3 maggio 2017 |
Monitoraggio Corte EDU marzo 2017
Rassegna di sentenze e decisioni della Corte Edu rilevanti in materia penale sostanziale e processuale
A cura di Francesco Viganò e Francesco Zacchè.
Tutti i provvedimenti citati sono agevolmente reperibili sul database ufficiale della Corte EDU.
Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, questo mese, da Stefano Finocchiaro (artt. 2, 3, 4 e 10 Cedu) e Roberta Casiraghi (artt. 5, 6 e 8 Cedu).
a) Art. 2 Cedu
In materia di diritto alla vita, questo, mese, segnaliamo anzitutto una pronuncia di condanna contro l’Italia (sent. 2 marzo 2017, Talpis c. Italia) in cui la Corte ha ravvisato la sussistenza di una violazione dell’art. 2 Cedu in un caso relativo a una donna maltrattata dal marito tra le mura domestiche (per un commento a tale pronuncia, cfr. R. Casiraghi, La Corte di Strasburgo condanna l’Italia per la mancata tutela delle vittime di violenza domestica e di genere, in questa Rivista, 13 marzo 2017). Per le violenze subite, la ricorrente aveva presentato denuncia, allegando un rapporto medico che descriveva le contusioni visibili sul suo corpo. Ciononostante non fu emessa alcuna misura di protezione dalle autorità di polizia e si dovettero attendere sette mesi prima che la ricorrente fosse sentita. Un tale ritardo – ha osservato la Corte europea – privò la ricorrente del beneficio della protezione immediata che la situazione richiedeva, creando un contesto di impunità tale da permettere al convivente di reiterare le violenze nei confronti della moglie e dei famigliari, fino al punto di commettere un tentato omicidio nei suoi confronti e un omicidio nei confronti del figlio. La Corte di Strasburgo ha ammesso di non potere “sapere come sarebbero andati i fatti se le autorità avessero adottato un comportamento diverso”, ma ha tuttavia ritenuto che “la mancata attuazione di misure ragionevoli che avrebbero avuto una possibilità reale di cambiare il corso degli eventi o di attenuare il danno provocato è sufficiente per chiamare in causa la responsabilità dello Stato”. Stato italiano che viene dunque condannato per una violazione del proprio obbligo positivo scaturente dall’art. 2 Cedu. A tale violazione si aggiunge quella dell’articolo 14 della Convenzione in combinato disposto con gli articoli 2 e 3 Cedu (cfr. anche infra, sub art. 3): la Corte europea ha infatti ritenuto che le violenze inflitte all’interessata debbano essere considerate fondate sul sesso e che costituiscano perciò una forma di discriminazione nei confronti delle donne.
Degna di nota, inoltre, appare la sent. 30 marzo 2017, Nagmetov c. Russia, con cui la Grande Camera della Corte europea ha affermato la possibilità di accordare un’equa soddisfazione al ricorrente ai sensi dell’art. 41 Cedu – per una seria violazione sostanziale e procedurale dell’art. 2 Cedu – ancorché questi non ne avesse fatto espressa richiesta. Il ricorrente – il padre di un cittadino russo ingiustamente rimasto ucciso dalle forze dell’ordine durante una manifestazione antigovernativa – dopo aver menzionato nel ricorso alla Corte di Strasburgo l’intenzione di ottenere una compensazione pecuniaria in relazione alla violazione convenzionale, non aveva però avanzato una formale richiesta come previsto dall’art. 60 delle Rules of Court. La Corte di Strasburgo, rilevando come la sussistenza di un’apposita richiesta non sia posta dall’art. 41 Cedu quale prerequisito per esercitare i propri poteri discrezionali al riguardo, ha riconosciuto la possibilità di accordare al ricorrente un’equa soddisfazione, sempreché risultino integrate alcune condizioni così sintetizzabili: a) che si valuti se dal ricorso emerga l’intenzione di ottenere una compensazione in aggiunta al riconoscimento della violazione della Convenzione; b) che si accerti un collegamento tra la violazione e il danno non materiale patito; c) che vi siano stringenti motivi per accordare un’adeguata compensazione; d) che si valuti se vi sia una concreta possibilità per il ricorrente di ottenere una adeguata riparazione, nei termini di cui all’art. 41 Cedu, a livello nazionale.
Infine, nella sent. 28 marzo 2017, Fernandes de Oliveira c. Portogallo, la Corte di Strasburgo si è pronunciata in relazione al ricorso della madre di un cittadino portoghese, malato di mente e affidato alle cure di un ospedale psichiatrico, il quale aveva abbandonato senza preavviso il nosocomio e si era quindi suicidato gettandosi sui binari ferroviari. Oltre a una violazione procedurale dell’art. 2, dovuta all’inadeguatezza delle indagini condotte in merito dalle autorità portoghesi, la Corte europea ha rinvenuto una violazione sostanziale dell’art. 2 Cedu. Al riguardo i giudici di Strasburgo – in linea con vari propri precedenti (cfr. sent 16 ottobre 2008, Renolde c. Francia e sent. 13 marzo 2012, Reynolds c. Regno Unito) – hanno affermato come lo Stato venga meno ai propri obblighi positivi di protezione della vita allorché non eviti il suicidio di persone affette da gravi patologie le quali avevano già in precedenza manifestato intenzioni autolesive, manifestazioni che rendevano concretamente prevedibile l’estremo gesto. (Stefano Finocchiaro)
b) Art. 3 Cedu
In materia di divieto di tortura, si segnalano anzitutto due decisioni (dec. 14 marzo 2017, Alfarano c. Italia e dec. 14 marzo 2017, Battista e altri c. Italia) relative alla nota vicenda dei fatti avvenuti nella caserma di Bolzaneto in occasione delle manifestazioni di protesta contro il G8 di Genova del 2001 (sul punto cfr. anche sent. 7 aprile 2015, Cestaro c. Italia, con nota di F. Viganò, La difficile battaglia contro l'impunità dei responsabili di tortura: la sentenza della Corte di Strasburgo sui fatti della scuola Diaz e i tormenti del legislatore italiano, in questa Rivista, 9 aprile 2015). Con le odierne decisioni la Corte ha cancellato dal ruolo i ricorsi di sei cittadini italiani che invocavano una violazione degli artt. 3 e 13 Cedu, prendendo atto dell’intervenuta composizione amichevole della controversia ex art. 39 Cedu. In particolare, il Governo italiano si è impegnato a pagare 45000 euro a ogni vittima, a condurre in futuro indagini effettive su analoghi casi di tortura, a introdurre norme idonee a sanzionare tali fatti, nonché a predisporre una formazione specifica destinata alle forze dell’ordine relativa al rispetto dei diritti dell'uomo.
Con la sent. 28 marzo 2017, Škorjanec c. Croazia la Corte europea ha poi rinvenuto una violazione dell’art. 3 Cedu, considerato congiuntamente all’art. 14 Cedu, in un caso nel quale le autorità croate – pur nel quadro di un sistema legislativo ritenuto compatibile con la Convenzione – sono venute meno al proprio obbligo positivo di perseguire e punire adeguatamente crimini violenti commessi per motivi di odio razziale, non solo quando commessi nei confronti di un soggetto avente le caratteristiche oggetto della discriminazione, ma anche se rivolte a una persona aggredita perché avente un effettivo o presunto collegamento con quel soggetto (nel caso di specie la ricorrente era stata insultata e aggredita per motivi razziali in quanto si trovava in compagnia del proprio partner di origini rom).
Si segnala infine che, nella già menzionata sent. 2 marzo 2017, Talpis c. Italia, la Corte europea ha riscontrato una violazione dell’art. 3 Cedu in un caso di maltrattamenti in famiglia (cfr. supra, sub art. 2): i giudici di Strasburgo, in particolare, hanno ritenuto che la ricorrente possa essere considerata come appartenente alla categoria delle “persone vulnerabili” che hanno diritto alla protezione dello Stato. Le violenze inflitte all’interessata, che si sono tradotte in lesioni personali e pressioni psicologiche, sono state considerate sufficientemente gravi per essere qualificate come trattamenti contrari all’articolo 3 Cedu. L’ingiustificata passività delle autorità italiane – durata per circa sette mesi – nell’intervenire a protezione della donna è stata ritenuta altamente nociva per l’inchiesta, avendo definitivamente compromesso ogni possibilità che questa fosse portata a termine. (Stefano Finocchiaro)
c) Art. 4 Cedu
In materia di proibizione del lavoro forzato, con la sent. 30 marzo 2017, Chowdury e altri c. Grecia, la Corte europea ha esaminato il caso – che ha altresì avuto un discreto eco mediatico – riguardante quarantadue cittadini del Bangladesh, privi di permesso lavorativo, impiegati nella raccolta di fragole in una fattoria di Manolada, in Grecia. Ivi, insieme con molti altri lavoratori, erano costretti a lavorare sotto la supervisione di guardie armate per dodici ore al giorno in pessime condizioni fisiche, vivendo peraltro in baracche senza servizi igienici né acqua corrente. Durante un tentativo di rivolta di questi ultimi, le guardie armate aprirono il fuoco, ferendo trenta lavoratori, tra cui ventuno dei ricorrenti. Il procedimento penale iniziato dalle autorità greche nei confronti dei datori di lavoro per il reato di traffico di esseri umani terminò con l’assoluzione di tutti gli imputati, i quali vennero infine condannati solamente per i reati di lesioni personali e uso illegittimo di armi ad una pena detentiva commutata in pena pecuniaria e al pagamento della somma di 43 euro a ciascuna vittima. La Corte di Strasburgo ha censurato il modo eccessivamente restrittivo con il quale il reato di traffico di esseri umani viene interpretato e applicato nell’ordinamento greco, così da farlo sostanzialmente coincidere con il concetto di schiavitù. Concetto, quest’ultimo, che invece dovrebbe distinguersi da quello di “lavoro forzato”, il quale presuppone che le vittime – come nel caso in esame, trattandosi di lavoratori stagionali – non abbiano la percezione del carattere permanente della propria condizione né ritengano che la propria situazione sia insuscettibile di cambiare. Tratteggiata tale distinzione – e inquadrata la posizione dei ricorrenti come lavoro forzato, anche alla luce della definizione dell’art. 3a del Protocollo di Palermo e dell’art. 4 della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla lotta contro il traffico di esseri umani – la Corte ha riscontrato una violazione degli obblighi positivi discendenti dall’art. 4 § 2 Cedu, non tanto in relazione al dovere di predisporre un adeguato quadro legislativo (invero ritenuto sussistente), bensì in riferimento: a) alla mancata predisposizione di misure concretamente idonee a prevenire, e poi interrompere, lo svolgersi di attività di lavoro forzato, sebbene tale fenomeno, assai diffuso a Manolada, fosse ben noto alle autorità greche, limitatesi cionondimeno a operare solo sporadici interventi ad hoc anziché apprestare misure efficaci per interrompere la violazione dei diritti convenzionali dei lavoratori in quella zona; b) all’inefficienza delle indagini e del procedimento penale instaurato in relazione ai fatti in esame, in quanto risultato inidoneo ad assicurare un’adeguata sanzione dei responsabili e un’idonea soddisfazione degli interessi delle vittime, sia di quelle ammesse al processo dinanzi alla Corte d’assise, poi terminato però con un’assoluzione, sia di quelle la cui denuncia era stata archiviata. (Stefano Finocchiaro)
d) Art. 5 Cedu
In materia di libertà personale, si segnala anzitutto la sent. 28 marzo 2017, Z.A. e altri c. Russia, con cui la C. eur. dir. uomo ha dichiarato illegittimo trattenere un individuo per un periodo indefinito e imprevedibile (protrattosi per molti mesi) nella zona di transito dell’aeroporto, in assenza di una specifica disposizione di legge o di una decisione valida di un tribunale.
Con riguardo alla durata ragionevole della detenzione provvisoria, va rammentata la sent. 7 marzo 2017, Döner e altri c. Turchia, in cui è stata accertata la violazione dell’art. 5 comma 3 Cedu, poiché i ricorrenti sono stati tradotti innanzi al giudice oltre quattro giorni dopo l’arresto. L’impossibilità di incontrare i propri difensori e familiari durante la detenzione ha poi impedito ai ricorrenti (la maggior parte dei quali era analfabeta con una limitata comprensione della lingua turca e nessuna conoscenza legale) di usufruire in modo effettivo del rimedio previsto dall’ordinamento turco, con conseguente violazione dell’art. 5 comma 4 Cedu. (Roberta Casiraghi)
e) Art. 6 Cedu
In merito all’equità processuale, degna di nota è la sent. 7 marzo 2017, Cerovšek e Božičnik c. Slovenia, dove la Corte di Strasburgo ha accertato la violazione del principio di immutabilità del giudice dibattimentale, in quanto la motivazione della sentenza di condanna è stata scritta tre anni dopo la pronuncia in udienza da un giudice diverso da quello che ha partecipato al giudizio ed emesso il verdetto, nel frattempo andato in pensione.
Quanto al diritto d’accesso al giudice, si segnala la sent. 16 marzo 2017, Louli-Georgopoulou c. Grecia, dove il giudice europeo ha censurato l’eccessivo formalismo della Corte di appello, la quale ha dichiarato inammissibile la costituzione di parte civile del ricorrente per il mero fatto che mancasse nel verbale del dibattimento di primo grado la parola "erede", sebbene questa qualità fosse emersa in modo inequivoco da tutti gli atti del fascicolo processuale, impedendo dunque alla ricorrente di avvalersi di un ricorso previsto a suo favore dal diritto nazionale.
Con riguardo al diritto di difesa, la sent. 2 marzo 2017, Moroz c. Ucraina, ha negato la violazione dell’art. 6 commi 1 e 3 lett. c Cedu, nonostante all’accusato sia stato negato il diritto a colloquiare riservatamente con il proprio difensore prima dell’interrogatorio di polizia, sulla scorta di una duplice considerazione: da un lato, le dichiarazioni ivi rese non differivano da quelle rilasciate sia in precedenza che successivamente nel corso del procedimento, in quanto il ricorrente è stato coerente nel negare costantemente l'omicidio; dall’altra, tali dichiarazioni non hanno giocato alcun ruolo ai fini della sentenza di condanna.
In materia di diritto al confronto, interessante è la sent. 2 marzo 2017, Palchik c. Ucraina, la quale rappresenta un compendio completo della disciplina, così come risultante dopo che la Grande camera, con la sent. 15 dicembre 2011, Al-Khawaja e Tahery c. Regno Unito e la sent. 15 dicembre 2015, Schatschaschwili c. Germania, ha ridefinito la regola della “prova unica o determinante”. Più precisamente, la Corte di Strasburgo, in merito a una vicenda complessa avente ad oggetto plurime imputazioni, ha anzitutto dichiarato non ricevibile la doglianza con riguardo a tre testimoni, per i quali deve presumersi che l’imputato abbia rinunciato al diritto di esaminarli, non essendosi opposto alla lettura delle dichiarazioni rese in indagini né avendo chiesto il loro esame nel processo d’appello; altrettanto irricevibile è stata la doglianza con riferimento ad altri cinque testimoni per cui la difesa non ha indicato i motivi in base ai quali fosse importante sentirli né ha indicato quali domande desiderasse porre. Applicando poi i criteri dell’“Al-Khawaja test”, il giudice europeo, in relazione ad ulteriori due testimoni, ha escluso la violazione, poiché, pur mancando valide ragioni giustificative della loro assenza dibattimentale e pur essendo le loro dichiarazioni decisive per la condanna (in quanto erano le uniche prove dirette dei rapporti fittizi fra la società del ricorrente e le due società di cui i testimoni erano rispettivamente amministratori), il ricorrente ha potuto comunque interrogarli nel corso delle indagini, dovendosi dunque ritenere validamente controbilanciata l’assenza dibattimentale delle fonti dichiarative; viceversa, l’impossibilità per l’accusato di porre le domande in un differente stadio del procedimento a un altro testimone decisivo (poiché la sua deposizione era l’unica prova diretta del rapporto fittizio fra la società del ricorrente e quella di cui il testimone era amministratore) e ingiustificatamente assente è risultata dirimente per concludere per l’iniquità del procedimento per quanto riguarda le operazioni illecite fra la società del ricorrente e quella di quest’ultimo testimone, dovendosi reputare insufficienti le altre salvaguardie procedurali (ovvero, la possibilità per il ricorrente di esporre la propria versione dei fatti e di mettere in discussione la credibilità dei testimoni assenti, nonché l’esistenza di elementi di riscontro delle prove unilaterali). La stessa sentenza si segnala altresì in tema di parità delle armi, accertandone la violazione, in quanto solo il procuratore ha potuto partecipare all’udienza innanzi alla Corte suprema, mentre tale diritto è stato negato alla difesa.
Con riguardo alla presunzione d’innocenza, si segnala la sent. 28 marzo 2017, Kemal Coşkun c. Turchia, dove si è dichiarata la violazione dell’art. 6 comma 2 Cedu, poiché nell’atto di licenziamento e nelle successive decisioni dei tribunali amministrativi è stata affermata la colpevolezza del ricorrente prima del suo legale accertamento in sede penale (peraltro, il processo penale si è poi concluso con un’assoluzione). (Roberta Casiraghi)
f) Art. 8 Cedu
Con riguardo alla privatezza, viene in rilievo la sent. 16 marzo 2017, Modestou c. Grecia, in cui la C. eur. dir. uomo ha accertato la violazione dell’art. 8 Cedu, in quanto la perquisizione presso il domicilio personale e professionale del ricorrente è stata effettuata senza alcun controllo giurisdizionale ex ante e sulla scorta di un mandato di perquisizione generico; né è stato previsto un immediato controllo giurisdizionale ex post, considerato che la Corte d’appello, adita dal ricorrente, ha respinto la doglianza più di due anni dopo la perquisizione in questione, non indicando neppure i motivi "rilevanti e sufficienti" giustificativi della perquisizione, con la conseguenza che neppure è stato mai chiarito se i computer e i documenti sequestrati fossero direttamente collegati al reato oggetto di indagine.
Quanto al rispetto della vita familiare, si segnala la sent. 7 marzo 2017, Polyakova e altri c. Russia, dove è risultato violato l’art. 8 Cedu, perché ai ricorrenti detenuti è stata negata in concreto la possibilità di ricevere in carcere le visite dei propri familiari a seguito della decisione delle autorità di destinarli in istituti penitenziari lontani, impedendo loro altresì di ottenere un trasferimento in strutture più vicine. (Roberta Casiraghi)
g) Art. 10 Cedu
In materia di libertà di espressione, con la sent. 16 marzo 2017, Olafsson c. Islanda, la Corte europea si è occupata della condanna di un giornalista islandese per il reato di diffamazione, consistita nell’aver pubblicato vari articoli in cui si dava conto delle accuse di abusi sessuali su minorenni gravanti su di un candidato politico. In linea con la propria costante giurisprudenza sul punto, la Corte di Strasburgo ha qualificato tale condanna come un’interferenza nel diritto di libera espressione del giornalista, della quale valutare se fosse prevista dalla legge, se fosse volta a perseguire uno scopo legittimo e se fosse necessaria in una società democratica. Pur avendo vagliato positivamente i primi due requisiti, la Corte ha nondimeno ha rinvenuto una violazione dell’art. 10 Cedu sotto il terzo profilo che, come noto, impone un bilanciamento tra la compressione della libertà di espressione, da un lato, e il diritto al rispetto alla vita privata, dall’altro. Bilanciamento che, afferma la Corte europea, è stato operato scorrettamente dai giudici islandesi a discapito del diritto convenzionale del giornalista ricorrente. Gli elementi presi principalmente in considerazione sono stati, in questo caso: il fatto che il soggetto diffamato fosse un personaggio pubblico, candidato alle elezioni politiche, e non un comune privato cittadino; il fatto, invero strettamente connesso al precedente, che la conoscenza dei fatti contestati integrasse un utile contributo al pubblico dibattito su temi di interesse collettivo; la buona fede del giornalista e il rispetto da parte di quest’ultimo delle buone pratiche giornalistiche (il ricorrente aveva infatti controllato le proprie fonti confrontandole con interviste ad un vasto numero di persone); il fatto che nell’articolo non si muovessero accuse dirette ma si riportasse semplicemente la notizia delle accuse mosse da altri nei confronti del politico, dando altresì conto delle repliche avanzate da quest’ultimo.
Si segnala, inoltre, la sent. 7 marzo 2017, Döner e altri c. Turchia, con cui la Corte europea ha condannato la Turchia per aver arrestato, perquisito e sottoposto a procedimento penale venti cittadini turchi che avevano sottoscritto una petizione in cui chiedevano che i propri figli potessero ricevere un’educazione in curdo. Tale comportamento era infatti stato considerato dalle autorità requirenti turche come un atto di pubblico supporto al PKK. Oltre a riscontrare una violazione dell’artt. 5 §§ 3, 4 e 5, la Corte di Strasburgo ha rinvenuto una violazione dell’art. 10 Cedu, stante la sproporzionata e ingiustificata interferenza statale nella sfera di libertà dei ricorrenti di partecipare a un dibattito pubblico di interesse generale, riguardante l’educazione in lingua curda nelle scuole elementari turche. (Stefano Finocchiaro)