ISSN 2039-1676


04 ottobre 2017 |

Monitoraggio Corte Edu giugno 2017

Rassegna di sentenze e decisioni della Corte Edu rilevanti in materia penale sostanziale e processuale

A cura di Francesco Viganò e Francesco Zacchè.

Tutti i provvedimenti citati sono agevolmente reperibili sul database ufficiale della Corte EDU.

Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, questo mese, da Marco Mariotti (artt. 2, 3, 8 e 10 Cedu) e Luca Pressacco (artt. 5, 6, 8 Cedu; art. 4 Prot. n. 7 Cedu).

 

a) Art. 2 Cedu

Per quanto riguarda la tematica dell’interruzione di cure vitali, la Corte europea è intervenuta nella triste vicenda di Charlie Gard, un bambino di dieci mesi affetto da una rarissima malattia genetica che ne comprometteva le funzionalità del cervello e dei muscoli. I genitori avevano chiesto all’ospedale britannico presso cui il piccolo era ricoverato di importare una cura sperimentale dagli Stati Uniti. A seguito di un aggravamento delle condizioni del bambino, tuttavia, i medici si rifiutavano, ritenendo che la somministrazione non l’avrebbe guarito, né gli avrebbe arrecato alcun sollievo, prolungando invece le sue sofferenze; per questi motivi chiedevano inoltre all’autorità giudiziaria il permesso di interrompere le cure che lo tenevano in vita. I genitori si opponevano ed erano intenzionati a portare il figlio negli Stati Uniti per sottoporlo al trattamento sperimentale, affermando che vi fosse una possibilità – ancorché minima – di miglioramento delle sue condizioni. La magistratura, con due successive decisioni, confermate poi dalla Corte Suprema, acconsentiva all’interruzione del sostegno vitale. A fronte del ricorso dei genitori, la C. eur. dir. uomo esclude la violazione dell’art. 2 della Convenzione: da un lato, non sussiste l’obbligo positivo per gli Stati membri di garantire in ogni caso ai malati terminali l’accesso a cure sperimentali; dall’altro, il Regno Unito ha assolto all’obbligo di formulare una decisione ponderata in merito all’interruzione delle cure, che è stata presa nel rispetto di un preciso quadro normativo, ascoltando l’opinione di diversi medici specialisti, dei genitori e di un tutore nominato ad hoc per rappresentare il bambino, garantendo inoltre la possibilità di plurimi ricorsi giurisdizionali. Neppure vi è stata violazione dell’art. 8 Cedu: è infatti conforme al rispetto dei diritti umani la normativa che attribuisce ai medici dell’ospedale il diritto e il dovere di investire la magistratura di una decisione tanto delicata. Secondo un generale consensus, la scelta di interrompere le cura può essere giustificata se tende al miglior interesse del bambino e non – come sostenuto dai ricorrenti – esclusivamente se questi rischia un grave danno; tuttavia, la grande sofferenza a cui Charlie sarebbe andato incontro a fronte dell’infinitesima possibilità di un miglioramento potrebbero essere considerati un grave danno e, pertanto, la differenza tra i due criteri non è dirimente. Il ricorso viene pertanto dichiarato inammissibile perché manifestamente infondato. (dec. 27 giugno 2016, Gard e altri c. Regno Unito).

La sent. 6 giugno 2017, Sinim c. Turchia tratta un caso di indagini inadeguate conseguenti alla morte di una persona. Il veicolo a noleggio con conducente dove viaggiava il marito della ricorrente trasportava del carburante infiammabile che, a seguito dell’impatto con un altro veicolo, aveva preso fuoco provocando la morte dell’uomo. La C. eur. dir. uomo ricorda che a fronte di un decesso accidentale non è di per sé necessaria un’indagine penale, che in alcune precedenti sentenze era stata ritenuta obbligatoria solo in presenza di attività pericolose (in ambito industriale o militare) realizzate da soggetti pubblici. Tuttavia, nel caso di specie la Corte europea ritiene che sia stato senz’altro opportuno avviare un procedimento penale: l’attività pericolosa era stata sì svolta da privati, ma in totale disprezzo delle regole sul trasporto di materiale infiammabile, violazione che – per di più – costituisce reato per la legge turca. L’autorità giudiziaria ha effettivamente ottemperato a tale obbligo, trattando però l’accaduto come un semplice incidente stradale dovuto alla negligenza del conducente, ignorando la natura pericolosa della sostanza trasportata e la conseguente responsabilità del produttore e del vettore; inoltre, nelle perizie tecniche non sono stati valutati alcuni importanti indizi e, infine, le segnalazioni della ricorrente alle autorità sono state a lungo ignorate, e alla ricorrente è stata negata o limitata la possibilità di partecipare al procedimento e di essere informata sull’evoluzione dello stesso.

Circa gli obblighi positivi di protezione della vita umana, possiamo segnalare la sent. 1° giugno 2017, Malik Babayev v. Azerbaigian, in cui il figlio della ricorrente, che probabilmente soffriva di depressione, si era tolto la vita mentre svolgeva il servizio miliare obbligatorio; a detta della madre, il figlio si sarebbe suicidato per essere stato maltrattato dai commilitoni (pochi minuti prima della morte era infatti stato picchiato). La Corte europea, nel ribadire l’obbligo di protezione nei confronti di coloro che sono sottoposti alla sua autorità (come i militari in servizio), precisa che lo Stato è responsabile quando i rappresentanti delle istituzioni erano o avrebbero dovuto essere a conoscenza di un rischio immediato e reale per la vita dell’individuo, e quando le misure da adottare avrebbero ragionevolmente potuto evitare l’esito fatale. Nel caso di specie, il militare non aveva mostrato segni evidenti di alcuna malattia psichiatrica o disturbo psicologico, né altri suoi famigliari si erano in passato suicidati; quanto alle violenze subite, il precipitare degli eventi non aveva dato modo ad alcun superiore di accorgersi del pericolo. Non vi è pertanto violazione degli obblighi sostanziali di cui all’art. 2, mentre vengono accertati numerosi limiti delle successive indagini, con violazione degli obblighi procedurali derivanti dal diritto alla vita.

Ancora in tema di obblighi di protezione, la sent. 1° giugno 2017, Ayvazyan c. Armenia evidenzia che la scarsa pianificazione dell’intervento delle forze dell’ordine può tradursi in un mancato contenimento del pericolo di morte. Un malato psichiatrico si era barricato in casa, dopo aver ferito due persone; la polizia cercava di convincerlo ad arrendersi, senza però ricorrere all’intervento di un agente esperto o di un medico; anche la successiva irruzione nell’abitazione per arrestare il soggetto, che si concludeva con l’accoltellamento di un poliziotto e l’uccisione dell’attentatore, veniva portata avanti senza alcuno speciale equipaggiamento e senza la partecipazione di agenti addestrati per quelle situazioni. Viene pertanto riconosciuta la violazione dell’obbligo sostanziale di cui all’art. 2 Cedu (unitamente alle carenze nella successiva indagine). (Marco Mariotti)

 

b) Art. 3 Cedu

Con la sent. 22 giugno 2017, Bartesaghi Gallo ed altri c. Italia, la Corte europea torna ad esprimersi sugli obblighi positivi e negativi derivanti dal divieto di tortura, in relazione ai fatti accaduti durante il vertice del G8 a Genova nel luglio 2001. I numerosi ricorrenti sono manifestanti che stavano pernottando alla scuola Diaz-Pertini, quando diversi agenti della Polizia italiana, in tenuta antisommossa, avevano fatto irruzione nell’edificio, e colpito i manifestanti con pugni, calci e con i manganelli, trascinandone alcuni per i capelli, minacciandoli, impedendo la fuga di chi tentava di allontanarsi; tutti i manifestanti erano disarmati e non avevano opposto resistenza, alcuni di loro stavano dormendo o tenevano le mani alzate in segno di resa. Decine di persone erano quindi state arrestate ed alcuni erano stati trasferiti nella caserma di Bolzaneto. All’esito di un lunghissimo procedimento giudiziario a carico di funzionari, dirigenti ed agenti delle forze dell’ordine, la Corte di Cassazione nel 2012 stabiliva che le violenze potevano essere qualificate come tortura o trattamenti inumani o degradanti secondo i parametri dell’art. 3 Cedu; ciò nondimeno, in assenza di specifiche fattispecie penali nell’ordinamento italiano, il reato più grave contestato agli imputati era quello di lesioni aggravate, poi caduto in prescrizione. La Corte europea, aderendo alle valutazioni della Cassazione, afferma innanzitutto la violazione degli obblighi negativi di cui all’art. 3 della Convenzione, stigmatizzando l’inadeguata pianificazione dell’operazione di polizia da parte degli alti funzionari, e l’uso eccessivo, indiscriminato e manifestamente sproporzionato della forza, che, viste le acute sofferenze fisiche e psicologiche provocate, deve essere qualificato come tortura. Circa la violazione procedurale, viene richiamata l’analisi della sent. 7 aprile 2015, Cestaro c. Italia, che aveva già evidenziato come lo sforzo della magistratura italiana fosse rimasto frustrato per l’inadeguatezza della legislazione nazionale a fornire strumenti idonei ad identificare e punire adeguatamente i colpevoli (sulla sentenza qui riassunta, si rinvia altresì a F. Cancellaro, Tortura: nuova condanna dell'Italia a Strasburgo, mentre prosegue l'iter parlamentare per l'introduzione del reato, in questa Rivista, 29 giugno 2017. Sulla sentenza Cestaro, cfr. invece F. Viganò, La difficile battaglia contro l'impunità dei responsabili di tortura: la sentenza della Corte di Strasburgo sui fatti della scuola Diaz e i tormenti del legislatore italiano, ivi, 9 aprile 2015 e F.S. Cassibba, Violato il divieto di tortura: condannata l'Italia per i fatti della scuola ''Diaz-Pertini'', ivi, 27 aprile 2015).

Un caso che trae origine da una richiesta di estradizione fornisce alla Corte europea l’occasione di interpretare i criteri di ammissibilità di un ricorso che ricalca un caso già deciso in precedenza. Nel primo esame della vicenda (sent. 17 gennaio 2012, Harkins e Edwards c. Regno Unito), la C. eur. dir. uomo aveva escluso che l’ergastolo without parole a cui il ricorrente rischiava di essere condannato negli Stati Uniti fosse incompatibile con l’art. 3 della Convenzione (le autorità statunitensi avevano infatti fornito assicurazioni sulla non applicazione della pena capitale, e la Corte di Strasburgo aveva ritenuto la detenzione a vita una misura non manifestamente sproporzionata rispetto alla gravità del fatto concreto – rapina aggravata sfociata in omicidio –; inoltre, anche nell’ipotesi di un’eventuale condanna, non era certo che la protrazione della pena avrebbe cessato di servire uno scopo legittimo, né che, in tal caso, sarebbe stata negata al ricorrente la grazia o la liberazione anticipata). Il ricorrente successivamente chiedeva che il suo caso fosse riesaminato alla luce di nuove pronunce della Corte europea su casi simili, che – a suo giudizio – dimostravano un’evoluzione dell’interpretazione dell’art. 3 Cedu a lui più favorevole. La C. eur. dir. uomo dichiara il ricorso inammissibile, in quanto è essenzialmente identico al precedente e non contiene “fatti nuovi”: tale nozione, contenuta nell’art. 35, §2 (b) della Convenzione, deve essere interpretata in senso stretto, alla stregua di “elementi di fatto nuovi”, e dunque non comprende ulteriori argomentazioni giuridiche, pur fondate sull’evoluzione giurisprudenziale della stessa Corte di Strasburgo. Tale conclusione è imposta dalla necessità che le pronunce assumano carattere irrevocabile indipendentemente dalle più recenti pronunce, e dal principio di certezza del diritto, per impedire la continua riproposizione di casi già discussi (dec. 15 giugno 2017, Harkins c. Regno Unito). (Marco Mariotti)

 

c) Art. 5 Cedu

Per quanto attiene alla tutela della libertà personale, nel periodo considerato occorre segnalare la sent. 1° giugno 2017, Mindadze e Nemsitsveridze c. Geogia, in cui sono state riscontrate diverse violazioni dell’art. 5 Cedu. Per quanto riguarda la ragionevole durata della custodia cautelare (art. 5 comma 3 Cedu), il prolungamento della misura privativa della libertà personale è stato giustificato dalle autorità georgiane esclusivamente in base alla gravità delle accuse mosse nei confronti dei ricorrenti: le motivazioni dei relativi provvedimenti non esibivano, infatti, alcun elemento concreto a sostegno delle asserite esigenze cautelari. Di qui l’ovvia conclusione: i motivi addotti dai giudici nazionali, seppur rilevanti, non erano sufficienti a giustificare il mantenimento in vinculis dei ricorrenti. Per quanto concerne, invece, il diritto ad un controllo giurisdizionale effettivo sulla privazione della libertà personale (art. 5 comma 4 Cedu), i ricorrenti lamentavano di non aver potuto disporre delle facilitazioni necessarie per preparare la propria difesa nel procedimento de libertate. In particolare, la richiesta di prolungamento della misura cautelare, avanzata dal pubblico ministero, non era stata trasmessa né ai ricorrenti né ai loro difensori: questi ultimi, pertanto, ne avevano avuto integrale conoscenza solo nel corso dell’udienza ad hoc. Tale doglianza è stata ritenuta manifestamente infondata dalla Corte europea: se è vero che i canoni essenziali delle procedure giurisdizionali debbono essere rispettati anche in sede cautelare, è parimenti vero che le garanzie in parola si debbono conciliare con le peculiari caratteristiche dei procedimenti incidentali de libertate. In base a questa premessa, nel caso di specie si è affermato che la discovery integrale tramite corrispondenza dei documenti in possesso delle parti avrebbe indebitamente compromesso la speditezza – garantita dall’ordinamento nazionale tramite la previsione di termini assai brevi per la decisione, ma contemplata in primo luogo dallo stesso dettato convenzionale – della procedura di judicial review. Ad abundantiam, si è anche rilevato che i difensori dei ricorrenti avevano avuto comunque l’opportunità di discutere oralmente le proprie argomentazioni, in contraddittorio con la pubblica accusa, nel corso dell’udienza all’uopo fissata. (Luca Pressacco)

 

d) Art. 6 Cedu

Sul versante dell’equità processuale, occorre segnalare la già citata sent. 1° giugno 2017, Mindadze e Nemsitsveridze c. Geogia. Nella vicenda in esame i ricorrenti lamentavano di essere stati condannati sulla base di una confessione estorta con violenza, nonché sulla base di ulteriori elementi di prova connessi alla prima. È opportuno premettere che la Corte di Strasburgo ha riconosciuto – con la medesima pronuncia – la violazione dell’art. 3 Cedu, ritenendo che uno dei ricorrenti avesse subito pesanti maltrattamenti da parte di funzionari di polizia. Tale circostanza, peraltro, aveva indotto le stesse corti nazionali ad espungere la confessione contestata dal fascicolo processuale. Tuttavia, ciò non è bastato ad impedire la condanna della Georgia anche per la violazione dell’art. 6 Cedu. Invero, la C. eur. dir. uomo ha ritenuto che la confessione – seppure esclusa dal novero delle prove utilizzabili per la condanna – avesse comunque inficiato l’equità del procedimento penale. Per un verso, consta che le autorità inquirenti abbiano utilizzato le dichiarazioni illecitamente carpite non solo quale spunto investigativo, ma anche per contrastare le strategie difensive dei ricorrenti. Per altro verso, i residui elementi di prova – sui quali la condanna risulta direttamente fondata – appaiono a loro volta contaminati dall’utilizzo di metodi impropri di interrogatorio. Ciò vale, in particolare, per la seconda confessione del ricorrente (resa alla presenza di un difensore nel corso del sopralluogo sulla scena del crimine), considerato il collegamento diretto con le violenze perpetrate in precedenza dalla polizia. Peraltro, nemmeno la ricognizione personale effettuata dalla persona offesa può essere ritenuta concludente, essendo stata realizzata con modalità contrarie a quelle prescritte dalla legislazione nazionale al fine specifico di garantire l’attendibilità dell’esperimento gnoseologico in questione.

Nel periodo considerato occorre, poi, menzionare la sent. 27 giugno 2017, Chiper c. Romania. Nella vicenda in esame il ricorrente (un funzionario di polizia accusato di corruzione) lamentava di essere stato condannato per la prima volta in appello, sulla base di una rivalutazione meramente cartolare delle testimonianze che avevano condotto ad una sentenza di assoluzione in primo grado. La C. eur. dir. uomo ha respinto tale doglianza, avendo cura di distinguere il caso in esame dai propri precedenti in materia. In primo luogo, si è affermato che non è configurabile – in capo alle giurisdizioni nazionali – un obbligo perentorio di escutere nuovamente tutti i testimoni la cui credibilità sia stata rivalutata nel contesto del giudizio d’impugnazione. La violazione dell’equità processuale, insomma, non discende in modo automatico dalla congiunzione dell’omessa rinnovazione probatoria e della reformatio in pejus nel giudizio d’appello: occorre, invece, sempre verificare lo specifico «valeur probante» delle singole testimonianze nella ricostruzione dei fatti di causa. Muovendo da queste premesse, la Corte europea ha sottolineato come – nel caso di specie – il giudice dell’impugnazione avesse selezionato in modo non arbitrario le prove dichiarative ritenute meritevoli di rinnovazione, escludendo l’utilità di una nuova deposizione dei querelanti (considerati non attendibili dal giudice di prime cure). Inoltre, si è rilevato come nel giudizio d’impugnazione la difesa non si fosse avvalsa del potere di chiedere la convocazione di ulteriori testimoni, oltre a quelli già citati ex officio. Infine, la C. eur. dir. uomo ha ritenuto che il giudice dell’impugnazione avesse predisposto un’adeguata motivazione rafforzata, enucleando le specifiche ragioni che lo avevano indotto a discostarsi dal precedente verdetto assolutorio. Considerate tali garanzie procedurali, la Corte europea ha concluso per l’equità complessiva del procedimento esaminato.

Sul medesimo tema insiste anche la sent. 29 giugno 2017, Lorefice c. Italia (su cui sia consentito il rinvio a L. Pressacco, Una censura ampiamente annunciata: la Corte di Strasburgo condanna l’Italia per il ribaltamento in appello dell’assoluzione senza rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, in questa Rivista, 12 luglio 2017). Il ricorrente, accusato di estorsione e porto in luogo pubblico di manufatti esplosivi, veniva assolto in primo grado. Il Tribunale di Sciacca, infatti, riteneva scarsamente attendibili i principali testimoni d’accusa (la persona offesa, costituitasi parte civile nel giudizio, ed un collaboratore di giustizia), nonché incoerenti ed imprecise le rispettive dichiarazioni. Al contrario, la Corte d’appello di Palermo – adita su impugnazione del pubblico ministero e della parte civile – pronunciava sentenza di condanna, rivalutando il contributo dichiarativo fornito dai testimoni a carico, senza disporre alcuna rinnovazione dell’istruzione dibattimentale. Divenuta irrevocabile la condanna, il ricorrente si rivolgeva alla Corte di Strasburgo, che ha riscontrato la violazione dell’art. 6 comma 1 Cedu. Dopo aver affermato che la Corte d’appello si è pronunciata, nel caso di specie, su una questione fattuale (vale a dire l’attendibilità delle deposizioni a carico dell’imputato) determinante ai fini della decisione in merito alla responsabilità penale del medesimo, la C. eur. dir. uomo ha ribadito che la valutazione di affidabilità delle fonti di prova costituisce un compito complesso che, di norma, non può essere correttamente assolto mediante la semplice lettura del verbale della precedente audizione. Inoltre, la Corte europea ha rilevato che all’epoca del giudizio d’appello non sussisteva alcun impedimento oggettivo ad una nuova escussione delle fonti di prova in questione. Infine – respingendo le argomentazioni prospettate dal Governo italiano – si è affermato che la redazione di una motivazione rafforzata (tesa a mettere in luce errori logici o travisamenti probatori in cui sarebbe incorso il primo giudice) non esonera la giurisdizione d’appello dall’obbligo di sentire personalmente i testimoni le cui dichiarazioni risultino determinanti per l’esito del procedimento.

Per concludere, occorre segnalare la sent. 27 giugno 2017, Valdhuter c. Romania, in tema di diritto al confronto coi testimoni a carico. Il ricorrente – accusato di furto e ricettazione di autoveicoli – lamentava di essere stato condannato sulla base delle dichiarazioni accusatorie rese da un concorrente nel reato (giudicato con separato procedimento) nel corso delle indagini preliminari. La C. eur. dir. uomo ha accolto tale doglianza, dopo aver effettuato il test sui testimoni assenti, secondo le indicazioni fornite dalle sent. Al-Khawaja et Tahery c. Regno Unite e Schatschaschwili c. Germania. Anzitutto, le autorità nazionali non hanno fornito alcun motivo serio e plausibile per giustificare la mancata citazione del testimone a carico nel corso del dibattimento. Secondariamente, la chiamata in correità riveste – secondo l’opinione espressa della C. eur. dir. uomo – un ruolo significativo nell’ambito del compendio probatorio di cui si sono servite le corti interne per addivenire alle sentenze di condanna. Infine, le autorità nazionali non hanno impiegato la dovuta attenzione nel valutare la credibilità soggettiva del dichiarante e l’attendibilità delle dichiarazioni accusatorie. In conclusione, l’assenza di garanzie procedurali idonee a bilanciare la lesione dei diritti della difesa comporta la violazione dell’art. 6 comma 1 e 3 lett. d) Cedu. (Luca Pressacco)

 

e) Art. 8 Cedu

Per quanto concerne il diritto al rispetto della vita privata e familiare, occorre segnalare la sent. 1° giugno 2017, Dejnek c. Polonia. Nella vicenda in questione il ricorrente lamentava, adducendo una violazione dell’art. 3 Cedu, di essere stato sottoposto ad una serie di perquisizioni personali altamente invasive (cosiddette “strip searches”) nel corso della detenzione. La C. eur. dir. uomo ha ritenuto che tali perquisizioni – ritualmente effettuate – non integrassero il livello minimo di severità necessario per ravvisare una violazione della dignità umana. Tuttavia, la stessa Corte di Strasburgo ha ritenuto di poter considerare la doglianza anche sotto il profilo dell’art. 8 Cedu, dal momento che le perquisizioni personali costituiscono una lampante interferenza dell’autorità pubblica nel diritto alla riservatezza dell’individuo. In questa prospettiva, la C. eur. dir. uomo – dopo aver precisato che l’utilizzo delle strip searches è consentito dall’ordinamento penitenziario polacco al fine di prevenire disordini e reprimere gli illeciti penali nei luoghi di detenzione – ha affermato che nel caso di specie non vi è stata proporzione tra le misure impiegate dall’amministrazione carceraria e gli obiettivi perseguiti. Le autorità nazionali, infatti, non hanno fornito alcuna plausibile giustificazione per lo svolgimento sistematico di operazioni corporali altamente invasive. Peraltro, considerato che l’ordinamento interno non assicura un rimedio giurisdizionale effettivo avverso l’ordine di esecuzione delle misure in questione, pure la verifica dei corrispondenti presupposti di applicazione risulta assai ardua. Di qui, la violazione del dettato pattizio.

Sempre in relazione al diritto alla riservatezza, occorre menzionata la sent. 22 giugno 2017, Aycaguer c. Francia. Il ricorrente si doleva, in particolare, di aver ricevuto una condanna al pagamento di un’ammenda per aver rifiutato di sottoporsi al prelievo di campioni biologici, funzionali alla registrazione del profilo genetico nell’archivio nazionale del DNA. In premessa, la C. eur. dir. uomo ha affermato che la creazione di una banca data nazionale dei profili genetici è una misura prevista dalla legislazione nazionale e finalizzata a prevenire la commissione di gravi reati. Tuttavia, affinché tale misura possa dirsi necessaria in una società democratica, è indispensabile che la relativa regolamentazione sia coerente e proporzionata agli obiettivi perseguiti. Peraltro, secondo la Corte europea (in ciò confortata dalle pronunce del Conseil constitutionnel), non è questa la situazione attuale della legislazione francese in materia. Infatti, da un lato, il periodo di conservazione dei dati genetici non risulta graduato in relazione alla natura ed alla gravità dei reati commessi; dall’altro lato, i soggetti condannati in via definitiva non hanno accesso ad alcuna procedura funzionale ad ottenere l’eliminazione del proprio profilo dall’archivio in parola. Tali circostanze risultano rilevanti nel caso di specie, poiché il ricorrente era stato incluso nella lista dei soggetti target in quanto gravato da una condanna definitiva per infrazioni minori (resistenza a pubblico ufficiale). La Corte di Strasburgo ha, quindi ritenuto che – in assenza di garanzie legislative adeguate – la condanna subita dal ricorrente per aver rifiutato di fornire i propri campioni biologici rappresenti un’indebita interferenza della pubblica autorità nella sua sfera di riservatezza.

Infine, per le conseguenze sulla vita familiare della decisione di interruzione delle cure di sostegno vitale, si segnala la dec. 27 giugno 2016, Gard e altri c. Regno Unito, già esaminata sub art. 2. (Luca Pressacco)

 

f) Art. 10 Cedu

Una sentenza della Grande Camera tratta delle legittime limitazioni della libertà di espressione in relazione agli obblighi, gravanti anche sulle organizzazioni non governative, di verificare la veridicità delle informazioni trasmesse alle autorità pubbliche a contenuto potenzialmente lesivo della reputazione individuale. Quattro associazioni culturali e religiose bosniache avevano inviato una lettera alle autorità locali, attribuendo alla candidata alla direzione di un’emittente radiotelevisiva pubblica a carattere multietnico alcuni gesti dimostrativi e dichiarazioni offensive nei confronti delle persone di etnia bosniaca e di religione islamica; la lettera veniva poi trasmessa ai giornali (resta incerto se ad opera dei ricorrenti) e pubblicata; all’esito della causa civile per diffamazione le associazioni venivano condannate al pagamento di circa 1.445 euro, dal momento che i fatti riportati si erano rivelati falsi. La Corte di Strasburgo, esaminando la necessità della limitazione della libertà di espressione, aderisce al bilanciamento operato dalle corti nazionali tra questo diritto e la reputazione della donna. Poiché le associazioni non governative assumono un ruolo di garanzia simile alla stampa, sono altresì gravate dagli stessi obblighi di svolgere un accurato controllo sui fatti, specialmente in merito alla condotta di un incaricato di pubblico servizio e quando difendono gli interessi delle minoranze. Le ricorrenti, al contrario, non hanno ottemperato a quest’obbligo. Secondo la maggioranza dei giudici, pertanto, non sussiste una violazione dell’art. 10 Cedu. Interessanti però anche le dissenting opinions di ben sei degli undici membri della Grande Camera. Secondo alcuni, le ricorrenti hanno agito in modo simile ai whistle-blowers, ed in ogni caso esercitando il diritto di segnalare alcuni possibili illeciti commessi da un incaricato di pubblico servizio (diritto che deve essere contrapposto nel bilanciamento alla libertà di espressione); pertanto, alle ricorrenti può essere chiesto un minor rigore nella verifica dei fatti. Un’ulteriore prospettazione alternativa sottolinea che le associazioni hanno agito come soggetti privati, e non possono essere chiamate a rispondere per il fatto stesso che la lettera sia poi stata pubblicata; inoltre, la non agevole verifica degli episodi riportati era compito delle autorità pubbliche destinatarie della lettera. (sent. 27 giugno 2017, Medžlis Islamske Zajednice Brčko e altri c. Bosnia ed Erzegovina)

Ancora in tema di diffamazione, segnaliamo la sent. 15 giugno 2017, Independent Newspapers (Ireland) Limited c. Irlanda. Su di un noto quotidiano irlandese, edito dalla società ricorrente, erano stati pubblicati diversi articoli che ipotizzavano una relazione extraconiugale tra un ministro ed una consulente per le pubbliche relazioni, dubitando inoltre della regolarità di alcuni incarichi a lei assegnati dal ministero e molto ben retribuiti. La signora, sposata e con figli, citava in giudizio per diffamazione la società editrice; in primo grado la giuria popolare stabiliva un risarcimento di ben 1.872.000 euro – il più alto mai assegnato per un caso di diffamazione nella storia giudiziaria irlandese –, successivamente ridotto in secondo grado a 1.250.000 euro. Il ricorrente lamenta la sproporzione tra il danno ed il risarcimento, nonché l’imprevedibilità dell’esito, con conseguente effetto deterrente sull’attività dei media. La Corte europea, nel ravvisare una violazione dell’art. 10 Cedu, afferma che i meccanismi nazionali di salvaguardia contro un’eccessiva limitazione della libertà di espressione si sono rivelati poco efficaci. Da un lato, il magistrato che presiedeva il giudizio di primo grado non aveva fornito ai giurati precise indicazioni circa i criteri per la determinazione del risarcimento, né alcun esempio, a causa dei limiti imposti dal legislatore e dalla giurisprudenza della Corte Suprema a tutela dell’indipendenza della giuria. Inoltre, la sentenza di appello non aveva preso in esame l’inefficacia di tale quadro legislativo e giurisprudenziale contro il rischio di un risarcimento eccessivo, e neppure aveva motivato con precisione le ragioni della rideterminazione della somma accordata. Infine, la lunghezza, i costi e la complessiva incertezza del procedimento e del suo esito vengono giudicati idonei a produrre un effetto deterrente sull’operato dei mezzi d’informazione.

Un altro caso concerne la diffusione di atti di un procedimento penale. Su un settimanale erano stati pubblicati alcuni articoli che prospettavano come una ricca e famosa donna d’affari fosse stata circuita da un amico a cui aveva elargito consistenti donazioni; a carico di quest’ultimo era stato aperto un procedimento penale, e gli articoli avevano riportato interi stralci delle dichiarazioni rese dall’indagato, dalla persona offesa e da un testimone durante le indagini prima che queste fossero lette in udienza pubblica. Il giornalista, il direttore e l’editore venivano condannati in sede civile al risarcimento dei danni morali patiti dagli eredi dell’imprenditrice e dall’indagato. La Corte di Strasburgo afferma che la limitazione del diritto di libertà tutelato dall’art. 10 Cedu è conforme alla legge sulla libertà di stampa, assolutamente prevedibile da professionisti esperti quali sono i ricorrenti, ed è finalizzata a tutelare la privacy e a garantire un procedimento penale imparziale: gli articoli, infatti, accusavano l’indagato in modo implicito ma chiaro, rischiando di influenzare il giudice ed altri potenziali testimoni. La C. eur. dir. uomo sottolinea che i giudici nazionali avrebbero potuto spiegare meglio perché in concreto deve essere considerato recessivo l’interesse dell’opinione pubblica ad essere informata di una vicenda molto nota, ma accetta le loro conclusioni anche su questo punto, escludendo pertanto la violazione del diritto alla libertà di stampa (sent. 1° giugno 2017, Giesbert e altri c. Francia).

Infine, la sent. 20 giugno 2017, Bayev e altri c. Russia riguarda la libertà di espressione a proposito di una legge che proibisce la promozione dell’omosessualità tra i minori con sanzioni amministrative, ma afferma alcuni principi che potrebbero applicarsi anche ad eventuali norme incriminatrici contenenti lo stesso divieto. I ricorrenti, tre attivisti per i diritti lgbt, erano stati sanzionati per aver manifestato di fronte ad edifici pubblici, alcuni dei quali frequentati da minorenni, con dei cartelli che affermavano la normalità dell’orientamento e delle relazioni omosessuali. La Corte di Strasburgo si chiede se la limitazione della libera espressione sia giustificata e, di riflesso, se la legge che la prevede sia necessaria. I giudici respingono l’argomento secondo cui la libertà di espressione sul tema dell’omosessualità metterebbe in pericolo i valori o la famiglia tradizionali, e ricordano che l’opinione della maggioranza della popolazione non può essere strumentale ad una contrazione dei diritti umani garantiti ai singoli o alle minoranze, ma solo ad un’espansione degli stessi. Ugualmente infondati sono il rischio per la salute dei minori (al contrario, la consapevolezza nell’ambito delle relazioni sessuali è ritenuta un fattore essenziale di prevenzione) e la convinzione che l’orientamento sessuale possa essere influenzato da quello altrui. La Corte europea sottolinea infine che la vaga formulazione della legge ne consente un’applicazione potenzialmente molto estesa, capace di limitare non solo l’attività di “propaganda”, ma la stessa vita pubblica delle persone omosessuali. Viene pertanto affermata la violazione dell’art. 10, poiché la normativa non ha altro effetto se non il rafforzamento dello stigma sociale e del pregiudizio, e comporta il rischio di incoraggiare l’omofobia. (Marco Mariotti)

 

g) Art. 4 Prot. 7 Cedu

Con riferimento al divieto di un secondo giudizio sul medesimo fatto, si segnala la sent. 13 giugno 2017, Šimkus c. Lituania, in cui è stata ravvisata una violazione dell’art. 4 Prot. n. 7 Cedu. Anzitutto, il procedimento amministrativo cui è stato sottoposto il ricorrente (per aver utilizzato un linguaggio scurrile in un ospedale pubblico) deve essere considerato “criminale” ai sensi del dettato convenzionale: la normativa interna prevede, invero, l’applicazione al soggetto responsabile di una pena pecuniaria o – alternativamente – di una pena detentiva breve. In secondo luogo, nel caso di specie si è verificata una duplice persecuzione, poiché il procedimento penale (per le ipotesi di minaccia e oltraggio nei confronti di un pubblico ufficiale) è proseguito anche successivamente alla definitiva conclusione di quello amministrativo–penale. Infine, la C. eur. dir. uomo ha ritenuto che le infrazioni contestate nei procedimenti nazionali traessero effettivamente origine dalle medesime circostanze fattuali. Per giungere a questa conclusione, la Corte di Strasburgo ha osservato che le condotte contestate al ricorrente nel procedimento amministrativo costituivano un sottoinsieme di quelle contemplate dal capo d’imputazione formulato dal pubblico ministero. Di conseguenza, da un lato, gli addebiti del procedimento penale comprendevano tutti i fatti materiali contestati in sede amministrativa e, dall’altro lato, nel procedimento amministrativo non si disputava di fatti estranei agli addebiti penalmente rilevanti. (Luca Pressacco)