ISSN 2039-1676


03 ottobre 2018 |

Monitoraggio Corte EDU maggio 2018

Rassegna di sentenze e decisioni della Corte EDU rilevanti in materia penale sostanziale e processuale.

A cura di Francesco Viganò e Francesco Zacchè.

Tutti i provvedimenti citati sono agevolmente reperibili sul database ufficiale della Corte EDU.

Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, questo mese, da Giulia Mentasti (artt. 3, 10 e 13 Cedu) e Stefania Basilico (artt. 5, 6 e 8 Cedu).

 

a) Art. 3 Cedu

Per quanto riguarda il mese di maggio 2018, tre sentenze della Corte di Strasburgo interessano l’art. 3 Cedu. Particolare attenzione merita la sent. 31 maggio 2018, Abu Zubaydah c. Lituania riguardante il caso di un apolide di origine palestinese, Zayn Al-Abidin Muhammad Husayn, alias Abu Zubaydah, che ha accusato la Lituania di aver consentito a che l’Agenzia di Intelligence statunitense (CIA) lo trasportasse in territorio lituano e lì lo trattenesse – con un programma di extraordinary renditions – in un carcere segreto (cd. «black site»). All’interno di tale carcere, gestito dalla CIA, il ricorrente, arbitrariamente detenuto, ha poi subito maltrattamenti. Abu Zubaydah era stato catturato nel 2002 in Pakistan dalle autorità statunitensi in quanto considerato uno dei vertici di Al-Qaeda e organizzatore degli attentati dell’11 settembre 2001. All’indomani dell’inizio della «war on terror», Abu Zubaydah è stato il primo dei «detenuti di alto valore» (high-value detainee, HVD) catturato e trattenuto dalla CIA. Analizzate le necessarie informazioni grazie alla desecretazione di un documento redatto da una Commissione del Senato statunitense, la Corte di Strasburgo ha ritenuto – all’unanimità – che nei confronti di Abu Zubaydah, a tutt’oggi trattenuto sotto stretta sorveglianza presso il carcere di Guantanamo, la Lituania avesse violato il disposto dell’art. 3 Cedu. In particolare, tale violazione si è concretizzata: da un lato, nel venir meno all’obbligo positivo di protezione che imponeva allo Stato di assicurare il rispetto dei diritti garantiti dalla Cedu impedendo che sul proprio territorio nazionale venisse ospitata una prigione segreta della CIA, quale quella al cui interno il ricorrente è stato illegittimamente detenuto e sottoposto a trattamenti che le autorità del Paese ben sapevano contrarie ai dettami della Convenzione; dall’altro lato nella violazione dell’obbligo negativo discendente dall’art. 3 Cedu che le richiedeva di non acconsentire al trasferimento di Abu Zubaydah in un altro centro segreto della CIA in Afghanistan, esponendolo così al rischio di ulteriori trattamenti inumani e degradanti. 

Nello stesso giorno, con la sent. Al Nashiri c. Romania, la C. eur. dir. uomo ha riconosciuto la violazione dell’art. 3 Cedu, questa volta da parte della Romania, per un caso analogo a quello appena esaminato. Abd Al Rahim Husseyn Muhammad Al Nashiri, un altro soggetto catturato e detenuto dalla CIA, ha fatto ricorso alla Corte EDU per essere stato illegalmente trattenuto dal settembre 2003 al novembre 2005 presso un altro «black site», questa volta collocato in Romania. Anche nel caso Al Nashiri – tuttora sottoposto a giudizio in merito alla partecipazione a due attentati nel Golfo di Aden, per i quali la pubblica accusa statunitense ha chiesto la pena di morte – il ragionamento della Corte di Strasburgo è stato il medesimo: la Romania si è resa responsabile della violazione dell’art. 3 Cedu per aver consapevolmente concesso all’Agenzia di Intelligence statunitense di istituire e mantenere un centro di detenzione straordinaria sul proprio territorio nazionale all’interno del quale le autorità rumene erano consapevoli che i detenuti, come Al Nashiri, avrebbero subito, per mano degli agenti della CIA ma trovandosi sotto la giurisdizione rumena, trattamenti inumani e degradanti. Anche in questo caso, poi, la violazione dell’art. 3 è stata altresì integrata dalla mancata opposizione della Romania al trasferimento di Al Nashiri, dopo 18 mesi di detenzione illegale nel black site rumeno, in un altro centro di detenzione sito in Afghanistan, dove il ricorrente ha subito, nella consapevolezza delle autorità rumene, ulteriori maltrattamenti. 

Ancora in tema di art. 3 Cedu, la sent. 29 maggio 2018, Pocasovschi c. Repubblica di Moldavia e Russia riscontra una violazione di detto articolo in relazione alle condizioni di detenzione. Il caso di specie è relativo a due cittadini moldavi che hanno scontato la propria sentenza di condanna presso la prigione n. 8 nella città di Tighina (Bender) nella regione della Transnistria, sita all’interno della Repubblica di Moldavia e tuttavia collocata sotto il controllo dell’autoproclamata Repubblica Moldava di Transnistria. Nel 2002 l’amministrazione di Tighina, subordinata agli ordini dei separatisti della Transnistria, ha privato la prigione n. 8 e i suoi detenuti dell’energia elettrica, dell’acqua e del riscaldamento. Tale condizione si è protratta fino al mese di febbraio 2003 per poi ripetersi una seconda volta a partire dal mese di luglio 2003. Le motivazioni di tale gesto erano sempre le medesime: secondo i separatisti della Transnistria la prigione doveva essere chiusa. I ricorrenti, i signori Pocasovschi e Mihăilă – entrambi affetti da tubercolosi – sono rimasti nella prigione n. 8 per tutto il periodo di assenza di acqua, energia e riscaldamento venendo trasferiti ad altre prigioni solamente nel settembre e nel marzo del 2004. . La Corte Edu ha rilevato la responsabilità della Repubblica di Moldavia dal momento che, per quanto in un territorio controllato dall’autoproclamata Repubblica Moldava di Transnistria, la prigione n. 8 della città di Bender era sotto il controllo sostanziale ed effettivo del governo moldavo. La Moldavia, pertanto, scegliendo consapevolmente di continuare a trattenere i detenuti – nonostante le condizioni inumane e degradanti venutesi a creare nella prigione all’indomani dello stacco di acqua, energia e riscaldamento –  e pur potendoli trasferire presso altre prigioni, si è resa responsabile di una violazione dell’art. 3 Cedu. (Giulia Mentasti)

 

b) Art. 5 Cedu

In merito al diritto alla libertà e alla sicurezza, si segnala la sent. 22 maggio 2018, Gafà c. Malta. Nella vicenda in questione, detenuto il ricorrente in via cautelare, le autorità nazionali hanno fissato l’importo della cauzione per la sua liberazione in una misura sproporzionata rispetto alle condizioni economiche dello stesso, costringendolo così a presentare plurime istanze volte ad ottenere una riduzione di detto importo. Nonostante la tempestività delle istanze del ricorrente, la detenzione si è prolungata per un anno intero: circostanza che, secondo i giudici di Strasburgo, ha determinato una lesione del diritto alla libertà del ricorrente ai sensi dell’art. 5 comma 3 Cedu.

L’art. 5 Cedu viene in rilievo anche nelle sent. 31 maggio 2018, Abu Zubaydah c. LituaniaAl Nashiri c. Romania. Nei casi in esame, il ricorrente è stato sottoposto alla misura della detenzione segreta da parte della Cia, in quanto sospettato di aver posto, e di poter porre in essere, atti di terrorismo. A parere dei Giudici di Strasburgo, la limitazione della libertà personale del ricorrente è stata del tutto arbitraria, e, dunque, illegittima, in quanto il carattere di segretezza della detenzione ha precluso l’imprescindibile salvaguardia dal rischio di sparizione e di tortura. (Stefania Basilico)

 

c) Art. 6 Cedu

Sul versante dell’equità processuale, si segnala la sent. 15 maggio 2018, Virgil Dan Vasile c. Romania, relativa al tema dell’acquisto simulato di droga da parte di agenti di polizia e quindi, più in generale, la materia dell’attività sotto copertura. Nel considerare non violato l’art. 6 comma 1 Cedu, i Giudici di Strasburgo hanno delineato il confinetra ciò che costituisce istigazione a delinquere e ciò che, invece, rappresenta una tecnica investigativa legittima, affermando in particolare che la seconda possa ritenersi sussistente solo ove gli agenti, nel loro operare, tengano condotte sostanzialmente passive, come avvenuto nel caso di specie.

La pronuncia in esame offre il fianco ai Giudici di Strasburgo per pronunciarsi anche in materia di diritto al contraddittorio e, in particolare, sul tema della “testimonianza dell’assente”: nessuna violazione dell’art. 6 comma 3 lett. Cedu è stata ravvisata nella specie dalla Corte, posto che l’agente sotto copertura non ha potuto rendere la propria testimonianza per legittimo impedimento e la condanna del ricorrente si è basata su altre prove decisive.

Tra le diverse sentenze della C. eur. dir. uomo in materia di accesso alla giurisdizione, si menziona la sent. 22 maggio 2018, Hysi c. Albania, nella quale i Giudici di Strasburgo hanno riscontrato la violazione dell’art. 6 comma 1 Cedu sotto un duplice profilo. Da una parte, in quanto il ricorrente era stato condannato in contumacia senza che fosse mai stato informato del procedimento a suo carico. Dall’altra, in quanto i giudici di appello in sentenza hanno ripercorso pedissequamente i ragionamenti dei giudici di primo grado senza valutare l’effettiva fondatezza dell’accusa, e, inoltre, hanno affermato che il ricorrente non avesse mai presentato istanze istruttorie dopo averle, in realtà, rigettate.

Di contro, nessuna violazione è stata riscontrata dal Giudici di Strasburgo, in materia di diritto di difesa, nella sent. 22 maggio 2018, Svetina c. Slovenia. Nella vicenda in questione, infatti, da una parte il ricorrente ha lamentato l’inutilizzabilità dei dati ottenuti dall’ispezione del suo cellulare da parte delle autorità nazionali senza però contestarne la veridicità od opporsi formalmente al loro utilizzo; dall’altra, nel corso dell’intero procedimento, sono state osservate adeguate garanzie procedurali e la condanna si è fondata su altre prove: il diritto di difesa del ricorrente ha trovato quindi piena tutela. (Stefania Basilico)

 

d) Art. 8 Cedu

Per quanto concerne il diritto al rispetto della vita privata, si segnala la sent. 17 maggio 2018, Wolland c. Norvegia. Nella specie, il ricorrente ha lamentato la violazione dell’art. 8 Cedu in quanto, a suo dire, la perquisizione del suo ufficio ed il sequestro di documenti sia informatici che cartacei da parte delle autorità nazionali, è stata del tutto arbitraria. Di contro, la C. eur. dir. uomo non ha ravvisato alcuna lesione del diritto azionato, posto che, nel caso concreto, le autorità nazionali hanno agito sulla base di un ragionevole sospetto di commissione del reato e, quindi, hanno posto in essere un’interferenza nella vita privata del ricorrente conforme alla legge. Neppure le doglianze in merito alle lungaggini procedimentali vengono accolte dai Giudici di Strasburgo, i quali, infatti, considerate le stesse giustificate dalla mole dei documenti da esaminare, hanno ritenuto l’interferenza in questione necessaria in una società democratica.

Una violazione dell’art. 8 Cedu è stata riscontrata invece dai Giudici di Strasburgo nella sent. 24 maggio 2018, Laurent c. Francia, relativa a un caso di sequestro della corrispondenza intercorsa tra il ricorrente, avvocato, ed il suo cliente detenuto.

Nel dettaglio, la C. eur. dir. uomo non ha considerato rispettato il canone convenzionale in quanto le autorità nazionali, avendo proceduto col sequestro in mancanza di elementi su cui fondare un ragionevole sospetto di attività illecita, hanno posto in essere un’interferenza non necessaria in una società democratica.

L’art. 8 Cedu, con specifico riguardo al diritto al rispetto della vita familiare, viene in rilievo anche nelle citate sent. 31 maggio 2018, Abu Zubaydah c. LituaniaAl Nashiri c. Romania. Nella specie, il ricorrente, in occasione della sua detenzione segreta ad opera della Cia, è stato privato della possibilità di contattare la propria famiglia per tutto il tempo della illegittima limitazione della propria libertà personale. Da qui, l’accoglimento ad opera dei Giudici di Strasburgo delle sue doglianze che, infatti, in entrambi i casi, hanno riscontrato una violazione del paradigma convenzionale in esame. (Stefania Basilico)

 

e) Art. 10 Cedu

In materia di libertà di espressione merita di essere segnalata la sent. 9 maggio 2018, Stomakhin c. Russia: nel caso di specie il ricorrente – direttore responsabile, editore e distributore di una newsletter mensile – accusato di istigare, tra il 2000 e il 2004, ad attività estremistiche e terroristiche, di glorificare gli atti compiuti dai terroristi ceceni e di istigare all’odio razziale e nazionale nei confronti dei Russi, è stato condannato – con sentenza confermata anche in grado di appello – a cinque anni di reclusione con divieto di esercizio della professione di giornalista per tre anni. La Corte di Strasburgo ha affrontato il caso suddividendo, innanzitutto, in tre gruppi distinti le affermazioni scritte e pubblicate dal signor Stomakhin.  Nel primo sono state riunite le dichiarazioni con le quali aveva giustificato il terrorismo, denigrato gli appartenenti alle forze armate russe (esponendoli al rischio di divenire bersagli di futuri attacchi) e, infine, elogiato i leader ceceni che incitavano alla violenza. La C. eur. dir. uomo ha ritenuto che tali affermazioni fossero andate oltre i limiti del consentito diritto di critica («limits of acceptable criticism»), reputando quindi adeguata la risposta sanzionatoria del giudice russo. Nel secondo gruppo sono state raggruppate le istigazioni all’odio e all’ostilità nei confronti dei fedeli ortodossi e dei russi. Anche qui, la valutazione della corte russa è stata giudicata pertinente e sufficiente («relevant and sufficient»). La C. eur. dir. uomo ha infatti affermato che, con riferimento ai primi due gruppi di affermazioni, l’interferenza con la libertà di espressione del ricorrente fosse stata correttamente limitata da una pressante esigenza («pressing social need») di tutelare i diritti altrui, oltre che la sicurezza nazionale. La violazione dell’art. 10 Cedu è, pertanto, scaturita dall’analisi del terzo e ultimo gruppo. In esso erano ricomprese sia alcune frasi di Stomakhin riferite alla guerra – che a giudizio della Corte Edu non avevano superato i limiti del diritto di critica – sia alcune affermazioni riferite agli appartenenti alle forze armate russe che i giudici nazionali, nota la C. eur. dir. uomo, avevano estrapolato dal contesto. In particolare, il ricorrente Stomakhin era stato condannato per aver incitato all’odio nei confronti degli ufficiali delle forze russe quando, invece, egli si era limitato a commentare – seppur con termini forti – l’assoluzione di un ufficiale che aveva strangolato e ucciso una donna cecena. Con riferimento a quest’ultimo gruppo di affermazioni, nota la C. eur. dir. uomo, la limitazione della libertà di espressione del ricorrente – perlopiù fondata sulla personalità di Stomakhin e sulla sua presunta pericolosità sociale –  non è mai stata adeguatamente giustificata dalle corti russe dal momento che le ragioni addotte, per quanto rilevanti, non potevano essere considerate sufficienti a giustificare né la limitazione del diritto garantito né la severità della sanzione imposta. Nel riscontrare, infatti, la violazione dell’art. 10 Cedu da parte della Russia, la C. eur. dir. uomo ha evidenziato che le argomentazioni delle corti russe non erano sufficienti a giustificare né, tout court, una sanzione –  non potendo essere consentita in uno stato democratico in assenza di un «pressing social need» una così ampia interferenza nella libertà di espressione dei cittadini – né tantomeno una pena della severità di quella inflitta, sproporzionata sia con riferimento alla effettiva esigenza di protezione dei diritti altrui e della sicurezza nazionale, sia rispetto alla limitata capacità di diffusione della newsletter. (Giulia Mentasti)

 

f) Art. 13 Cedu

In alcuni dei casi precedentemente visti è stata altresì ravvisata dalla Corte la violazione dell’art. 13 Cedu, volto alla tutela del diritto a un ricorso effettivo davanti a una corte nazionale nel caso di violazione di uno o più diritti e libertà riconosciuti dalla Convenzione. 

Nello specifico, nel caso Pocasovschi e Mihaila c. Repubblica di Moldavia e Russia la Corte EDU ha ritenuto sussistente anche una violazione dell’art. 13 Cedu con riferimento unicamente alla posizione di Pocasovschi. Richiamata, infatti, la precedente giurisprudenza con la quale era stato affermato che il rimedio meramente compensatorio – quale quello offerto dal Governo moldavo – non fosse effettivo nei casi in cui il soggetto fosse ancora detenuto al momento del ricorso alla Corte EDU, poiché non ne avrebbe potuto migliorare le condizioni di detenzione, la C. eur. dir. uomo ha ritenuto sussistente nei confronti di Pocasovschi una violazione di detto articolo della Convenzione (in connessione con l’art. 3 Cedu), essendo stato il ricorrente ancora detenuto presso la prigione n. 8 il 15 marzo 2004, data della presentazione del ricorso. Lo stesso, invece, non può dirsi per il signor Mihaila che, essendo stato trasferito in un’altra prigione il 1marzo 2004, al momento della presentazione del ricorso non poteva più chiedere un miglioramento delle proprie condizioni detentive ma solo un mero riconoscimento della violazione dei propri diritti e un conseguente risarcimento, entrambi accordatigli dalla legge moldava.  

Da ultimo, una violazione dell’art. 13 Cedu è stata riscontrata anche nelle sentenze Abu Zubaydah c. LituaniaAl Nashiri c. Romanianelle quali, con argomentazioni anche da questo punto di vista sovrapponibili, tale articolo è stato violato sia dalla Lituania che dalla Romania in connessione con l’art. 3 della Convenzione. In entrambi i casi, infatti, le investigazioni portate avanti dai due stati in merito a quanto accaduto nei centri di detenzione gestiti dalla CIA all’interno dei loro territori nazionali, si sono rivelate inferiori agli standard di effettività («thorough and effective investigation») richiesti dalla Convenzione. La Lituania, solo all’indomani della denuncia della presenza di black sites sul proprio territorio da parte dei media internazionali, ha avviato un’inchiesta parlamentare dalla quale è emerso che tra il 2004 e il 2006 aerei della CIA erano atterrati in Lituania e che la CIA e l’agenzia di intelligence nazionale aveva collaborato alla ricostruzione di due strutture. Il parlamento, tuttavia, non è riuscito a scoprire se alcun detenuto fosse mai stato trasportato a bordo degli aerei o trattenuto in tali strutture. Anche la Romania, a seguito di una denuncia del Washington Post, ha avviato un’inchiesta parlamentare nel 2005 che, volta ad indagare la presenza di una prigione gestita dalla CIA sul proprio territorio, ha dato, nel 2007, una risposta negativa. Oggi, a seguito del ricorso alla Corte di Strasburgo di Al Nashiri, è in corso un’indagine volta al riconoscimento di eventuali responsabilità. Alla luce di tali poco fruttuose indagini, la Corte di Strasburgo ha ritenuto che sia il signor Abu Zubaydah che il signor Al Nashiri siano stati privati, rispettivamente dalla Lituania e dalla Romania, di un effettivo rimedio per il riconoscimento della violazione dei diritti loro riconosciuti dall’art. 3 della Convenzione. (Giulia Mentasti)