ISSN 2039-1676


23 luglio 2018 |

Monitoraggio Corte EDU marzo 2018

Rassegna di sentenze e decisioni della Corte EDU rilevanti in materia penale sostanziale e processuale

A cura di Francesco Viganò e Francesco Zacchè.

Tutti i provvedimenti citati sono agevolmente reperibili sul database ufficiale della Corte EDU.

Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, questo mese, da Gaia Spinelli (artt. 3, 10 e 11 Cedu) e Luca Pressacco (artt. 5, 6 e 8 Cedu).

 

a) Art. 3 Cedu

In materia di divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti merita di essere segnalata la sent. 1 marzo 2018, Selami e altri c. Macedonia: nel caso di specie, i quattro ricorrenti (la vedova e i tre figli, di cui solo uno erede, del defunto Selami) lamentavano la violazione del divieto di sottoposizione a trattamenti inumani e degradanti e la contestuale violazione del diritto alla libertà e alla sicurezza, sanciti rispettivamente dagli artt. 3 e 5 Cedu. In particolare, i soggetti coinvolti sostenevano che la riparazione pecuniaria di 9.800 euro, ottenuta come indennizzo all’ingiusta detenzione cautelare e alle torture subite da Selami durante la carcerazione, fosse di importo eccessivamente basso, tenuto conto delle gravissime lesioni psicofisiche sofferte. L’uomo, mentre veniva tratto in arresto nel 2002, era stato infatti malmenato dalla polizia finendo in stato di coma per due settimane. È interessante sottolineare che il ricorso è stato promosso dai ricorrenti adducendo, sia una violazione diretta della suddetta normativa Cedu (ossia assumendosi essi stessi personalmente lesi), sia una violazione indiretta (cioè per aver subito anch’essi, dato lo stretto legame con Selami, gli effetti pregiudizievoli della violazione). I soggetti coinvolti, infatti, sostenevano di essere legittimati ad agire in virtù dei notevoli danni materiali e morali patiti a causa delle torture subite dal loro caro defunto.

La C. eur. dir. uomo, pur negando un nesso diretto tra la detenzione subita da Selami nel 2002 ed il suo decesso intervenuto nel 2011, ha ritenuto sussistente la violazione sia dell’art. 3, sia dell’art. 5 Cedu, condannando lo Stato resistente al pagamento della somma di 20.000 euro. È importante evidenziare quanto statuito dai giudici di Strasburgo in relazione alla legittimazione ad agire dei quattro ricorrenti: la Corte, in particolare, ha dichiarato ammissibile unicamente l’azione proposta dall’unico figlio di Selami nominato erede, escludendo preliminarmente una violazione diretta dell’art. 3 Cedu nei suoi confronti e ritenendo sussistente solo una violazione indiretta. I parenti della vittima, infatti, possono essere considerati direttamente danneggiati soltanto nel caso in cui il turbamento psicologico da essi subito a causa della perdita del loro caro torturato sia di eccezionale rilevanza, tenuto conto del legame familiare, del tempo trascorso senza avere notizie del parente sottoposto a restrizione della libertà personale, della circostanza di aver assistito ai trattamenti inumani o degradanti. Nel caso di specie tuttavia, non ricorrendo le condizioni suddette, la C. eur. dir. uomo ha ritenuto sussistente unicamente la legittimazione ad agire dell’unico erede di Selami, in quanto vittima indiretta della violazione dell’art. 3 e 5 Cedu, dato l’effettivo danno psicologico ed economico da lui patito.

 

Va segnalata inoltre la sent. 13 marzo 2018, Ebedin Abi c. Turchia, con la quale la C. eur. dir. uomo ha condannato all’unanimità lo Stato resistente per violazione dell’obbligo positivo di assicurare il rispetto della dignità umana durante lo stato di detenzione. Nel caso di specie, il ricorrente, soggetto detenuto con gravi problemi di diabete e di insufficienza coronarica, lamentava il diniego da parte della autorità turche di fornirgli un’alimentazione a ridotto contenuto di colesterolo e grassi, conformemente alle prescrizioni terapeutiche ricevute sin dal 2004. A causa di tale carenza, inoltre, il ricorrente denunciava di aver patito un peggioramento delle sue condizioni di salute, tanto da essersi dovuto sottoporre, nel 2008, a diversi esami cardiaci. La Corte di Strasburgo ha quindi condannato la Turchia a risarcire il ricorrente per non aver rispettato gli obblighi di tutela del detenuto dal pericolo di lesioni gravi alla sua integrità fisica, sotto il profilo dei trattamenti degradanti; i doveri di protezione di fronte ad un soggetto in stato di detenzione, infatti, si fanno più pregnanti proprio in ragione della peculiare condizione psico-fisica in cui il soggetto si trova, la quale esige un ancor più celere intervento statale ai fini di tutelare chiunque si trovi sottoposto alla sua custodia, in regime privativo della libertà personale. (Gaia Spinelli)

 

b) Art. 5 Cedu

Per quanto concerne la tutela della libertà personale, si segnala – in primo luogo – la sent. 27 marzo 2018, Aleksandr Aleksandrov c. Russia, con cui è stata accertata la violazione dell’art. 14 in congiunzione comn l’art. 5 comma 1 lett. a) Cedu. Nell’ambito del procedimento interno il ricorrente è stato condannato a un anno di reclusione dal tribunale che – pur valutando concretamente l’ipotesi di applicare nei suoi confronti una misura alternativa alla detenzione (probation o imposizione di una sanzione pecuniaria) – aveva escluso tale possibilità in considerazione, per un verso, delle modalità della condotta e, per altro verso, del fatto che egli risultava privo di una stabile residenza nella regione moscovita, sede del giudice territorialmente competente in relazione al procedimento de quo. La Corte di Strasburgo, tuttavia, ha censurato le valutazioni offerte sul punto dalle corti interne, ritenendo che nel caso di specie la negazione di una misura alternativa alla detenzione abbia generato una discriminazione illegittima, in quanto priva di una giustificazione razionale e fondata almeno in parte sulle condizioni personali del condannato (in particolare, sul luogo di residenza di quest’ultimo).

Significative affermazioni per quanto concerne la tutela della libertà personale nel contesto del procedimento penale giungono – poi – dalla sent. 20 marzo 2018, Mehmet Hasan Altan c. Turchia e dalla sent. Şahin Alpay c. Turchia, emessa in pari data dalla C. eur. dir. uomo. In entrambi i casi si trattava della detenzione cautelare cui risultano sottoposti taluni soggetti accusati di sostenere l’organizzazione cappeggiata da Fethullah Gülen (considerato dalle autorità turche il principale responsabile del tentativo di coup d’état verificatosi il 15 luglio 2016). L’interesse che rivestono le pronunce in oggetto deriva soprattutto dalla circostanza che sono (fortunatamente) assai rari i casi in cui la Corte di Strasburgo si è trovata ad affrontare il tema della sospensione temporanea della Cedu; ipotesi, quest’ultima, contemplata dallo stesso dettato convenzionale «in caso di guerra o in caso di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione». Ebbene, con le pronunce in esame la Corte europea ha ribadito che l’art. 15 Cedu non può fungere da pretesto utile a limitare le garanzie fondamentali dello Stato di diritto, così che – anche nei casi di emergenza – il distacco dalla disciplina pattizia risulta accettabile solo nella stretta misura in cui la situazione effettivamente lo esige (fermo restando, naturalmente, il limite invalicabile costituito dalle garanzie non derogabili). In virtù di queste premesse, la Corte di Strasburgo – pur riconoscendo che la Turchia ha ritualmente informato il Segretario generale del Consiglio d’Europa della decisione di avvalersi della deroga di cui all’art. 15 Cedu – non si è astenuta dal sindacare le misure adottate dalle autorità turche, individuando nei casi di specie diverse violazioni del dettato convenzionale. In particolare, per quanto interessa in questa sede, è stata riconosciuta la violazione dell’art. 5 comma 1 lett. c) Cedu. Per giungere a questo approdo, la C. eur. dir. uomo si è avvalsa delle considerazioni svolte a suo tempo dalla Corte costituzionale turca (adita dai ricorrenti per verificare la legittimità della custodia cautelare in relazione ai parametri dell’ordinamento interno): quest’ultima, infatti, aveva ritenuto che nei casi in esame difettassero elementi tali da ingenerare un ragionevole sospetto circa il coinvolgimento dei ricorrenti nelle attività eversive di cui sono accusati. Peraltro, la Corte europea ha rilevato che i tribunali ordinari hanno opposto un atteggiamento ostruzionista alle pronunce emesse in favore dei ricorrenti dalla Corte costituzionale, contravvenendo alle stesse disposizioni dell’ordinamento interno e ponendo in tal modo a rischio l’effettiva vigenza della rule of law in Turchia. Considerate tali circostanze, la C. eur. dir. uomo ha riconosciuto la violazione del dettato convenzionale, non senza precisare che una privazione della libertà personale in funzione cautelare disposta al di fuori dei casi e dei modi previsti dalla legge (“in accordance with a procedure prescribed by the law”, secondo il testo inglese della Cedu) non può ritenersi giustificata nemmeno in presenza delle circostanze eccezionali previste dall’art. 15 Cedu. (Luca Pressacco)

 

c) Art. 6 Cedu

Sul versante dell’equità processuale occorre, anzitutto, segnalare la sent. 6 marzo 2018, Mikhaylova c. Ucraina, concernente un procedimento amministrativo-penale nei confronti della ricorrente per “oltraggio alla corte” (contempt of court). Con tale pronuncia, la Corte di Strasburgo ha riconosciuto la violazione dell’art. 6 comma 1 Cedu, nella misura in cui il dettato convenzionale garantisce il diritto ad un giudice imparziale. In particolare, la Corte europea ha osservato che il processo nei confronti della ricorrente – esauritosi nell’arco di un’udienza – è stato celebrato in assenza sia del pubblico ministero che di eventuali rappresentanti degli interessi della vittima. In tali circostanze, residuano – secondo la Corte europea – dubbi legittimi circa l’effettiva imparzialità dell’organo giurisdizionale che potrebbe essere indotto a privilegiare impropriamente le ragioni della pubblica accusa. In altre parole, la completa assenza di soggetti “accusatori” dalla scena processuale – se non si traduce necessariamente in un pregiudizio soggettivo in capo al giudice (imparzialità soggettiva) – compromette egualmente l’equità processuale, inficiando perlomeno l’immagine di imparzialità che deve caratterizzare gli organi giurisdizionali (imparzialità oggettiva).

Merita, poi, attenzione la sent. 8 marzo 2018, Dimitar Mitev c. Bulgaria, in cui la Corte di Strasburgo ha accertato la violazione del diritto alla difesa tecnica, tutelato dall’art. 6 commi 1 e 3 lett. c) Cedu. Il ricorrente lamentava, in particolare, di aver subito una condanna all’ergastolo per il delitto di omicidio sulla base delle testimonianze di due ufficiali di polizia, che avevano deposto in ordine alla confessione resa dallo stesso ricorrente nelle fasi immediatamente successive all’arresto in assenza del difensore. In premessa, la Corte europea osserva che nessun elemento induce a ritenere che il ricorrente abbia inteso consapevolmente rinunciare al suo diritto all’assistenza legale, né il Governo ha potuto indicare “circostanze irresistibili” (“compelling reasons”) che imponessero alle autorità inquirenti di procedere all’interrogatorio dell’imputato in assenza del difensore. L’ingiustificata restrizione dei diritti della difesa nelle fasi iniziali del procedimento impone, dunque, alla Corte europea di verificare l’equità del procedimento nel suo complesso, secondo le cadenza del cosiddetto “Ibrahim test”. Tale indagine, tuttavia, non ha consentito alla Corte europea di individuare garanzie procedurali idonee a bilanciare la lesione delle prerogative della difesa; tutt’al contrario, sono emerse una serie di circostanze che hanno ulteriormente inficiato l’equità del procedimento penale interno. Così – in primo luogo – le autorità nazionali hanno completamente ignorato le allegazioni del ricorrente, il quale aveva affermato di essere stato costretto a confessare in quanto sottoposto a gravi violenze ed intimidazioni da parte degli agenti di polizia. Secondariamente, la Corte di Strasburgo ha osservato che l’ammissione in giudizio delle testimonianze degli ufficiali di polizia in ordine alla confessione resa irritualmente dal ricorrente ha consentito di eludere – al medesimo tempo – sia i divieti probatori previsti dalla legislazione interna sia le garanzie procedurali poste a tutela del diritto di difesa. Infine, dalla valutazione retrospettiva del compendio probatorio a disposizione delle corti interne, emerge chiaramente che le testimonianze in questione rientrano tra gli elementi di maggiore rilievo posti a sostegno della pronuncia di condanna pronunciata nei confronti del ricorrente.

Occorre, infine, segnalare la sent. 13 marzo 2018, Vilches Coronado e altri c. Spagna, in cui la Corte di Strasburgo torna a confrontarsi col tema della reformatio in peius nel giudizio d’appello, questa volta in relazione al principio del nemo tenetur se detegere. Nella vicenda processuale in esame, i ricorrenti erano stati inizialmente assolti dalle accuse di evasione fiscale elevate nei loro confronti: il giudice di prime cure, infatti, aveva ritenuto che non vi fossero elementi sufficienti per ritenere provata la colpevolezza degli imputati oltre ogni ragionevole dubbio (con riferimento, in particolare, alla volontà dei medesimi imputati di occultare determinati proventi societari all’amministrazione fiscale). In tale contesto, per giungere alla ricostruzione dei profili soggettivi della condotta, il tribunale conferiva rilievo non solo alle prove documentali, ma anche alle dichiarazioni degli imputati, che avevano liberamente accettato di deporre sul merito dell’accusa. Questo approdo, tuttavia, veniva in seguito radicalmente smentito dalla Audiencia Provincial, chiamata a pronunciarsi su ricorso della parte civile e del pubblico ministero. Invero, all’esito di una complessiva rivalutazione del compendio probatorio, il giudice del gravame condannava i ricorrenti, ritenendo comprovato l’elemento psicologico del reato sulla scorta di una serie di indizi reputati gravi, precisi e concordanti. Peraltro, nel corso dell’udienza pubblica all’uopo celebrata, il giudice informava gli imputati in ordine alla possibilità di sottoporsi ad un nuovo esame di fronte alla giurisdizione d’appello, ma essi decidevano di non avvalersi di tale chances difensiva. Esaurito il procedimento interno, i ricorrenti indirizzavano le proprie doglianze a Strasburgo, lamentando una violazione del parametro di equità processuale, poiché il giudice d’appello avrebbe proceduto ad una reformatio in peius della sentenza di primo grado, senza rispettare i principi del contraddittorio e dell’immediatezza. Sennonché, con la pronuncia in oggetto la Corte di Strasburgo ha respinto tali prospettazioni, confermando sostanzialmente l’operato della Audiencia Provincial. Per giungere a questa conclusione, la Corte europea ha conferito particolare rilievo alla struttura della fattispecie di reato per la quale i ricorrenti sono stati condannati; struttura destinata inevitabilmente ad influire sulle cadenze dell’accertamento processuale. In questa prospettiva, la Corte di Strasburgo ha evidenziato che l’inadempimento delle obbligazioni tributarie emergeva con sufficiente chiarezza – nella ricostruzione fattuale ragionevolmente propugnata dalla giurisdizione d’appello – dalle prove di natura documentale. Peraltro, non consta che i ricorrenti, presenti in udienza ed assistiti dai rispettivi difensori, abbiano avanzato alcuna istanza di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale al fine di confutare i suddetti elementi. Inoltre, per quanto riguarda l’elemento psicologico del reato, la Corte europea ha ritenuto che nessuna mancanza di diligenza possa essere imputata alla corte d’appello nel caso di specie: tale giurisdizione, infatti, ha assicurato ai ricorrenti il diritto ad essere interpellati personalmente nel corso di un’udienza pubblica sulle questioni fattuali determinanti per l’apprezzamento della colpevolezza. Invero, sono stati gli stessi ricorrenti a rinunciare all’esercizio di tale prerogativa; motivo per cui essi non possono legittimamente dolersi in sede europea della lesione dei principi del contraddittorio e dell’immediatezza. (Luca Pressacco)

 

d) Art. 8 Cedu

Per quanto concerne la tutela della riservatezza, è opportuno menzionare la sent. 27 marzo 2018, Voykin e altri c. Ucraina, con la quale è stata riconosciuta – fra le altre – anche la violazione dell’art. 13 in congiunzione con l’art. 8 Cedu. In particolare, la Corte di Strasburgo è intervenuta per stigmatizzare l’assenza di un rimedio giurisdizionale effettivo per contestare il provvedimento che dispone una perquisizione locale. Invero, nell’ordinamento ucraino tali provvedimenti non sono suscettibili di impugnazione diretta nell’ambito del procedimento penale in cui vengono emessi. In astratto, sarebbe ipotizzabile un’azione civile – nei confronti dei soggetti che abbiano illegittimamente autorizzato od arbitrariamente eseguito le operazioni di perquisizione – finalizzata ad ottenere il risarcimento dei danni subiti a seguito della perquisizione. Tuttavia, nella pronuncia in commento la Corte europea ha rilevato – in primo luogo – che il Governo non ha indicato alcun esempio utile ad attestare l’esistenza di una pratica giudiziaria orientata in questo senso e – secondariamente – che nel caso di specie la possibilità di un instaurare una controversia in sede civile risultava concretamente inibita per differenti ragioni. Infatti – da un lato – i soggetti interessati dalla perquisizione locale erano del tutto estranei al procedimento penale nell’ambito del quale il mandato di perquisizione era stato emesso e – dall’altro lato – gli esposti che essi avevano presentato non avevano trovato seguito presso le autorità competenti, impedendo l’identificazione dei soggetti partecipanti alle operazioni in esame. Viste queste circostanze, la Corte di Strasburgo ha ritenuto che i ricorrenti non disponessero di alcun rimedio giurisdizionale effettivo in ordine alle perquisizioni contestate. (Luca Pressacco)

 

e) Art. 10 Cedu

Sul versante della libertà di manifestazione del pensiero, anzitutto, si segnala la sent. 13 marzo 2018, Stern Taulats e Roura Capellera c. Spagna, con la quale la Corte di Strasburgo ha ritenuto sussistente una violazione dell’art. 10 Cedu: nel caso di specie, i due ricorrenti erano stati condannati nel 2008 a quindici mesi di arresto – sostituiti poi con un’ammenda di 2.700 ciascuno – in seguito all’accusa di vilipendio alla Corona per aver bruciato, durante una manifestazione antimonarchica in occasione della visita del re di Spagna, alcune raffigurazioni dei membri della famiglia reale posizionati a testa in giù in segno di spregio. L’azione dei due manifestanti, a parere dello Stato spagnolo, aveva costituito un atto di violenza nei riguardi della famiglia reale e delle istituzioni, nonché un incitamento alla violenza nei confronti degli altri consociati. La C. eur. dir. uomo, interrogandosi sulla correttezza o meno di tale compressione del diritto alla libertà di espressione, ha condannato lo Stato ravvisando un’ingerenza prevista sì da una norma di legge, ma tuttavia ingiustificata, poiché non necessaria in una società democratica e non rispondente ad un “bisogno sociale inderogabile”: in particolare, tale affermazione si basa sulla considerazione che, quella posta in essere dai ricorrenti, sia stata una critica di tipo politico – e non personalmente rivolta contro il re –, nei confronti della forma di governo monarchica nel suo complesso ed oggettivamente inidonea ad istigare altri alla violenza. I giudici di Strasburgo non hanno invece ritenuto necessario esaminare distintamente l’eventuale sussistenza di una violazione dell’art. 9 Cedu – con riferimento alla libertà di pensiero, coscienza e religione –, che pure era stata lamentata dai ricorrenti.

 

Un caso simile al precedente, che merita di essere segnalato, è quello relativo alla sent. 20 marzo 2018, Uzan c. Turchia: nello specifico, il ricorrente, uomo politico condannato nel 2003 a pena detentiva e pecuniaria per aver ingiuriato il Primo Ministro turco durante un discorso pubblico tenutosi a Bursa, lamentava la violazione degli artt. 6 e 10 Cedu, rispettivamente sotto il profilo della eccessiva durata ed iniquità del processo penale e dell’asserito vulnus alla libertà di espressione in ambito politico. In particolare, il ricorrente era stato condannato a cagione dell’utilizzo, in pubblico, di espressioni come “ingannatore”, “saccheggiatore”, “insolente” ed “empio” nei confronti dell’allora Primo Ministro turco, termini che, secondo il tribunale giudicante, avrebbero arrecato un grave danno alla reputazione di quest’ultimo, oltrepassando ampiamente i limiti della critica politica.

La C. eur. dir. uomo ha tuttavia condannato la Turchia per la violazione di entrambi gli articoli Cedu in contestazione – ossia gli artt. 6 e 10 –, rilevando, anche in questo caso, una limitazione statale al diritto di libera manifestazione del pensiero prevista da una norma di legge ma non necessaria in uno Stato democratico, nonché l’eccessiva durata della procedura penale svoltasi davanti alla giurisdizione interna. In particolare, i giudici di Strasburgo hanno posto il luce come l’inflizione di una pena detentiva non sia stata strumentale alla difesa della reputazione del Primo Ministro turco, in quanto sproporzionata.

 

In relazione alla già menzionata sent. 20 marzo 2018, Mehmet Hasan Altan c. Turchia (v. supra, art. 5), è necessario inoltre segnalare come la C. eur. dir. uomo abbia ritenuto sussistente anche la violazione dell’art. 10 Cedu: nel caso di specie, infatti, la limitazione alla libertà di manifestazione del pensiero del ricorrente detenuto era certamente effettiva ed autorizzata dalla legislazione interna dello Stato e, tuttavia, difettava del requisito della necessarietà all’interno di una società democratica. A parere dei giudici di Strasburgo, infatti, l’esistenza di uno stato di pubblica emergenza afferente alle condotte di terrorismo internazionale non può costituire un pretesto per provocare il “chilling effect” del diritto alla libertà di espressione, silenziando in tal modo le opinioni politiche dissenzienti. (Gaia Spinelli)

 

f) Art. 11 Cedu

In materia di libertà di riunione e associazione, occorre menzionare la sent. 6 marzo 2018, Chumak c. Ucraina, con la quale la Corte di Strasburgo ha ritenuto sussistente la violazione dell’art. 11 Cedu: il ricorrente, nel caso di specie, lamentava la dispersione e il conseguente divieto di “picchetti” di protesta realizzati da parte di un’associazione politica giovanile da lui presieduta. A causa dell’asserito comportamento inadeguato ed aggressivo tenuto dai manifestanti membri dell’associazione – implicante la presenza di tende e la temporanea ostruzione della viabilità stradale –, il ricorrente era stato infatti condannato dal tribunale nazionale nel 2006 per il reato di insurrezione.

La C. eur. dir. uomo ha sancito la condanna dello Stato ucraino, in particolare ritenendo non ragionevoli e sproporzionate le misure da esso adottate contro il ricorrente: esse, a parere della Corte, hanno costituito infatti una indebita restrizione alla libertà di associazione garantita dall’art. 11 Cedu, essendo il “picchetto” in oggetto assolutamente pacifico e mancando, da parte delle Autorità competenti, qualsiasi motivazione a sostegno della dispersione realizzata. I giudici di Strasburgo non hanno invece ritenuto necessario esaminare distintamente la violazione dell’art. 13 Cedu – con riferimento al diritto a un ricorso effettivo –, che pure era stata lamentata dai ricorrenti. (Gaia Spinelli)