ISSN 2039-1676


20 settembre 2011 |

Sul significato di opere non autorizzate su beni paesaggistici

A proposito di Cass. pen., sez. III, 8.6.2011 (dep. 18.7.2011), n. 28227, Pres. Ferrua, Est. Ramacci

La sentenza che può leggersi in allegato contribuisce a chiarire il significato di “Opere eseguite in assenza di autorizzazione o in difformità da essa” (art. 181 D. Lgs. 42/2004, Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio), esemplificandone un caso e correlativamente ponendo il seguente principio: «La destinazione a parcheggio di un’area sottoposta a vincolo paesaggistico, mediante la rimozione della vegetazione e dello strato superficiale del terreno con predisposizione di spazi destinati alla sosta di autovetture, incidendo sull’aspetto esteriore dell’area medesima, soggetta a speciale protezione e comportando comunque una destinazione della stessa diversa da quella originaria, richiede la preventiva autorizzazione paesaggistica in assenza della quale è configurabile il reato previsto e punito dall’art. 181 D.Lv. 42/2004».
 
La sentenza definisce il reato come “formale e di pericolo”. Si tratta di una formula a cui ricorre spesso la giurisprudenza per identificare le (numerose) fattispecie di pericolo astratto fondate sullo schema autorizzativo. In questi reati il centro è la mancanza di autorizzazione. Le condotte sono punite sulla base di tale presupposto, a prescindere dalla circostanza che al bene sia stato arrecato un danno, e anche indipendentemente dalla sussistenza di una concreta messa in pericolo del bene: secondo la tecnica del pericolo astratto – che oggi pare trovare una non nuova legittimazione col c.d. principio di precauzione – il legislatore ravvisa nelle condotte non autorizzate una “intrinseca pericolosità” per il bene, o, detto altrimenti, la “produzione di un rischio” per esso. È innegabile però che questa tecnica possa alla fine risolversi, anziché nella tutela del bene finale (qui il paesaggio), piuttosto nel rafforzamento del sistema amministrativo di gestione e conservazione: che si arrivi insomma a una tutela penale in funzione sanzionatoria del regime amministrativo dell’autorizzazione. Alla giurisprudenza e alla dottrina spetta dunque il compito di razionalizzarecon rigorosi accertamenti empiriciil giudizio di pericolo cristallizzato nella norma.
 
Per delimitare la condotta vietata nella fattispecie dell’art. 181 D. Lgs. 42/2004 aiutano poco le disposizioni del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio. In esso semplicemente si dice cosa certamente sui beni paesaggistici non si può fare: ovviamente, distruggerli o introdurvi modificazioni che rechino pregiudizio a ai valori tutelati (art. 146 comma 1); così come d’altro canto si descrivono le condotte consentite in ragione della loro scarsa rilevanza: p. es. interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di consolidamento statico e di restauro conservativo, «che non alterino lo stato dei luoghi e l'aspetto esteriore» (art. 149 comma 1 lett. a). Tutti gli altri lavori, in virtù della loro astratta idoneità a ledere il bene giuridico tutelato, devono essere sottoposti ad autorizzazione, in mancanza della quale vi è reato. La gamma di interventi da sottoporre ad autorizzazione è dunque amplissima. La giurisprudenza ha individuato l’intrinseca pericolosità della condotta innanzitutto nella alterazione dello stato dei luoghi (il che già si ricava dall’art. 149 D. Lgs. 42/2004, prima citato), e poi comprendendo in tale astratta pericolosità per il bene tutelato anche l’utilizzazione dell’area vincolata in senso non conforme all’originaria destinazione (anche se in realtà manca per i beni paesaggistici una fattispecie analoga a quella – “uso illecito”: art. 170 D. Lgs. 42/2004 – che in tema di beni culturali punisce le deviazioni funzionali nell’utilizzo dei beni protetti).  La sentenza allegata richiama precedenti pronunce della stessa Corte che avevano ritenuto rilevanti sotto il profilo paesaggistico interventi quali ad esempio la realizzazione di un campo da golf eseguita mediante livellamento del terreno, l’abbassamento del livello di una strada vicinale, e appunto, come precedente specifico, proprio la realizzazione di un parcheggio mediante spandimento sul terreno di materiale tufaceo. Ma il richiamo avrebbe potuto essere anche più ampio, dato che la giurisprudenza ha riconosciuto l’astratta pericolosità per il bene paesaggistico di strutture non solo mobili ma anche stagionali, come i chioschi sulle spiagge. Tale rigidità, rispetto per esempio a controlli di tipo urbanistico, non deve sorprendere: essa si lega alla peculiarità del controllo paesaggistico, il quale – come ha affermato il Consiglio di Stato, sez. VI, 2.3.2011 n. 1300, (chiamato a pronunciarsi sulla compatibilità col piano paesistico della costruzione di una piscina) – «a differenza dello strumento urbanistico, non è volto al dimensionamento dei nuovi interventi, quanto alla valutazione ex ante della loro tipologia ed incidenza qualitativa» sul territorio.  
 
La protezione del bene paesaggistico comprende pertanto non solo il quadro estetico naturale ma anche il significato di valore ideale. E ciò deve ritenersi coerente con la stessa definizione di Paesaggio, contenuta nell’art. 131 D. Lgs. 42/2004: «1. Per paesaggio si intende il territorio espressivo di identità, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni. 2. Il presente Codice tutela il paesaggio relativamente a quegli aspetti e caratteri che costituiscono rappresentazione materiale e visibile dell'identità nazionale, in quanto espressione di valori culturali.» Il rango (art. 9 Cost.) e il contenuto del bene tutelato giustificano dunque la tecnica di tutela del pericolo astratto.  Se appare rispettato il principio di proporzione, altro discorso è se l’anticipazione di tutela con la tecnica del pericolo astratto sia davvero lo strumento idoneo per la miglior protezione del bene, se cioè la presenza di fattispecie siffatte sia effettivamente  in grado di diminuire in qualche misura sensibile la frequenza dei fatti preveduti come reati. La questione qui si sposta sul piano politico-criminale, e sconta la storica mancanza di sistemi di misurazione e verifica dell’effettività delle scelte di criminalizzazione.