanti alle autorità nazionali – in sede penale per la responsabilità dei sanitari e in sede civile per il risarcimento del danno – non fossero stati effettivi e sufficientemente rapidi. Quanto al primo profilo, la C. eur. dir. uomo ha ritenuto che, trattandosi di un caso di negligenza medica, il suo scrutinio fosse limitato alla verifica in ordine all’esistenza di un apparato normativo idoneo ad imporre agli ospedali l’adozione di misure preventive per la tutela della vita dei pazienti; sotto tale profilo, l’ordinamento turco non aveva rivelato alcuna carenza. Per quanto riguarda, invece, il secondo profilo, la C. eur. dir. uomo ha riconosciuto una violazione dell’art. 2 Cedu, limitatamente però alla durata del procedimento penale e di quello civile (rispettivamente, nove e tredici anni), giudicandoli sotto ogni altro aspetto adeguati ed effettivi. (Lucrezia Rossi)

 

b) Art. 3 Cedu

Per quanto concerne il divieto di trattamenti inumani e degradanti, vanno segnalate due sentenze, entrambe del 20 settembre 2018.

Nella prima, Aliyev c. Azerbaijan, il ricorrente era stato accusato di plurimi reati a sfondo economico che avrebbe commesso in qualità di presidente della ONG Legal Education Society, ed era stato in ragion di ciò sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere. Lo stesso lamentava che durante tale periodo fossero state realizzate molteplici violazioni dell’art. 3 Cedu, dovute a un’assistenza medica inadeguata rispetto alle sue peculiari condizioni di salute, alla detenzione in celle sovraffollate, nonché all’assenza di sistemi di ventilazione idonei durante il trasporto   verso l’aula d’udienza ed il trattenimento presso quest’ultima. La C. eur. dir. uomo ha ritenuto sussistente la violazione dell’art. 3 Cedu solo in relazione alle modalità di detenzione dal 9 al 12 agosto 2014; il detenuto, infatti, era costretto in una cella molto piccola, dove lo spazio personale era pari circa a 1.1 mq., dunque ben al di sotto dello spazio minimo di 3 mq. Al contrario, la Corte Europea ha ritenuto che le cure mediche offerte al ricorrente non fossero inadeguate alle sue esigenze, stante i tempestivi e frequenti controlli sanitari effettuati; ed ha ritenuto cessata la violazione a partire dal 12 agosto, giorno di trasferimento in una cella più grande e meglio attrezzata. In relazione, infine, all’ultima doglianza, la C. eur. dir. uomo ha dichiarato il ricorso inammissibile, non avendo il ricorrente esperito tutti i rimedi possibili a livello nazionale.

Nella seconda sentenza, Mushegh Saghatelyan c. Armenia, il ricorrente era stato arrestato per aver partecipato alle proteste presso la Freedom Square di Yerevan contro alcune irregolarità avvenute durante le elezioni del primo ministro armeno nel 2008. Lo stesso lamentava una violazione dell’art. 3 Cedu sia sotto il profilo sostanziale, perché maltrattato e umiliato al momento dell’arresto, sia procedurale, data l’assenza di effettività delle investigazioni a carico degli agenti asseritamente responsabili delle lesioni da lui riportate. La C. eur. dir. uomo ha ritenuto sussistenti entrambe le violazioni. Quanto alla prima, la Corte di Strasburgo ha ribadito che, nei casi in cui un detenuto, inizialmente sano, riporti in seguito un peggioramento delle condizioni di salute, grava sul governo l’onere di fornire una giustificazione: nel caso concreto, le spiegazioni fornite dalle autorità armene sono state ritenute insufficienti, essendosi esaurite nell’apodittica affermazione che le lesioni del ricorrente erano conseguenza del legittimo uso della forza al momento dell’arresto, senza adeguato supporto probatorio e argomentativo. Quanto alla seconda violazione, la Corte Europea ha ritenuto inadeguate le indagini svolte, evidenziandone una serie di carenze: non erano state in alcun modo verificate le affermazioni del ricorrente, non erano stati sentiti i poliziotti o i testimoni, non era stato effettuato un controllo medico tempestivo e, oltretutto, non era stata portata alcuna prova concreta a sostegno della tesi del Governo. (Lucrezia Rossi)

 

c) Art. 5

Con riferimento all’art. 5 Cedu, in materia di detenzione disposta in assenza di una base legale, si evidenzia la sent. 20 settembre 2018, Mushegh Saghatelyan c. Armenia. Il ricorrente, condotto con forza ad una stazione di polizia verso le 6.30 a.m. del 1° marzo 2008, era stato formalmente arrestato solo alle 10.30 p.m., dopo essere stato sottoposto ad una procedura di “pre-arresto” (“bringing-in”), istituto non espressamente previsto dalla legislazione nazionale e riconosciuto per la prima volta dalla Corte di cassazione in una decisione del 2009. La privazione della libertà personale del ricorrente – costretto in una cella per la durata di sedici ore senza possibilità di conferire con il proprio difensore – deve pertanto considerarsi illegittima ai sensi dell’art. 5 comma 1 Cedu, in quanto disposta al di fuori dei casi e dei modi previsti dalla legge. Inoltre, a seguito della formalizzazione dell’arresto, la convalida da parte del giudice era intervenuta oltre il termine perentorio di 72 ore previsto dalla normativa interna, in violazione, nuovamente, dell’art. 5 comma 1 Cedu. Infine, i giudici di Strasburgo hanno accertato la violazione dell’art. 5 comma 3 Cedu in relazione alla proroga della custodia cautelare disposta successivamente alla misura pre-cautelare: l’ordinanza del giudice era motivata con formule stereotipate, senza alcuna indicazione delle specifiche esigenze cautelari a fondamento della decisione (Francesca Ertola).

 

d) Art. 6 Cedu

In tema di equità processuale, si segnala la sent. 4 settembre 2018,  Ömer Güner c. Turchia, in cui la C.edu ha confermato l’ormai consolidato orientamento – originatosi con il leading case Salduz c. Turchia – secondo cui viola l’art. 6 comma 1 e 3 lett. c Cedu la privazione dell'assistenza legale nei momenti immediatamente successivi all'arresto e il successivo utilizzo delle dichiarazioni rese in quei frangenti “under duress”.

Per quanto concerne, poi, il diritto al confronto coi testimoni a carico merita richiamare la sent. 6 settembre 2018, Dadayan c. Armenia. Il ricorrente, accusato di favoreggiamento al contrabbando di uranio, sosteneva di essere stato condannato sulla base delle dichiarazioni accusatorie rese dai due contrabbandieri (processati in Georgia) nel corso delle indagini preliminari. Dopo aver effettuato il test elaborato dalla Corte in tema di testimoni assenti – in forza delle sent. Al-Khawaja et Tahery c. Regno Unite e Schatschaschwili c. Germania – la C.edu ha accolto tale doglianza, riscontrando la violazione dell’art. 6 comma 1 e 3 lett. d Cedu. Da un lato, a fronte del rifiuto da parte del Ministro della Giustizia georgiano di autorizzare il trasferimento dei testimoni, le autorità armene non avevano compiuto tutti gli sforzi necessari per assicurare al ricorrente il diritto al confronto (ad es. tramite un’audizione mediante videoconferenza). Dall’altro, i giudici nazionali non avevano adottato le opportune cautele nel valutare tali dichiarazioni accusatorie. In definitiva, le dichiarazioni rese dai due contrabbandieri erano state utilizzate in maniera determinante ai fini della condanna in assenza di garanzie procedurali idonee a riequilibrare il deficit di dialetticità.

Infine, sempre sul versante dell'equità processuale, è opportuno ricordare la sent. 6 settembre 2018, Kontalexis c. Grecia sull’obbligo di riapertura del processo conclusosi con sentenza irrevocabile e riconosciuto viziato ex art. 6 Cedu. Nel caso di specie, la Grecia era stata condannata ai sensi dell’art. 6 comma 1 Cedu – sotto il profilo del diritto a esser giudicati da un tribunale stabilito dalla legge – a causa della sostituzione immotivata di uno dei giudici designati (v. sent. 31 maggio 2011, Kontalexis c. Grecia). Il ricorrente proponeva dinnanzi alla Corte di Cassazione domanda di revisione dichiarata, tuttavia, inammissibile, in quanto ­– secondo la legge nazionale – la violazione riscontrata costituiva una mera irregolarità formale, tale da non compromettere l’equità complessiva del procedimento. A seguito di tale diniego, il ricorrente presentava un nuovo ricorso alla Corte di Strasburgo, sostenendo che il rigetto della sua richiesta di revisione del processo integrasse un’ulteriore violazione dell’art. 6 Cedu, oltre che dell’art. 46 Cedu. I giudici di Strasburgo, però, non hanno accolto tale doglianza, evidenziando come le motivazioni addotte dalla Suprema Corte rientrassero nel margine di apprezzamento rimesso ai giudici nazionali. Inoltre, la C.edu ribadisce come la riapertura del processo non rappresenti l’unica via per garantire l’esecuzione delle sentenze europee, come dimostrato, tra l’altro, dalla mancanza di un approccio uniforme da parte degli Stati membri (cfr. Grande Camera nella sent. 11 luglio 2017, Moreira Ferreira c. Portogallo). (Francesca Ertola)

 

e) Art. 8 Cedu

In materia di diritto alla privatezza, si segnala la sent. 13 settembre 2018, Big Brother e altri c. Regno Unito, relativa al caso Datagate”, nato dalle rivelazioni di Edward Snowden in merito all’esistenza e al funzionamento di programmi di sorveglianza di massa condotti dal governo statunitense e da alcuni Stati europei. I ricorrenti – giornalisti e attivisti dei diritti umani – ritenevano che, in ragione della loro attività, le loro comunicazioni elettroniche fossero state intercettate dai servizi di intelligence, trasmesse al governo del Regno Unito dopo essere state captate dalle autorità straniere o, comunque, ottenute dai Communications Service Providers. Innanzitutto, per quanto concerne la normativa inglese in tema mass surveillance, la C.edu sottolinea come, sotto il profilo della “quality of law”, essa individui in modo chiaro e preciso i presupposti per disporre le intercettazioni di massa, la durata delle operazioni e le procedure riguardanti l’accesso, la conservazione e la trasmissione dei relativi dati. Nondimeno, la legislazione nazionale deve ritenersi incompatibile con l’art. 8 CEDU, non essendo prevista alcuna supervisione da parte di un’autorità indipendente in merito all’utilizzo dei filtri e dei criteri di ricerca delle comunicazioni da intercettare. La seconda tematica affrontata dai giudici di Strasburgo concerne invece il regime di condivisione delle informazioni tra autorità di intelligence: ad avviso della C.edu, la disciplina nazionale, prevedendo la possibilità di analizzare e utilizzare i dati raccolti dai servizi di intelligence stranieri solo a condizione che siano soddisfatti tutti i requisiti previsti per le operazioni disposte direttamente dalle autorità nazionali, non si pone in contrasto con l’art. 8 CEDU. La terza e ultima questione sottoposta all’attenzione della C.edu concerne infine l’acquisizione dei communications data da parte dei fornitori dei servizi di comunicazione. Sul punto, la C.edu si rifà espressamente a quanto stabilito dalla Corte di Giustizia nel caso Digital Rights Ireland e, attraverso un efficace “dialogo tra corti”, ritiene la normativa inglese incompatibile con l’art. 8 Cedu: per un verso, l’accesso ai dati in possesso dei CSPs da parte delle autorità nazionali non è limitato allo scopo di combattere forme particolarmente gravi di crimine e, per l’altro, non è sottoposto ad una preventiva autorizzazione a opera di un organo amministrativo indipendente. Per quanto volta a garantire un interesse meritevole di tutela, la legislazione nazionale non è dunque in grado di assicurare una protezione efficace contro il rischio di abusi, eccedendo i limiti imposti dal principio di proporzionalità (art. 8 comma 2 Cedu).

Degna di nota è poi la sent. 20 settembre 2018, Solka e Rybicka c. Polonia, in cui la C.edu ha accertato la violazione dell’art. 8 Cedu in una vicenda riguardante il disseppellimento di cadaveri disposto dal p.m. nonostante la ferma opposizione da parte dei familiari delle vittime. In particolare, la C.edu ha ravvisato uno squilibrio tra le esigenze investigative e il diritto al rispetto della vita privata e familiare: anzitutto, non sono stati presi in considerazioni mezzi di indagine meno invasivi rispetto agli esami autoptici; in secondo luogo, la legislazione interna non prevede rimedi giurisdizionali volti a sindacare l’arbitrarietà della decisione del pubblico ministero.

È opportuno infine menzionare la sent. 27 settembre 2018, Brazzi c. Italia, con la quale la C.edu ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 8 comma 2 Cedu, stigmatizzando la mancata previsione all’interno del nostro ordinamento di un rimedio giurisdizionale effettivo per contestare l’arbitrarietà del decreto di perquisizione emesso dal p.m.

Il ricorrente sosteneva che la perquisizione domiciliare disposta nel corso di un procedimento per frode fiscale – successivamente archiviato – costituisse un'ingerenza ingiustificata nel suo diritto ex art. 8 Cedu. La Corte di Cassazione, tuttavia, aveva dichiarato inammissibile il ricorso presentato dal ricorrente, in quanto, secondo la legislazione italiana, il provvedimento di perquisizione può essere oggetto di riesame ex art. 257 c.p.p. solo laddove sia disposto il sequestro di beni. In astratto, sarebbe ipotizzabile un’azione civile finalizzata ad ottenere il risarcimento dei danni subiti a seguito della perquisizione, nondimeno, la legge n. 117 del 13 aprile 1988 presuppone che il provvedimento sia stato emesso dal magistrato “con dolo o colpa grave”, compromettendo così l’effettività di tale rimedio. Pertanto, ad avviso dei giudici di Strasburgo, l’assenza di una convalida ex ante da parte del g.i.p., non è adeguatamente compensata dalla previsione di un efficace controllo giurisdizionale ex post in merito alla legittimità e alla necessità del mandato di perquisizione. (Francesca Ertola)

 

f) Art. 9 Cedu

In tema di libertà di religione tutelata dall’art. 9 Cedu, si segnala la sent. 18 settembre 2018, Lachiri c. Belgio. Alla ricorrente, parte civile nel processo penale a carico dell’assassino di suo fratello, era stato vietato l’accesso nell’aula di udienza a fronte del suo rifiuto di togliere l’hijab; la stessa riteneva che tale limitazione avesse determinato un’indebita compressione della propria libertà religiosa. La C. eur. dir. uomo ha ritenuto sussistente la violazione dell’art. 9 Cedu: innanzitutto vi è stata una restrizione della libertà religiosa della ricorrente, consistita nell’averla obbligata a scegliere tra togliere il copricapo religioso o partecipare all’udienza; inoltre, sebbene tale restrizione fosse prevista dalla legge e perseguisse, almeno a livello astratto, un fine legittimo, ossia prevenire comportamenti irrispettosi verso l’autorità giudiziaria, la stessa non era necessaria in una società democratica. La ricorrente era una cittadina comune – non gravata quindi da particolari obblighi di discrezione nell’espressione pubblica dei propri convincimenti personali – si trovava in un luogo pubblico – quale il tribunale di Bruxelles – e non aveva dato alcun segno di comportamenti irrispettosi o presunti tali che potevano in qualche modo minacciare il corretto svolgimento dell’udienza. (Lucrezia Rossi)

 

g) Art. 10 Cedu

In materia di libertà di espressione si segnala la sent. 4 settembre 2018 Fatih Tas c. Turchia (n.5). Il ricorrente, proprietario di una casa editrice, aveva pubblicato un libro e, per i contenuti di quest’ultimo, era stato perseguito in sede penale per vilipendio della Repubblica Turca. Lo stesso riteneva che ciò avesse comportato un’ingiusta compressione della propria libertà. La Corte di Strasburgo ha ritenuto sussistente la violazione dell’art. 10 Cedu: infatti, sebbene non vi fosse stata alcuna condanna, dato il sopraggiungimento della prescrizione nelle more del procedimento, vi era stata un’ingerenza da parte del governo turco in termini di dissuasione a pubblicare in futuro. Nonostante poi tale ingerenza avesse base legale, tuttavia non poteva ritenersi necessaria in una società democratica: il racconto della sparizione di un giornalista, ivi contenuto, era d’interesse generale e i passaggi denigratori verso la Repubblica Turca contenevano critiche non esagerate, non gratuitamente offensive o ingiuriose e, soprattutto, non incitanti alla violenza o all’odio.

Sempre in ambito di libertà di espressione, merita di essere segnalata la sent. 13 settembre 2018, Big Brother Watch e altri c. Inghilterra. I ricorrenti ritenevano che le modalità con cui erano state effettuate le intercettazioni da parte del governo inglese fossero ingiustamente lesive del diritto sancito dall’art. 10 Cedu; ciò in quanto non solo difettava un pubblico interesse preponderante e un controllo giudiziale indipendente – requisiti necessari per la liceità dei controlli comportanti un rischio di identificazione delle fonti giornalistiche – ma anche perché la definizione di materiale sensibile era troppo ristretta e il sistema di identificazione del medesimo inadeguato, specialmente sotto il profilo della riservatezza delle fonti giornalistiche. La C. eur. dir. uomo ha ritenuto ancora una volta sussistente un’interferenza, avente sì base legale, e tuttavia non necessaria in una società democratica. Nel caso di specie, infatti, la Corte di Strasburgo ha ritenuto insufficienti le garanzie minime presenti per la tutela delle fonti e mancante una precisa limitazione dell’accesso ai dati solo per quei casi in cui il procedimento ha ad oggetto reati gravi. (Lucrezia Rossi)

 

h) Art. 11 Cedu

In tema di libertà di associazione sancita dall’art. 11 Cedu, vanno segnalate le sent. del 20 settembre 2018 Aliyev c. Azerbaijan e Mushegh Saghatelyan c. Armenia, già menzionate in precedenza (sub art. 3). In entrambe la C. eur. dir. uomo ha riconosciuto una violazione della libertà di associazione dei ricorrenti, ritenendo presente un’ingerenza da parte dei rispettivi governi, avente base legale, ma non necessaria in una società democratica.

Nella prima pronuncia il ricorrente era imputato in un processo penale in qualità di presidente della ONG Legal Education Society, per aver stipulato degli accordi privo della necessaria autorizzazione statale e non munito del potere di rappresentanza della ONG – condotte penalmente sanzionate in Azerbaijan ai sensi degli artt. 192.2.2.e 308.2 c.p. – nonché per evasione fiscale. In particolare, lo stesso lamentava che la detenzione da lui subita e il sequestro dei documenti relativi alle attività dell’ONG – entrambi originati dalle indagini e dal processo penale a suo carico – avessero avuto un effetto dissuasivo sulla propria libertà di associazione, nonché di eventuali terzi. La Corte Europea ha accolto la doglianza: da un lato, il ricorrente era un avvocato che rivestiva un ruolo di particolare importanza nella promozione e difesa dei diritti umani, e le autorità nazionali avevano qualificato lo stesso (e più in generale i partecipanti della ONG) come “traditori”; dall’altro lato, il processo era nato in assenza di un ragionevole sospetto circa la commissione dei reati di cui al capo d’imputazione e le ricerche dei documenti presso l’abitazione del ricorrente – nonché il loro successivo sequestro – erano state realizzare in assenza di un fine legittimo. Un atteggiamento che indubbiamente, agli occhi della Corte di Strasburgo, ben avrebbe potuto scoraggiare chi, altrimenti, avrebbe collaborato nelle attività della ONG.

Nella seconda vicenda, il ricorrente era stato tratto in arresto per aver protestato presso la Freedom Square di Yerevan contro le elezioni del primo ministro armeno. Lo stesso sosteneva che l’intervento della polizia e la successiva detenzione da lui subita, sebbene formalmente giustificate dallo scopo di ricerca di armi tra i manifestanti che avevano partecipato alla protesta, celassero una motivazione di natura prettamente politica e fosse perciò un’indebita compressione della propria libertà. La Corte Europea, riconoscendo tale violazione, ha sottolineato come in primo luogo non fosse emerso alcun elemento, a sostegno delle tesi del governo, circa il fatto che le proteste non fossero pacifiche o che vi fossero armi tra i protestanti; in secondo, luogo ha riconosciuto nell’intervento eccessivo della polizia, unitamente alla successiva detenzione del ricorrente, un effetto dissuasivo sullo stesso e, più in generale, verso chiunque, a partecipare a ogni forma pubblica di dibattito politico. (Lucrezia Rossi)