ISSN 2039-1676


09 aprile 2015 |

La difficile battaglia contro l'impunità dei responsabili di tortura: la sentenza della Corte di Strasburgo sui fatti della scuola Diaz e i tormenti del legislatore italiano

Corte EDU, IV sez., sent. 7 aprile 2015, Cestaro c. Italia, ric. n. 6884/11

 

1. Come ampiamente evidenziato da tutte le testate giornalistiche italiane, è finalmente arrivata la prima condanna della Corte EDU in relazione alle violenze perpetrate dalle forze di polizia italiane in occasione delle manifestazioni contro il G8 di Genova del 2001 (clicca qui per scaricare la sentenza, disponibile soltanto in lingua francese, e qui per scaricare il relativo comunicato stampa in lingua inglese o francese). Il caso di specie ora deciso a Strasburgo concerne un uomo sessantaduenne all'epoca dei fatti, rimasto gravemente ferito durante l'irruzione della polizia nella scuola Diaz; ma altre condanne sono a questo punto sicure, in considerazione dei numerosi ricorsi ancora pendenti relativi alle vicende della scuola Diaz nonché a quelle successive del carcere di Bolzaneto, oggetto le une e le altre delle minuziose ricostruzioni compiute nelle sentenze di merito e di legittimità pubblicate sulla nostra Rivista ed elencate nella colonna di destra di questa pagina.

 

2. Rinviando ai successivi contributi che saranno prestissimo pubblicati sulla nostra Rivista per più meditate analisi, conviene qui soltanto evidenziare schematicamente i punti salienti della decisione:

- le gravi violenze subite dal ricorrente alla testa, alle gambe e alle braccia mentre si trovava seduto contro il muro a braccia alzate furono totalmente gratuite, in assenza di prova di qualsiasi resistenza da parte dello stesso contro la polizia;

- anche a prescindere dalle ulteriori circostanze allegate dal ricorrente (posizioni umilianti, impossibilità di contattare avvocati o persone di fiducia, assenza di cure adeguate in tempo utile etc.), alle quali la Corte non ritiene necessario estendere l'esame, la violenza subita dal ricorrente integra gli estremi di una vera e propria tortura ai sensi dell'art. 3 CEDU, che si caratterizza - secondo la costante giurisprudenza della Corte - per il carattere particolarmente acuto delle sofferenze, fisiche e psichiche, inflitte alla vittima, nonché per il carattere intenzionale dell'inflizione di tali sofferenze (tale elemento dovendo dedursi, secondo la Corte, dalla strumentalità del pretesto di perquisire la scuola addotto dalla polizia, che mascherava invece una finalità punitiva dei manifestanti, nonché dalle menzogne successive finalizzate a simulare il ritrovamento di armi all'interno della scuola);

- lo Stato italiano non ha provveduto ad assicurare il ristoro della violazione dell'art. 3 CEDU subita dal ricorrente, ristoro che avrebbe potuto essere fornito soltanto mediante la punizione dei responsabili per i fatti di tortura commessi, a tal fine non risultando sufficiente la possibilità di un mero risarcimento di carattere pecuniario;

- in assenza di adeguato ristoro da parte dell'ordinamento nazionale, il ricorrente conserva dunque il proprio status di vittima della violazione ai sensi dell'art. 34 CEDU, con conseguente ammissibilità del suo ricorso (l'art. 34 subordinando per l'appunto tale ammissibilità, secondo la costante giurisprudenza della Corte, alla circostanza che chi abbia subito una violazione dei propri diritti convenzionali non abbia già ottenuto un adeguato ristoro a livello nazionale, e possa pertanto ancora essere considerato una 'vittima' di fronte alla Corte EDU);

- oltre che ammissibile, il ricorso è fondato, anzitutto sotto il profilo dell'allegata violazione degli obblighi sostanziali discendenti dall'art. 3 CEDU: ossia della violazione del divieto, posto a carico di tutti gli agenti pubblici, di praticare trattamenti costituenti tortura;

- il ricorso è altresì fondato sotto l'ulteriore e distinto profilo dell'allegata violazione degli obblighi procedurali discendenti dall'art. 3 CEDU, che impongono alle autorità statali di compiere indagini diligenti su tutti i casi sospetti di trattamenti contrari all'art. 3 CEDU, idonee in ogni caso a pervenire all'individuazione, alla persecuzione e alla condanna ad una pena proporzionata di chi sia riconosciuto responsabile di tali trattamenti;

- nel caso di specie, invero, nessuna negligenza è rimproverabile a carico delle autorità inquirenti, e in particolare della Procura di Genova, né a carico del sistema giudiziario italiano nel suo complesso: per quanto siano stati necessari più di dieci anni perché potesse essere pronunciata una sentenza definitiva, la Corte sottolinea come la pubblica accusa abbia dovuto affrontare ostacoli importanti durante l'inchiesta, e come il processo sia svolto in condizioni di estrema difficoltà, con decine di imputati e centinaia di parti civili, "al fine di stabilire, nel rispetto delle garanzie di un giusto processo, le responsabilità di individuali di un episodio di violenza poliziesca che lo stesso Governo resistente ha quali ficato come eccezionale"(§ 223);  

- nemmeno può rimproverarsi alle autorità giudiziarie di avere utilizzato un'indebita clemenza nei confronti degli imputati, come spesso accade in questi casi, le giurisdizioni di merito e di legittimità avendo invece dato prova - secondo la Corte - di "fermezza esemplare", escludendo qualsiasi giustificazione o scusa in favore delle forze di polizia;

- tuttavia, un primo profilo di violazione degli obblighi procedurali è individuato dalla Corte nella mancata cooperazione della polizia italiana con le autorità inquirenti nell'identificazione degli agenti e degli ufficiali che materialmente eseguirono le violenze;

- inoltre, il Governo italiano non è stato in grado di fornire informazioni alla Corte circa la (doverosa) sospensione del servizio dei responsabili delle torture: dal che un secondo profilo di violazione degli obblighi procedurali;

- infine, e soprattutto, la mancata punizione dei responsabili individuati dalla Procura di Genova e dalle autorità giurisdizionali italiane (salvo che, paradossalmente, per i delitti di falso commessi per occultare i precedenti fatti di tortura) dipende dall'inadeguatezza del quadro giuridico di repressione della tortura nell'ordinamento italiano, che - in assenza di una norma incriminatrice ad hoc dei fatti di tortura - ha fatto sì che gli autori di condotte contrarie all'art. 3 CEDU, qualificate semplicemente come reati comuni di lesioni, percosse, violenza privata, abuso d'ufficio etc., abbiano potuto beneficiare dei brevi termini di prescrizione previsti per tali reati, nonché dei benefici garantiti dall'ultimo provvedimento di indulto di cui alla legge n. 241/2006, con l'effetto pratico di sottrarsi ad ogni sanzione;

- rilevato così un difetto strutturale nell'ordinamento giuridico italiano, la Corte osserva che in assenza di un trattamento penale appropriato di tutti i trattamenti vietati dall'art. 3 CEDU, la prescrizione così come oggi regolata dagli artt. 157 ss. c.p.  - ed eventuali provvedimenti di indulto come quello di cui alla citata legge n. 241/2006 - possono impedire in pratica ogni punizione non solo dei responsabili di atti di tortura, ma anche degli autori di trattamenti inumani e degradanti, nonostante tutti gli sforzi compiuti dalle autorità inquirenti e giurisdizionali (§ 242);

-  conseguentemente, la Corte afferma - in sede di determinazione delle "misure generali" cui il nostro Paese è tenuto, onde porre riparo alle conseguenze dell'accertata violazione, e che si aggiungono all'obbligo di corrispondere un'equa indennità (fissata in 45.000 euro) in favore del singolo ricorrente - la necessità "che l'ordinamento giuridico italiano si munisca di strumenti giuridici idonei a sanzionare in maniera adeguata i responsabili di atti di tortura o di altri trattamenti vietati dall'art. 3 e ad impedire che costoro possano beneficiare di benefici incompatibili con la giurisprudenza della Corte" [e cioè della prescrizione e/o dell'indulto] (§ 246).

 

3. Scontato, per chi conosca la giurisprudenza della Corte, l'esito del caso, il cui unico aspetto realmente interessante concerneva la possibilità di qualificare come "tortura" - e non come mero trattamento inumano e/o degradante - l'uso sproporzionato della forza durante un'operazione di ordine pubblico come l'irruzione nella scuola Diaz. Del resto, tutti i passaggi fondamentali dell'odierna pronuncia sin qui riferiti erano stati prefigurati in termini esattamente sovrapponibili sin dal 2009 nel pioneristico lavoro di A. Colella, C'è un giudice a Strasburgo. In margine alle sentenze sui fatti della Diaz e di Bolzaneto: l'inadeguatezza del quadro normativo italiano in tema di repressione penale della tortura, in Riv. it. dir. proc. pen., 2009, pp. 1801 ss., che sarebbe davvero istruttivo rileggere oggi alla luce della sentenza della Corte.

Il problema che ora si spalanca per l'ordinamento italiano, di fronte alla condanna pronunciata dalla Corte (con tanto di "misura generale" espressamente enunciata) e alla prospettiva praticamente certa di una pioggia di ulteriori condanne, è però quello di come adempiere all'obbligo di dotarsi degli strumenti giuridici idonei a sanzionare in maniera adeguata i responsabili di atti vietati dall'art. 3 CEDU. Compito a questo punto ineludibile, ma tecnicamente non facile (ed è bene rammentarlo, al fine di tenere a bada gli entusiasmi che sempre si scatenano presso la nostra classe politica in conseguenza di notizie di grande impatto mediatico).

Dopo che, lo scorso 5 marzo 2014, il Senato aveva approvato in prima lettura un disegno di legge recante "Introduzione del delitto di tortura nell'ordinamento italiano", lo scorso 23 marzo 2015 è iniziata in aula della Camera la discussione della proposta di legge n. 2168, risultante dall'unificazione del disegno di legge già approvato dal Senato e una serie di altre proposte di legge presentate alla Camera (clicca qui per accedere alla scheda ufficiale relativa alla discussione in assemblea, con le relative trascrizioni).

Il testo ora in discussione è notevolmente diverso da quello approvato dal Senato, essendo stato oggetto di una incisiva rielaborazione durante l'esame da parte della Commissione, nel corso del quale anche chi scrive aveva avuto modo di formulare una serie di osservazioni (clicca qui per scaricare la relativa relazione scritta depositata in Commissione). Per un sintetico riepilogo dello stato della discussione e di alcune questioni ancora aperte, in vista dell'esame dell'assemblea, cfr. comunque il dossier ufficiale predisposto dalla Camera (clicca qui per scaricarlo).

Avendo già espresso il mio parere sul tema nella relazione appena citata (nella quale avevo anche provato a formulare una proposta di articolato), mi pare qui soltanto il caso di evidenziare che la versione ora sottoposta all'assemblea della Camera - pur considerevolmente migliorata rispetto a quella approvata dal Senato - risulterebbe inapplicabile proprio a casi come quello della scuola Diaz, che la Corte EDU inquadra oggi all'unanimità entro la nozione di tortura. In effetti, la norma ora all'esame circoscrive l'ambito dei soggetti passivi alle persone affidate all'agente, o comunque sottoposte alla sua autorità, vigilanza o custodia, escludendo così la possibilità di riconoscere la sussistenza del delitto nell'ipotesi di gravi violenze, gratuitamente finalizzate a provocare sofferenza nelle vittime, compiute dalle forze di polizia nell'ambito di operazioni di ordine pubblico prima che le vittime medesime siano tratte in arresto. Il requisito merita, quindi, di essere senz'altro eliminato, risultando tra l'altro incongruente con gli obblighi posti dalla Convenzione ONU sulla tortura del 1984, ancora rimasti inadempiuti da parte dell'Italia.

Una volta approvato dalla Camera, il testo dovrà comunque tornare al Senato per la definitiva approvazione, che tutti auspichiamo sollecita, ma al tempo stesso debitamente meditata. E ciò ad evitare che - quasi vent'anni dopo la ratifica della citata Convenzione ONU - l'ansia di ottemperare al più presto alla sentenza di Strasburgo, e di mostrare la sacrosanta volontà di passare dalle parole ai fatti, possa produrre più danni che benefici: come sarebbe verosimilmente accaduto se la Camera avesse ratificato senza modifiche il testo già approvato al Senato.