18 luglio 2017 |
Monitoraggio Corte Edu maggio 2017
Rassegna di sentenze e decisioni della Corte Edu rilevanti in materia penale sostanziale e processuale
A cura di Francesco Viganò e Francesco Zacchè.
Tutti i provvedimenti citati sono agevolmente reperibili sul database ufficiale della Corte EDU.
Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, questo mese, da Silvia Bernardi (art. 2, 3, 10, 14 e 1 Prot. add. Cedu) e Paola Concolino (art. 5, 6, 8 Cedu).
a) Art. 2 Cedu
In materia di diritto alla vita può segnalarsi, questo mese, la sentenza del 4 maggio 2017, Mustafayev c. Azerbaijan, che ha origine dal ricorso proposto dal padre di un detenuto, condannato all’ergastolo, il quale era morto a causa di inalazioni di fumo e lesioni di primo e secondo grado provocate da un incendio improvvisamente scoppiato nella sua cella. A giudizio della Corte europea, integra una violazione dell’art. 2 Cedu sotto il profilo sostanziale – e in particolare una violazione dello stringente obbligo che grava sullo Stato di proteggere la vita delle persone sottoposte a detenzione – il fatto che le autorità interne avessero omesso di prestare efficaci e tempestivi soccorsi alla vittima, in quanto dagli atti si evinceva che tra il momento in cui il detenuto era stato tirato fuori dalla cella in fiamme, l’arrivo dei paramedici presso il carcere e il successivo trasporto in ospedale erano trascorse, nel complesso, più di otto ore. Oltre a ciò, i giudici europei riconoscono anche una violazione degli obblighi a carattere procedurale discendenti dall’art. 2 Cedu, rilevando che le indagini svolte dalle autorità nazionali in relazione alla morte del detenuto erano state del tutto inefficaci, non avevano in alcun modo ricercato le cause reali dell’incendio ed erano state subito interrotte senza rilevare nessuna responsabilità in capo all’istituto penitenziario e senza neanche coinvolgere e informare adeguatamente il padre della vittima.
Meritano poi un’ulteriore segnalazione due sentenze in materia di limiti stabiliti dalla Cedu alla possibilità di espulsione dello straniero, in ragione della possibile rilevanza dei principi di diritto in esse affermati anche nel contesto delle espulsioni disposte dal giudice penale.
In particolare, nella sentenza del 30 maggio 2017, A.I. c. Svizzera, la Corte europea ha riscontrato una potenziale violazione dell’art. 2 Cedu (oltre che dell’art. 3 Cedu) nell’ambito di un procedimento di espulsione avviato dallo Stato svizzero contro un cittadino sudanese. Nello specifico, il ricorrente, che nel Paese d’origine era un attivo membro di associazioni volte a promuovere i diritti delle minoranze e a combattere le discriminazioni in Darfur (ostili alle autorità governative sudanesi), giunto in Svizzera aveva inoltrato domanda di asilo politico; la sua richiesta era stata però rigettata dallo Stato svizzero, che ne aveva ordinato l’espulsione. Egli si è dunque rivolto alla Corte eur. dir. uomo, lamentando che l’esecuzione della decisione delle autorità svizzere lo avrebbe esposto al serio rischio di subire in patria gravi violazioni dei diritti tutelati dagli artt. 2 e 3 Cedu. Il ricorso, come già anticipato, è stato infine accolto: i giudici di Strasburgo hanno infatti considerato che l’intensa attività politica e umanitaria svolta dal ricorrente, proseguita anche durante il tempo di permanenza sul territorio svizzero, fosse effettivamente idonea a comportare un serio pericolo che costui, qualora costretto a rientrare in patria, potesse subire privazioni della libertà, torture o altre forme di persecuzione.
Sebbene identico sia il contesto, opposto è l’esito cui la Corte europea è giunta nella seconda sentenza, dello stesso 30 maggio 2017, N.A. c. Svizzera, in cui essa ha al contrario escluso la violazione degli artt. 2 e 3 Cedu, adducendo che il ricorrente, anch’egli cittadino sudanese, sebbene avesse in passato fatto parte di associazioni quali il “Justice and Equality Movement”, una volta in Svizzera aveva fortemente limitato il proprio impegno socio-politico; esso, di conseguenza, non poteva dirsi tale da poter plausibilmente attrarre l’attenzione delle autorità governative sudanesi su di lui, motivo per cui il suo rientro in Sudan non poteva ritenersi per lui pericoloso. (Silvia Bernardi)
b) Art. 3 Cedu
In relazione al divieto di tortura statuito dalla Convenzione, oltre alle già menzionate sentenze del 30 maggio 2017, N.A. c. Svizzera e A.I. c. Svizzera, si segnala altresì la pronuncia del 23 maggio 2017, Balsan c. Romania, in cui la Corte di Strasburgo riscontra una violazione degli obblighi positivi discendenti dall’art. 3 Cedu in un caso in cui le autorità nazionali avevano omesso di adottare tutte le misure ragionevolmente possibili per prevenire i maltrattamenti continuamente subiti dalla ricorrente a opera del marito, i quali erano sfociati in serie e gravi lesioni della sua integrità fisica e psichica. Nonostante i numerosi episodi di violenza avessero più volte richiesto l’intervento della polizia e fossero sfociati in lesioni certificate da reperti medici, infatti, le autorità giudiziarie avevano ritenuto che il caso non fosse di rilevanza penale e, disapplicando la normativa nazionale che puniva la violenza domestica, avevano irrogato al colpevole una mera sanzione amministrativa pecuniaria.
Nella pronuncia del medesimo 23 maggio 2017, Matiosaitis e a. c. Lituania, la Corte europea torna invece ad affrontare il problema delle pene detentive di durata perpetua, condannando la Lituania per aver violato l'art. 3 Cedu. In tale ordinamento, in effetti, l'inflizione dell'ergastolo non lascerebbe alcuna prospettiva di liberazione per gli ergastolani: non essendo ammessa la liberazione condizionale, in astratto è per loro possibile uscire dal carcere solo in caso di malattia terminale, per intervenuta amnistia, a seguito della conversione della pena in sede di revisione della condanna oppure in caso di grazia presidenziale. La Corte esclude che i primi tre strumenti siano di per sé idonei a garantire un effettivo "prospect of release", alla luce dei propri precedenti in materia, e si sofferma ad analizzare l'istituto della grazia presidenziale, il quale è a sua volta considerato rimedio insufficiente in ragione del fatto che un eventuale rigetto sarebbe privo di motivazione e altresì inappellabile. Nella sua valutazione, inoltre, i giudici europei prendono in considerazione anche le condizioni di isolamento degli ergastolani, che per lo più vivono confinati nelle proprie celle senza accedere a programmi trattamentali e senza avere contatti con gli altri prigionieri: simili condizioni, infatti, a loro giudizio contribuiscono a indebolire le opportunità concrete per i condannati di raggiungere e dimostrare un'effettiva riabilitazione.
Nella medesima materia si è pronunciata anche la Grande Camera, nella sentenza del 12 maggio 2017, Simeonovi c. Bulgaria, la quale ha condannato lo Stato convenuto per aver violato il divieto di trattamenti inumani e degradanti in relazione a un soggetto detenuto. Il ricorrente, condannato all’ergastolo, stava al contempo scontando la pena in regime detentivo speciale; la Grande Camera, confermando il giudizio già espresso dalla precedente Camera, ha ritenuto che le condizioni della detenzione – in virtù della quale egli trascorreva ventitré ore al giorno ristretto nella propria cella, in completa solitudine, con severe limitazioni anche con riguardo alla possibilità di frequentare la libreria o la chiesa dell’istituto – in congiunzione con il regime restrittivo cui era sottoposto e con la durata della stessa fossero tali da eccedere le sofferenze necessariamente connesse all’esecuzione di una pena detentiva e ammontassero dunque a trattamenti inumani e degradanti.
Sempre relativa a inumane condizioni di detenzione è la sentenza del 9 maggio 2017, Eriomenco c. Repubblica di Moldavia e Russia, con cui i giudici di Strasburgo accertano la violazione dell’art. 3 Cedu commessa dalla Russia (negando invece la sussistenza di una violazione da parte della Moldavia) in danno di un cittadino moldavo detenuto, il quale lamentava, tra l’altro, di aver subito un grave deterioramento del proprio stato di salute durante il periodo di permanenza in carcere e di non aver ricevuto a tal riguardo cure sufficienti, in quanto il trattamento ospedaliero intrapreso era stato subito interrotto per volere dell’amministrazione penitenziaria.
Riguarda invece episodi di tortura commessi dalla polizia nei confronti di tre cittadini russi la sentenza del 2 maggio 2017, Olisov e a. c. Russia, che ha a sua volta condannato lo Stato convenuto per la violazione degli obblighi negativi discendenti dall’articolo 3 Cedu. In tutti e tre i casi, la Corte europea ha riscontrato che i ricorrenti erano stati presi in custodia dalla polizia russa per un consistente periodo di tempo, ma nessun verbale inerente il loro arresto era stato prodotto; i ricorrenti, peraltro, adducevano che durante l’interrogatorio erano stati vittime di ripetuti maltrattamenti finalizzati a estorcere loro confessioni, riportando persino alcune lesioni: dichiarazioni che sono dalla Corte considerate credibili e idonee a far sorgere in capo allo Stato convenuto – stante, per l’appunto, l’assenza di qualsiasi documento idoneo a registrare le modalità con cui detti interrogatori si erano svolti – l’onore di fornire prove a proprio discarico. Le indagini che erano state successivamente condotte dalle autorità nazionali per accertare eventuali responsabilità degli organi di polizia, tuttavia, si erano rivelate inconsistenti, e dunque inadeguate rispetto agli standard imposti dalla Convenzione; né il Governo aveva fornito, nel giudizio in sede europea, elementi capaci di smentire quanto addotto dai ricorrenti. Di conseguenza, i giudici di Strasburgo considerano non assolto l’onere probatorio a suo carico, e condannano la Russia per l’accertata violazione.
Da ultimo, concerne una violazione degli obblighi procedurali discendenti dall’art. 3 Cedu la sentenza del 2 maggio 2017, B.V. c. Belgio. In questo caso, la Corte europea ha riscontrato che le indagini svolte dalle autorità nazionali in relazione a diversi episodi di molestie e violenze sessuali subite dalla ricorrente sul lavoro erano state largamente inadeguate, venendo archiviate plurime volte, nonostante le continue denunce e richieste di riapertura provenienti dalla donna, senza tuttavia che le autorità procedenti si preoccupassero mai di assicurare le fonti di prova, le quali, dopo diversi anni, erano divenute irrintracciabili. (Silvia Bernardi)
c) Art. 5 Cedu
In relazione al diritto alla libertà e alla sicurezza, si segnala la sent. 2 maggio 2017, Vasiliciuc c. Moldavia: la Corte europea ha dichiarato l’illegittimità di un mandato di arresto internazionale e l’arbitrarietà della detenzione patita dalla ricorrente in esecuzione di esso, in quanto il provvedimento è stato disposto dai giudici moldavi senza previamente accertare che la ricorrente – cittadina moldava e residente in Grecia – avesse effettivamente avuto conoscenza dell’esistenza di un procedimento penale a suo carico in Moldavia.
Il medesimo principio è stato violato dalla Russia nella sent. 9 maggio 2017, Eriomenco c. Russia e Moldavia. La sentenza si inserisce nella complessa vicenda politica della regione moldava della Transnistria, dove un gruppo di insurrezionalisti, sotto l’egida della Russia, hanno dichiarato l’indipendenza dell’intera regione, dando vita ad uno Stato non riconosciuto né dalla Moldavia, né dalla comunità internazionale. Posto che le circostanze di tale caso sono state oggetto di censura da parte della Corte europea anche sotto i profili del divieto di tortura (v. supra), del diritto al rispetto della vita privata e familiare (v. infra) e del diritto di proprietà (v. infra), i giudici di Strasburgo hanno condannato la Russia per la violazione dell’art. 5 Cedu, in quanto il ricorrente è stato sottoposto a detenzione in totale assenza di una base legale e da parte di autorità di uno Stato avente connotati che non riflettono una tradizione giudiziaria rispettosa dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali convenzionalmente tutelati.
Con riferimento al diritto ad essere tradotto al più presto dinnanzi ad un giudice, di cui all’art. 5 comma 3 Cedu, viene in rilievo la sent. 16 maggio 2017, Guner c. Turchia, con la quale i giudici di Strasburgo hanno condannato la Turchia perché al ricorrente, sottoposto a detenzione cautelare per oltre un anno, non è stato consentito di partecipare personalmente al procedimento avente ad oggetto la legittimità della misura reclusiva disposta nei suoi confronti. (Paola Concolino)
d) Art. 6 Cedu
In tema di diritto di esaminare o fare esaminare i testi a carico, la Corte ha accertato la violazione dell’art. 6 comma 3 lett. d) Cedu nell’omessa audizione di un teste essenziale per la difesa del ricorrente, imputato di tentato omicidio, e nel rifiuto da parte del giudice nazionale di sequestrare e visionare le videoriprese che avrebbero immortalato il fatto di reato contestato al ricorrente. Si tratta della sent. 9 maggio 2017, Poropat c. Slovenia.
Viceversa, si registrano altre due interessanti vicende in relazione alle quali i giudici di Strasburgo hanno escluso la violazione di tale principio.
Nella prima, sent. 9 maggio 2017, Murtazaliyeva c. Russia, la Corte ha dichiarato infondate le censure della ricorrente circa il rifiuto del giudice nazionale di esaminare tre testi a discarico perché la ricorrente non aveva adeguatamente rappresentato al giudice nazionale le ragioni per le quali il primo teste fosse essenziale e, quanto agli altri due testimoni non sentiti, la loro audizione non avrebbe comunque modificato l’esito del giudizio. Nella stessa sentenza, i giudici di Strasburgo hanno escluso la violazione dell’art. 6 comma 3 lett. b) Cedu: la ricorrente aveva lamentato delle difficoltà nel vedere lo schermo che proiettava le videoriprese fatte nei suoi confronti durante il periodo di sorveglianza antecedente l’arresto, ma dai verbali d’udienza non risulta che la ricorrente avesse manifestato tali difficoltà ai giudici nazionali
La seconda vicenda rispetto alla quale i giudici di Strasburgo hanno escluso la violazione del diritto di esaminare o fare esaminare i testi a carico riguarda la disciplina processuale della figura dell’agente sotto copertura (sent. 23 maggio 2017, Van Wesenbeeck c. Belgio).
La limitazione del diritto di difesa, consistita nella impossibilità per il ricorrente di sentire gli agenti sotto copertura in qualità di testimoni e nell’impiego ai fini della decisione delle dichiarazioni da questi precedentemente rese, è stata ritenuta dalla Corte europea bilanciata da adeguate garanzie, quali la supervisione della Divisione Indictment (organo imparziale a ciò preposto presso la corte d’appello) sull’identità degli agenti e sulla legittimità del loro operato, e la possibilità di acquisire altre testimonianze sulle medesime circostanze.
La sent. Van Wesenbeeck c. Belgio, è stata occasione per i giudici di Strasburgo di esprimersi, sempre con riguardo agli agenti sotto copertura, in tema di equità processuale, con specifico riferimento alla preclusione prevista dall’ordinamento belga nei confronti dell’imputato del diritto di accedere ad alcuni atti d’indagine, secretati per preservare l’identità degli agenti. Anche in questo caso, la limitazione del diritto di difesa è stata ritenuta dalla Corte giustificata e bilanciata dalla garanzia di supervisione da parte della Divisione Indictment, che ha accertato che la preclusione fosse limitata ai soli atti che realmente potevano mettere in pericolo la vita degli agenti sotto copertura.
Sul profilo del diritto all’assistenza di un difensore si evidenzia, infine, la Grande Camera, sent. 12 maggio 2017, Simeonovi c. Bulgaria: ad avviso dei giudici di Strasburgo, la mancanza del difensore durante i primi giorni di arresto del ricorrente – durante i quali egli non ha reso alcuna formale dichiarazione e alcun atto d’indagine è stato compiuto nei suoi confronti – non ha compromesso l’equità complessiva dell’intero procedimento, dal momento che in quel breve periodo (tre giorni) gli organi inquirenti non hanno conseguito alcun elemento suscettibile di essere utilizzato contro il ricorrente nel procedimento a suo carico (per la censura in tema di art. 3 Cedu, invece, v. supra). (Paola Concolino)
e) Art. 8 Cedu
In relazione al diritto alla vita privata e familiare, di particolare rilievo è la sent. 30 maggio 2017, Trabajo Rueda c. Spagna. La Corte ha accertato una violazione dell’art. 8 Cedu nella condotta di alcuni agenti di polizia che, dopo avere provveduto al sequestro del computer del ricorrente, vi avevano effettuato l’accesso pur in mancanza della necessaria autorizzazione da parte del giudice istruttore, anche se non sussistevano quelle ragioni di urgenza in presenza delle quali la legge nazionale consente agli agenti di intervenire senza il previo provvedimento autorizzativo, salvo successiva convalida dell’autorità giudiziaria.
Infine, con la sent. Eriomenco c. Russia e Moldavia (v. supra), la Corte europea ha condannato la Russia anche per la perquisizione domiciliare subita dal ricorrente da parte di forze armate dello Stato non riconosciuto della Transnistria, rispetto alla quale egli non ha neppure avuto la possibilità di un ricorso effettivo, nonché per l’illegittimo diniego del diritto alle visite da parte dei prossimi congiunti durante il periodo di detenzione. (Paola Concolino)
f) Art. 10 Cedu
In relazione all’art. 10 Cedu, e dunque in materia di libertà d’espressione, appare degna di nota la sentenza del 23 maggio 2017, Sarigul c. Turchia, relativa all’estrinsecazione di tale diritto da parte di un soggetto detenuto. Nello specifico, la Corte europea accerta una violazione della norma convenzionale in danno del ricorrente, che mentre si trovava ristretto in carcere aveva consegnato all’amministrazione penitenziaria un proprio manoscritto, con la finalità di farlo giungere, per mezzo del proprio avvocato, alla famiglia, che ne avrebbe curato la pubblicazione; il direttore dell’istituto, tuttavia, aveva ritenuto che il testo supportasse un’organizzazione illegale e fosse per vari motivi offensivo nei confronti della polizia e della morale comune, e lo aveva invece inviato alla commissione disciplinare. A giudizio dei giudici di Strasburgo, l’interferenza con la libertà di espressione del ricorrente doveva in questo caso dirsi illegittima, in quanto le norme dei regolamenti penitenziari che ne costituivano la base legale non definivano con sufficiente chiarezza la portata e le condizioni di esercizio del potere discrezionale da parte delle autorità nel campo in questione, non apparendo dunque idonee a soddisfare il paradigma di cui all’art. 10 Cedu, secondo comma.
Infine, la pronuncia del 4 maggio 2017, Traustason e a. c. Islanda, riguarda la vicenda di due redattori e un giornalista condannati dalle autorità giudiziarie interne per diffamazione per avere, nell’ambito di un servizio riguardante il fallimento di un’importante società locale, riportato erroneamente la notizia dell’apertura di indagini a carico degli amministratori della società in questione. La Corte di Strasburgo, nell’accertare la positiva esistenza di una violazione dell’art. 10 Cedu in loro danno, considera che le autorità nazionali non avevano adeguatamente valutato i parametri elaborati dalla giurisprudenza europea per bilanciare la libertà d’espressione dei ricorrenti con la tutela della reputazione della controparte: in particolare, stante il sicuro interesse per il pubblico della notizia in questione e la notorietà del soggetto della cui reputazione si trattava, il Governo non aveva dimostrato che i ricorrenti versassero in mala fede o comunque avessero mancato di controllare le fonti della notizia con la dovuta disciplina. (Silvia Bernardi)
g) Art. 14 Cedu
Nella già citata sentenza del 23 maggio 2017, Balsan c. Romania, la Corte europea ha riscontrato, in congiunzione alla violazione dell’arti. 3 Cedu (v. supra), anche una violazione dell’art. 14 Cedu, ritenendo che il comportamento inadempiente della autorità investigative e giudiziarie nazionali fosse il riflesso di un atteggiamento discriminatorio nei confronti della ricorrente come donna; l’episodio in questione, pertanto, si poneva come ulteriore riprova del complessivo disinteresse dello Stato convenuto rispetto alla repressione e prevenzione della violenza di genere, che faceva sì che la pur adeguata cornice sanzionatoria prevista a livello legislativo rimanesse sostanzialmente disapplicata a livello giudiziario. (Silvia Bernardi)
h) Art. 1 Prot. add. Cedu
In materia di tutela del diritto di proprietà, può ancora richiamarsi la già segnalata sentenza del 9 maggio 2017, Eriomenco c. Repubblica di Moldavia e Russia (v. supra), in cui la Corte europea riscontra altresì una violazione – commessa dalla Russia, mentre si nega l’esistenza di una violazione a carico della Moldavia – sotto il profilo dell’art. 1 Prot. add. Cedu. Assieme alla condanna a pena detentiva, infatti, nel caso di specie il ricorrente aveva subito anche la confisca della propria casa di abitazione e delle partecipazioni da lui detenute nella società nell’ambito della quale il reato era stato commesso; tale misura, tuttavia, a giudizio dei giudici europei rappresentava un’ingerenza nel diritto di proprietà del ricorrente non conforme ai parametri di cui alla citata norma convenzionale, in quanto appariva radicalmente priva di una qualsiasi base legale.
Nel caso oggetto della sentenza del 9 maggio 2017, Paduret c. Repubblica di Moldavia e Russia, invece, il ricorrente lamentava di aver subito l’illegittimo sequestro del proprio furgone e della merce ivi trasportata da parte delle autorità dell’autoproclamata “Repubblica Moldava di Transnistria”, nel cui possesso era rientrato solo dopo il pagamento di una multa. Anche in questo caso la Corte europea ha ritenuto che l’interferenza con il diritto di proprietà non fosse legittima secondo il diritto interno, in quanto verificatasi in assenza di una base legale. (Silvia Bernardi)