12 gennaio 2018 |
Monitoraggio Corte EDU ottobre 2017
Rassegna di sentenze e decisioni della Corte Edu rilevanti in materia penale sostanziale e processuale
A cura di Francesco Viganò e Francesco Zacchè.
Tutti i provvedimenti citati sono agevolmente reperibili sul database ufficiale della Corte EDU.
Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, questo mese, da Alberto Aimi (artt. 2, 3, 7, 9 e 10 Cedu) e Stefania Basilico (artt. 6 e 8 Cedu).
a) Art. 2 Cedu
In materia di diritto alla vita, si segnala la sentenza 10 ottobre 2017, Khadzhimuradov e altri c. Russia, con la quale la Corte Edu ha ribadito i propri consolidati principi in materia di obblighi procedurali che derivano dall’art. 2 Cedu e che impongono agli Stati membri di avviare un’indagine effettiva volta all’individuazione e alla punizione dei responsabili di lesioni al diritto fondamentale in parola. Il caso riguardava, in particolare, gli omicidi commessi il 5 febbraio 2000 da parte di appartenenti alle forze speciali russe nel villaggio ceceno di Novye Aldy (sui quali, peraltro, la Corte europea aveva già avuto modo di pronunciarsi con la sentenza 26 luglio 2007, Musayev e altri c. Russia). I ricorrenti, parenti di cittadini che erano stati uccisi nel corso del raid, lamentavano la violazione dell’art. 2 Cedu sotto il profilo sostanziale e procedurale, sottolineando in particolare l’inefficienza delle indagini, che avevano portato all’identificazione di un solo sospetto – immediatamente “datosi alla macchia” e mai più rintracciato dalle forze dell’ordine – soltanto a sei anni dall’accaduto. I giudici di Strasburgo, dopo aver dichiarato inammissibili le doglianze relative alla violazione sostanziale dell’art. 2 Cedu in ragione dell’intempestività del ricorso, hanno tuttavia riconosciuto la fondatezza delle doglianze dei ricorrenti con riferimento alla violazione degli obblighi procedurali discendenti dall’art. 2 Cedu: anche dopo l’individuazione di un sospetto esecutore materiale degli omicidi e l’identificazione dei reparti coinvolti, infatti, nessuno dei comandanti in carica all’epoca dei fatti veniva interrogato dalle autorità competenti, non venivano svolti esami balistici sui proiettili individuati sul luogo del crimine, né, a distanza di diciassette anni dall’accaduto, veniva fornita una coerente ricostruzione dell’accaduto. (Alberto Aimi)
b) Art. 3 Cedu
In tema di divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti, si segnalano ben quattro sentenze di condanna dello Stato italiano con riferimento a casi di police brutality, nelle quali la Corte ha riconosciuto la violazione dell’art. 3 CEDU sia sotto il profilo degli obblighi sostanziali, sia sotto il profilo degli obblighi procedurali discendenti dall’articolo in epigrafe. In primo luogo, con le sentenze 26 ottobre 2017, Azzolina e altri c. Italia e Blair e altri c. Italia (sulle quali, v. l’accurata ricostruzione di F. Cancellaro, A Bolzaneto e ad Asti fu tortura: tre nuove condanne inflitte dalla Corte di Strasburgo all’Italia per violazione dell’art. 3 Cedu, in questa Rivista, 16 novembre 2017), la Corte di Strasburgo ha avuto modo di tornare ad occuparsi delle violenze commesse dalle forze dell’ordine ai danni dei manifestanti presenti al G8 di Genova, concentrandosi in particolare sui gravi maltrattamenti patiti dai soggetti trattenuti presso la caserma di Bolzaneto. La Corte europea non ha innanzitutto esitato a ravvisare nelle azioni degli agenti di custodia e del personale medico a Bolzaneto una violazione sostanziale dell’art. 3 Cedu, sub specie del divieto di tortura, dando atto dell’accurata ricostruzione dei fatti operata dalle corti nazionali. Sotto il profilo procedurale, poi, richiamando le sentenze 7 aprile 2015, Cestaro c. Italia (sulla sentenza: F. Viganò, La difficile battaglia contro l'impunità dei responsabili di tortura: la sentenza della Corte di Strasburgo sui fatti della scuola Diaz e i tormenti del legislatore italiano, in questa Rivista, 9 aprile 2015 e F.S. Cassibba, Violato il divieto di tortura: condannata l'Italia per i fatti della scuola ''Diaz-Pertini'', in questa Rivista, 27 aprile 2015) e 22 giugno 2017, Bartesaghi Gallo ed altri c. Italia (a commento della sentenza: F. Cancellaro, Tortura: nuova condanna dell'Italia a Strasburgo, mentre prosegue l'iter parlamentare per l'introduzione del reato, in questa Rivista, 29 giugno 2017), relative alle analoghe vicende avvenute all’interno della scuola Diaz, i giudici di Strasburgo hanno nuovamente stigmatizzato l’inadeguatezza della legislazione del tempo del commesso reato a punire adeguatamente i colpevoli, sottolineando come proprio l’assenza di una norma incriminatrice ad hoc di fatti di tortura avesse consentito agli imputati di essere assolti per intervenuta prescrizione.
Sostanzialmente identiche, poi, le conclusioni della Corte europea nel procedimento concluso con sentenza 26 ottobre 2017, Cirino e Renne c. Italia (su cui v. sempre F. Cancellaro, A Bolzaneto, cit.), ove i ricorrenti, detenuti presso il carcere di Asti, si dolevano di essere stati sistematicamente e brutalmente picchiati per diversi giorni da numerosi agenti di polizia penitenziaria, successivamente identificati e processati ma non condannati sempre per intervenuta prescrizione dei reati contestati. Anche in questo caso, i giudici europei non hanno esitato a qualificare come “tortura” la sofferenza inflitta ai detenuti e a biasimare lo Stato italiano per l’inadeguatezza della risposta penalistica a fronte a lesioni di diritti fondamentali di tale significativa gravità, sempre sottolineando l’assenza, all’epoca dei fatti, del reato di tortura.
Infine, una duplice violazione dell’art. 3 Cedu da parte dello Stato italiano, sotto il profilo sostanziale e procedurale, sia pure non di entità tale da assurgere ad una vera e propria “tortura”, è stata ravvisata dalla Corte Edu con la sentenza 12 ottobre 2017, Tiziana Pennino c. Italia. La ricorrente, accompagnata alla sede della polizia municipale perché sospettata di guidare in stato di ebbrezza, subiva la frattura di un dito e numerose contusioni a seguito di una colluttazione con gli agenti, avvenuta in circostanze non del tutto incontroverse all’interno della stazione di polizia. Nella sentenza di condanna, la Corte di Strasburgo ha colto l’occasione per ricordare che, nel caso di lesioni all’integrità fisica avvenute ai danni di soggetti sottoposti a controllo da parte di agenti statali, ricade sullo Stato contraente l’onere di provare che l’uso della forza sia reso strettamente necessario dalla condotta del titolare del diritto fondamentale, e che tale onere non può essere certamente assolto facendo mero riferimento alle relazioni degli agenti coinvolti, nel caso di specie nemmeno interrogati dal Pubblico ministero; la cui richiesta di archiviazione, peraltro, già motivata in maniera estremamente laconica, era stata confermata dal giudice per le indagini preliminari con un provvedimento dal sapore altrettanto apodittico, dal quale non si poteva evincere nemmeno l’esatta dinamica dei fatti di causa.
La sola violazione degli obblighi procedurali discendenti dall’art. 3 Cedu, invece, è stata posta a fondamento della condanna dello Stato rumeno nella sentenza 3 ottobre 2017, D.M.D. c. Romania. Il ricorrente lamentava l’ineffettività delle indagini e la lunghezza del successivo procedimento penale a carico del padre, resosi responsabile nel corso degli anni di numerosi abusi ai danni dello stesso ricorrente e della madre. La Corte europea ha in particolare evidenziato come, nonostante le autorità fossero state avvisate fin dal 2004 della difficile situazione domestica della famiglia del ricorrente, le indagini fossero durate comunque per tre anni e mezzo, e la condanna definitiva del padre fosse giunta soltanto ad esito di un procedimento durato complessivamente otto anni, nell’ambito del quale al ricorrente non era stata concesso nemmeno una compensazione monetaria per le sofferenze patite.
Con riferimento, poi, alla compatibilità delle condizioni di detenzione con gli standard imposti dall'art. 3 Cedu e declinati nel tempo da una più che consolidata giurisprudenza della Corte di Strasburgo, si segnala innanzitutto la sentenza 5 ottobre 2017, Ābele c. Lituania, ove i giudici europei hanno ravvisato una violazione del divieto di trattamenti inumani e degradanti da parte dello Stato lituano, con riferimento alla posizione di un detenuto sordomuto fin dalla nascita, in parte in ragione delle condizioni di sovraffollamento delle celle in cui era detenuto il ricorrente, in parte stigmatizzando l’indifferenza delle autorità carcerarie a fronte delle evidenti difficoltà di comunicazione di quest’ultimo con gli altri detenuti e con gli agenti penitenziari, che avevano gettato il ricorrente in uno stato di isolamento e di angoscia incompatibile con gli standard imposti dall’art. 3 Cedu.
L’applicazione dei medesimi principi ha poi portato alla condanna dello Stato rumeno nella sentenza 3 ottobre 2017, Alexandru Enache c. Romania, nella quale la Corte di Strasburgo, dopo aver sottolineato le condizioni di sovraffollamento e le infime condizioni igieniche delle prigioni nelle quali scontava la pena il ricorrente, conseguentemente riconoscendo una violazione sostanziale dell’art. 3 Cedu, ha però rigettato l’altra doglianza della parte attrice, che lamentava una violazione degli art. 8 e 14 Cedu in ragione dell’impossibilità di accedere al beneficio del rinvio dell’esecuzione della pena, prevista dalla legge rumena soltanto per le madri di un figlio di età minore di un anno e non per i padri. La Corte europea, infatti, ha nella sostanza riconosciuto la ragionevolezza della discriminazione di genere cristallizzata nel codice di procedura penale rumeno, evidenziando la speciale natura dei legami che sussistono tra le madri e i figli nei primi mesi di vita, tali da giustificare il trattamento di favore a queste accordato. (Alberto Aimi)
c) Art. 6 Cedu
Sul versante dell’equità processuale, si segnala la sent. 3 ottobre 2017, D.M.D. c. Romania. Nella vicenda in esame, il ricorrente, un minore il cui padre è stato condannato per maltrattamenti nei suoi confronti, ha lamentato che nel procedimento penale svoltosi a carico dell’uomo i giudici nazionali non hanno esaminato d’ufficio la risarcibilità dei danni da lui patiti, nonostante la legge nazionale prevedesse tale obbligo nel caso di persone offese di minore età. La C. eur. dir. uomo ha ritenuto che tale mancanza abbia comportato un vero e proprio diniego di giustizia nei confronti del minore e, quindi, la lesione del relativo diritto d’accesso alla giurisdizione.
In materia di ragionevole durata del procedimento, si deve menzionare la sent. 5 ottobre 2017, Kaleja c. Lettonia. Nella specie, la C. eur. dir. uomo ha ravvisato la violazione dell’art. 6 comma 1 Cedu, in quanto il procedimento per appropriazione indebita a carico del ricorrente è durato quasi dieci anni per due gradi di giudizio: nonostante l’oggettiva complessità della vicenda, detto lasso temporale è stato, secondo i giudici di Strasburgo, eccessivo. Ne è conseguita la violazione del diritto ad una ragionevole durata del procedimento.
Nella già citata sent. 5 ottobre 2017, Kaleja c. Lettonia, l’equità del processo viene in rilievo anche con riferimento al diritto di difesa ex art. 6 comma 3 lett. d Cedu, analizzato dai giudici di Strasburgo in combinato disposto con l’art. 6 comma 1 Cedu. Nel dettaglio, la ricorrente, dapprima sentita come testimone, poi imputata, si è doluta di non aver potuto beneficiare dell’assistenza legale e, quindi, di aver subito la lesione del proprio diritto di difesa. La C. eur. dir. uomo, tuttavia, non ha ravvisato alcuna violazione del paradigma convenzionale: da una parte, la legge nazionale non prevedeva il diritto per il testimone di essere assistito da un difensore e, dall’altra, è stato accertato che la ricorrente, una volta assunta la qualità di imputata, ha più volte rinunciato all’assistenza di un difensore, nonostante fosse stata avvisata della facoltà di fruirne. Tra l’altro, è anche risultato che l’imputazione fosse stata notificata alla ricorrente in presenza di un avvocato. Ciò posto, la Lettonia ha, secondo i giudici di Strasburgo, osservato garanzie procedurali conformi alla Convenzione, senza ledere in alcun modo il diritto di difesa del ricorrente.
Di contro, una compromissione dell’equità del processo è accertata nella sent. 5 ottobre 2017, Kormev c. Bulgaria. Qui, il ricorrente ha lamentato di essere stato condannato per un furto unicamente sulla base di dichiarazioni rese dal suo coimputato a seguito di maltrattamenti da parte delle forze di polizia: accertata tale circostanza, la C. eur. dir. uomo ha riscontrato una violazione dell’art 6 comma 1 Cedu, ritenendo che le prove raccolte a seguito di tortura fossero vietate, e, quindi, inammissibili: il processo a carico del ricorrente è risultato dunque iniquo.
In materia di diritto al contraddittorio, si evidenzia la sent. 10 ottobre 2017, Dastan c. Turchia: nel caso di specie, i giudici di Strasburgo hanno condannato il ricorrente sulla base di dichiarazioni che un soggetto, detenuto al momento della lettura delle stesse, aveva reso in un altro procedimento. Esaminata la vicenda, la C. eur. dir. uomo ha concluso per la violazione dell’art. 6 comma 1 Cedu, in combinato disposto con l’art. 6 comma 3 lett. d Cedu, posto che, pur avendovi diritto, al ricorrente è stato precluso l’esercizio del diritto al contraddittorio senza che ciò fosse controbilanciato da adeguate garanzie procedurali.
Il diritto al contraddittorio è anche oggetto della sent. 12 ottobre 2017, Cafagna c. Italia (cfr., in proposito, F. ZACCHè, Ennesima condanna dell’Italia per violazione del diritto al confronto, in questa Rivista, 2 novembre 2017). Nella vicenda in questione, le doglianze del ricorrente hanno riguardato l’utilizzo nella sentenza di condanna di dichiarazioni della persona offesa rese unilateralmente alla polizia giudiziaria durante le indagini, e, dunque, di un elemento di prova formatosi al di fuori della dialettica processuale. Pur ammettendo la derogabilità del contraddittorio nel caso in cui l’impossibilità dello stesso sia compensato da garanzie procedurali idonee ad assicurare l’equità complessiva del procedimento, nel caso di specie, poiché le autorità nazionali non hanno adottato misure idonee a garantire la presenza al processo della fonte di prova e le dichiarazioni dell’assente erano determinanti fini dell’accertamento della responsabilità del ricorrente, la C. eur. dir. uomo ha ravvisato la violazione dell’art. 6 comma 3 Cedu. Né la carenza di dialetticità de qua è stata, a parere dei giudici di Strasburgo, compensata con adeguate garanzie procedurali; infatti, la credibilità della fonte di prova non è nemmeno potuta essere oggetto di apprezzamento da parte dell’organo giurisdizionale. Ciò posto, il diritto contraddittorio del ricorrente è stato irrimediabilmente leso, con consequenziale compromissione dell’equità del procedimento.
Sul tema della presunzione d’innocenza, si segnala la sent. 31 ottobre 2017, Bauras c. Lituania, relativa ad un caso in cui il ricorrente, dapprima sentito come testimone in un processo a carico del nipote, condannato per tentato per omicidio, è stato a sua volta imputato per il medesimo reato in un separato procedimento. In particolare, il ricorrente ha addotto la violazione della presunzione d’innocenza in quanto, a suo dire, la condanna si è fondata su una dichiarazione a lui sfavorevole resa dal nipote nel procedimento a carico di quest’ultimo. I giudici di Strasburgo non hanno tuttavia ravvisato alcuna violazione dell’art. 6 comma 2 Cedu, posto che nella specie sono state osservate adeguate garanzie procedurali e le prove di colpevolezza a carico del ricorrente sono state compiutamente valutate. (Stefania Basilico)
d) Art. 7 Cedu
In materia di nulla poena sine lege, ed in particolare di divieto di infliggere una pena per condotte la cui rilevanza criminale non era ragionevolmente prevedibile all’epoca dei fatti, si segnala la sentenza 17 ottobre 2017, Navalnyye c. Russia, con la quale i giudici di Strasburgo hanno riconosciuto fondate le doglianze dei ricorrenti, imprenditori russi che lamentavano di essere stati condannati (tra l’altro) per il reato di frode commerciale, previsto dall’art. 159.4 del codice penale russo, in base ad un’interpretazione “evolutiva” dello stesso giudicata dalla Corte di Strasburgo “non [...] coerente con l’essenza dell’offesa”. In particolare, la Corte europea ha sottolineato come la norma in esame – nel frattempo abrogata – punisse soltanto il volontario inadempimento di un’obbligazione contrattuale, mentre nel caso di specie la norma incriminatrice era stata inopinatamente interpretata dai giudici nazionali quale ipotesi speciale di frode “semplice” ex art. 159 del codice penale russo, che, a differenza dell’art. 159.4, non richiede la prova dell’effettivo inadempimento di un’obbligazione contrattuale da parte dell’autore, ma semplicemente l’acquisizione di proprietà altrui tramite inganno o abuso di fiducia. I ricorrenti, pertanto, venivano condannati ai sensi dell’art. 159.4 senza che la corte nazionale si fosse peritata di indicare quali obbligazioni contrattuali fossero state adempiute e quali no, giungendo così ad un’estensione imprevedibile – e dunque contraria al dettato dell’art. 7 Cedu – dell’ambito di applicabilità del reato di frode commerciale. (Alberto Aimi)
e) Art. 8 Cedu
Per quanto concerne il diritto al rispetto della vita privata e familiare, si segnala la sent. 17 ottobre 2017, Lebois c. Bulgaria. Nella vicenda in questione, il ricorrente ha lamentato la violazione dell’art. 8 Cedu per due motivi. Anzitutto, per dodici giorni, non ha potuto contattare la propria famiglia per informarla dell’arresto disposto nei suoi confronti posto che, in quanto privo di denaro, non ha potuto acquistare una scheda telefonica nel centro di detenzione. Inoltre, per tutto il periodo della custodia cautelare, non ha potuto ricevere visite da parte dei propri familiari ed amici come riconosciuto dalla legge nazionale. Sotto entrambi i profili, la C. eur. dir. uomo ha ravvisato la violazione dell’articolo invocato dal ricorrente. Da un lato, in considerazione dell’ansia che la scomparsa di un membro di una famiglia può causare, la Bulgaria è venuta meno all’obbligo di garantire un pronto contatto tra una persona privata della propria libertà ed i propri familiari. Dall’altro, lo Stato ha posto in essere restrizioni al diritto di visita che, in quanto non conformi alla legge, devono ritenersi illegittime.
Una violazione dell’art. 8 Cedu è stata riscontrata dai giudici di Strasburgo anche nella sent. 31 ottobre 2017, Dragos Ioan Rusu c. Romania, per un caso in cui il ricorrente era stato condannato per spaccio di stupefacenti sulla base di corrispondenza illegittimamente sequestrata. Nel dettaglio, la C. eur. dir. uomo non ha considerato rispettato il canone convenzionale in quanto le autorità nazionali, nel procedere col sequestro, hanno seguito una procedura d’urgenza che, pur prevista dalla legge, non era applicabile al caso di specie: l’ingerenza subita dal ricorrente è risultata quindi non conforme alla legge e, in definitiva, lesiva del suo diritto alla vita privata e familiare. (Stefania Basilico)
f) Art. 9 Cedu
Per quanto concerne la libertà di religione, tutelata dall’art. 9 Cedu, risulta di particolare interesse la sentenza 12 ottobre 2017, Adyan e altri c. Armenia, relativa ad un caso di obiezione di coscienza da parte di quattro testimoni di Geova di nazionalità armena. I ricorrenti, condannati a due anni e mezzo di reclusione per aver rifiutato di svolgere sia il servizio di leva militare, sia il servizio civile, affermavano in particolare che il servizio civile armeno, pur previsto quale alternativa per gli obiettori di coscienza, avrebbe avuto natura sostanzialmente militare, in quanto sottoposto a supervisione e controllo militare, e, pertanto, la condanna da costoro subita rappresentava un’interferenza non necessaria nell’esercizio del diritto fondamentale garantito dall’art. 9 Cedu. La Corte europea, nell’accogliere il ricorso, ha ricordato la propria giurisprudenza in materia di servizio di leva, secondo la quale un sistema giuridico che prevede la leva militare obbligatoria può considerarsi compatibile con il quadro delle garanzie convenzionali soltanto se prevede un’alternativa per gli obiettori di coscienza; precisando, tuttavia, che tale alternativa, per essere convenzionalmente conforme, deve potersi considerare genuinamente civile. Non così, secondo i giudici di Strasburgo, nel caso del servizio civile armeno, che non soltanto è sottoposto a stretto controllo militare, ma ha una durata una volta e mezzo superiore a quella del servizio di leva militare e, dunque, rappresenta un’interferenza non necessaria nel diritto fondamentale alla libertà religiosa dei ricorrenti. (Alberto Aimi)
g) Art. 10 Cedu
In materia di libertà di espressione, si segnala innanzitutto la sentenza 3 ottobre 2017, Dmitriyevskiy c. Russia, con la quale la Corte EDU ha riconosciuto una violazione dell’art. 10 Cedu nella condanna del redattore capo di un giornale locale russo a due anni di carcere per il reato di incitamento all’odio, per aver pubblicato due articoli di due leader separatisti ceceni, che criticavano aspramente il governo russo, uno dei quali arrivava a definire il Cremlino “centro odierno del terrorismo internazionale” e concludeva affermando che “il suolo ceceno sarà completamente purificato dalle innumerevoli orde di invasori russi e dei loro complici... a qualunque costo!”. I giudici di Strasburgo, nel condannare lo Stato russo, hanno riconosciuto che l’interferenza nella libertà di espressione del ricorrente aveva una base legale e perseguiva il legittimo scopo di proteggere la sicurezza nazionale e l’integrità territoriale della Russia; tuttavia, dopo aver richiamato la propria costante giurisprudenza in materia di differenza tra discorso politico e hate speech, hanno ritenuto di non ravvisare negli articoli in esame “nessun incitamento alla violenza” e “nessun elemento [...] diverso da una critica del governo russo”, sottolineando inoltre le deficienze nelle motivazioni delle sentenze delle Corti nazionali, che si erano limitate a riportare il parere di un linguista e non avevano indicato il gruppo etnico “bersaglio”, ribadendo infine la propria tendenziale contrarietà alla condanna in sede penale di giornalisti, capace da sola di produrre un “chilling effect” e dissuadere così la stampa dal parlare apertamente di problemi di interesse pubblico.
Degna di nota, infine, la sentenza 5 ottobre 2017, Becker c. Norvegia, con la quale la Corte di Strasburgo ha ritenuto convenzionalmente illegittima, per contrasto con l’art. 10 Cedu, la condanna al pagamento di un pena pecuniaria emessa nei confronti di una giornalista, che, invocando il segreto professionale, aveva rifiutato di testimoniare in un processo per manipolazione del mercato e insider trading a carico di un obbligazionista di una società petrolifera, che era stata la fonte per un suo articolo avente ad oggetto lo stato finanziario della società e che, nel corso del procedimento a suo carico per i reati finanziari menzionati, aveva confessato di aver contattato la giornalista proprio per ottenere, mediante la pubblicazione dell’articolo, un ribasso delle azioni della società stessa. In particolare, dopo aver richiamato la propria constante giurisprudenza in materia di protezione delle fonti giornalistiche e pur riconoscendo le peculiarità del caso di specie, in cui la fonte era nota, la Corte europea ha comunque sottolineato, da un lato, che il rifiuto del giornalista di sottoporsi ad esame non aveva in alcun modo pregiudicato l’indagine e, dall’altro, ha ricordato che, ogniqualvolta un giornalista collabori all’identificazione di una fonte anonima, possa derivare un effetto di dissuasione dall’esercizio del diritto fondamentale alla libertà di espressione. (Alberto Aimi)