ISSN 2039-1676


16 marzo 2017 |

L’interpretazione conforme a Costituzione e a giurisprudenza costituzionale. Il rimedio risarcitorio ex art. 35-ter ord. pen. applicato ai detenuti in stato di custodia cautelare in carcere

Commento a Mag. Sorv. Udine, ord. 9 febbraio 2017, n. 125, Giud. Fiorentin

Contributo pubblicato nel Fascicolo 3/2017

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1. L’ordinanza che si presenta, emessa in data 9 febbraio 2017 dal magistrato di sorveglianza di Udine, presenta diversi profili di particolare interesse, sia di metodo sia di merito. E sembra costituire un felice tentativo di risolvere, in via giurisprudenziale, talune problematiche lasciate aperte dal legislatore dell’emergenza. Riteniamo utile un brevissimo cenno al contesto più generale e appunto emergenziale nel quale è stato introdotto l’art. 35 ter dell’ordinamento penitenziario. Come noto, la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la sentenza Torreggiani e altri v. Italia, Seconda Sezione, resa in data 8 gennaio 2013 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza definitiva dal 27 maggio dello stesso anno). Una decisione, la Torreggiani, tra le più conosciute e commentate della Corte di Strasburgo, per molti e differenti motivi, certamente anche perché contenente affermazioni “preoccupate” da parte dei giudici di Strasburgo. La dichiarazione di violazione dell’art. 3 della Convenzione, infatti, è stata accompagnata da osservazioni sulla situazione più generale del sovraffollamento carcerario italiano. In particolare, al § 94 della decisione, la Corte si dice “frappée” dal fatto che circa il 40% dei detenuti italiani era costituito da persone in custodia cautelari in attesa di giudizio. Il termine utilizzato dalla Corte è espressivo e, senza forzarne la traduzione, dimostra che i giudici erano “colpiti” e “impressionati”, quasi da rimanere “ghiacciati”.

 

2. Il legislatore italiano, dopo Torreggiani, ha introdotto una serie di previsioni volte a porre rimedio alla situazione del sovraffollamento. E poiché la decisione della Corte di Strasburgo conteneva anche precise indicazioni, il nostro ordinamento, tra le diverse misure disposte, ha introdotto anche i due rimedi di cui all’art. 35 ter dell’ord. pen.

Non è semplice comprendere se veramente ci si è resi conto degli effetti che siffatta previsione poteva comportare. Certo è che quando il legislatore interviene in una situazione come quella post Torreggiani, molto probabilmente non si tengono in considerazione tutti i risvolti più generali e di medio-lungo periodo delle scelte che si compiono. In effetti, i due rimedi introdotti dall’art. 35 ter (il primo, sulla detrazione di giorni di pena, il secondo, sul risarcimento monetario) riguardano, entrambi, pregiudizi consistenti in condizioni di detenzione tali da violare l’art. 3 della Convenzione come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Una disposizione del genere non ha precedenti nel nostro ordinamento. Nemmeno la legge Pinto si era spinta così in avanti. Il legislatore ha previsto, con l’art. 35 ter, un vero e proprio obbligo di interpretazione convenzionalmente orientata, in capo al magistrato di sorveglianza.

 

3. Tra le diverse problematiche subito rilevate della nuova e rivoluzionaria disposizione, molte hanno riguardato la scelta di prevedere dei rimedifissi”. Un giorno ogni dieci scontati in condizioni di detenzione in violazione dell’art. 3 Conv., otto euro ogni giorno in detenzione sempre in violazione dell’art. 3 Conv., in questo secondo caso nell’ipotesi in cui il periodo di pena ancora da espiare è tale da non consentire la detrazione. Non minore importanza ha ricevuto anche un’altra questione: come si doveva interpretare l’art. 35 ter per quanto riguarda i detenuti in stato di custodia cautelare in carcere? Ed è di questo problema che l’ordinanza qui presentata si occupa.

 

4. Davanti al magistrato di sorveglianza, infatti, presenta reclamo un detenuto in custodia cautelare, in attesa di primo giudizio. Chiede che gli sia riconosciuto il risarcimento monetario, poiché ritiene che dal 25 ottobre 2015 le sue condizioni detentive appaiono in violazione dell’art. 3 Conv. Il primo problema che il magistrato deve risolvere, pertanto, attiene alla corretta interpretazione dell’art. 35 ter, in particolare del terzo comma, ai sensi del quale coloro che hanno subito il pregiudizio in stato di custodia cautelare in carcere, così come coloro che hanno terminato di espiare la pena detentiva in carcere, possono proporre azione di fronte al tribunale del capoluogo del distretto nel cui territorio hanno la residenza. L’azione deve essere proposta, pena decadenza, entro sei mesi dalla cessazione dello stato di detenzione o della custodia cautelare in carcere.

Il magistrato di sorveglianza rileva immediatamente che la richiesta alla quale è chiamato a rispondere non trova esplicita soluzione nella novella legislativa, che riguarda i casi di una persona in stato di libertà: solo cessata la custodia cautelare ed entro sei mesi, infatti, ai sensi del terzo comma dell’art. 35 ter, si ha diritto di proporre azione peraltro dinanzi al giudice civile. Che cosa fare, invece, nei casi in cui l’azione risarcitoria è proposta da un detenuto in custodia cautelare ancora ristretto

 

5. Ed è questa parte sicuramente la più innovativa dell’intera ordinanza del magistrato di sorveglianza di Udine, poiché, per fornire la risposta che ritiene più appropriata, ricorre a una rigorosa interpretazione della previsione di cui al terzo comma dell’art. 35 ter, rifacendosi diffusamente a una recente sentenza della Corte costituzionale, la n. 204 del 14 giugno 2016. Il magistrato mette in pratica una sorta d’interpretazione conforme a Costituzione e a giurisprudenza costituzionale. La sentenza n. 204 del 2016 ha consentito, sempre alla magistratura di sorveglianza, di corrispondere il risarcimento in termini monetari anche nel caso in cui non fosse possibile procedere alla riduzione di pena. Nella sua sentenza, in effetti, il giudice costituzionale era stato particolarmente perentorio, nel momento in cui aveva sostenuto che “sarebbe infatti fuori da ogni logica di sistema, oltre che (…) in contrasto con i principi costituzionali” che, nel caso di specie all’ergastolano, detenuto in condizioni inumane e degradanti, non si accordasse il risarcimento monetario solo perché non era possibile nei suoi confronti detrarre alcun periodi di pena quale rimedio compensativo.

Partendo da questa affermazione, il magistrato di sorveglianza argomenta che il senso complessivo e sistematico del ristoro economico è quello di rimediare in termini monetari a una detenzione inumana e degradante, in questo sganciandosi dalla possibilità o meno di ridurre i giorni di pena da espiare. Riprendendo ulteriori passaggi della sentenza n. 204 del 2016, allora, il magistrato sostiene che la competenza per decidere nel merito il ristoro economico, nel caso di specie quando chiesto da una persona ancora in custodia cautela e in attesa di primo giudizio, deve essere in capo alla stessa magistratura di sorveglianza e non eventualmente al giudice civile: solo in questo modo si potrebbero garantire con rapidità e concretezza le forme di riparazione, che devono essere accessibili ed effettive.

 

6. Utilizzando una prospettiva costituzionalmente orientata, pertanto, il magistrato sostiene che l’altra alternativa prospettabile, quella di dichiarare la propria incompetenza, si porrebbe in flagrante contraddizione non solo con l’indicazione del giudice costituzionale, ma anche con quella a suo tempo contenuta nella sentenza Torreggiani della Corte di Strasburgo. Da questo punto di vista, l’ordinanza appare convincente.

La questione dell’interpretazione conforme a Costituzione, che in questo caso è anche interpretazione conforme alla giurisprudenza costituzionale, merita sicuramente di essere affrontata con una certa cautela. Non sono pochi i benefici, ma nemmeno possono sottacersi i rischi. In particolare, uno, vale a dire quello che consentirebbe al giudice, per questa via, di arrivare a un’interpretazione chiaramente incompatibile con la lettera della legge. In questi casi, il potere interpretativo del giudice dovrebbe arrestarsi e, se del caso, passare la “palla” al giudice costituzionale. Il problema, a questo riguardo, non certo nuovo, è la “fattura” delle disposizioni legislative, specialmente quelle introdotte in un momento emergenziale, come era quello pre e post Torreggiani. Prima, poiché, per porre rimedio al sovraffollamento, si era addirittura proclamato lo stato di emergenza nazionale, dopo, perché, oramai, il nostro ordinamento non poteva più tardare nell’apprestare le soluzioni indicate dalla sentenza pilota della Corte di Strasburgo. In uno scenario come questo, è evidente che appare particolarmente difficile, per non dire di più, che il legislatore adotti provvedimenti chiari e precisi. Se è difficile in situazioni ordinarie, in contesti emergenziali è pressoché quasi impossibile. Ecco che, di conseguenza, l’interpretazione del giudice ordinario diviene di fondamentale rilevanza e il riferirsi al testo della lettera della legge può risolvere poco. Si tratta, però, come dicevamo, di utilizzare una certa cautela. Una cosa è dubitare della legittimità costituzionale di una determinata previsione, la quale, pur contestabile, sembra essere particolarmente chiara. Un’altra è, invece, ricorrere all’interpretazione conforme a Costituzione come criterio interpretativo paragonabile all’interpretazione sistematica. Nel primo caso, non vi è dubbio che il giudice ordinario si debba arrestare e, se lo ritiene, promuovere incidente di costituzionalità. Nel secondo caso, gli spazi a disposizione del giudice sono maggiori, l’importante è dosare con equilibrio e utilizzando argomenti persuasivi il proprio margine interpretativo, evitando di giungere a esiti incompatibili con la previsione legislativa. Nel caso di specie, il magistrato di sorveglianza, a parere di chi scrive, non ha debordato dai suoi compiti, anzi, ha avuto il merito di rifarsi non solo a un’interpretazione costituzionalmente orientata, necessaria per risolvere un problema obiettivamente lasciato irrisolto dal legislatore dell’emergenza, ma si è anche appoggiato a una fondamentale decisione del primo interprete della Costituzione, la Corte costituzionale.

 

7. Questo per quanto riguarda il metodo della decisione qui introdotta. Per ciò che attiene al merito, il magistrato ricostruisce con dovizia di particolari le condizioni della detenzione, in particolare nel carcere di Gorizia. Il ricorrente era stato detenuto in due celle identiche, nelle quali la superficie fruibile era di poco meno di dodici metri quadrati per sei detenuti. Anche le condizioni generali della detenzione sono descritte con cura nell’ordinanza, dove sono riportate le limitate possibilità di provvedere all’igiene personale, le deficienze per quanto riguarda il transito di aria e di luce dalle finestre delle celle, entro le quali i detenuti permangono comunque per circa quattordici ore al giorno. Sempre per quanto attiene alla detenzione in generale, si riporta anche che in quel carcere non è presente né una palestra né una zona ludica e i corsi didattici sono sporadici.

A questo punto, il magistrato deve, perché così è previsto dall’art. 35 ter, interpretare in senso convenzionalmente orientato la detenzione subita dal ricorrente e valutare se consiste in trattamenti inumani e degradanti, per come interpretati dalla Corte di Strasburgo. La ricostruzione che offre della giurisprudenza alsaziana è approfondita, in particolare si sofferma sull’ultima decisione in proposito, la sentenza Mursic v. Croazia, Grande Camera, 20 ottobre 2016. Ai sensi di questa decisione, in effetti, per quanto riguarda la detenzione sotto i tre metri quadrati, il giudice di Strasburgo ha introdotto una nuova interpretazione, ai sensi della quale non vi è più una violazione automatica dell’art. 3 Conv, ma una “forte presunzione” di violazione, che necessita di essere accertata di volta in volta, considerando la durata della detenzione in quelle condizioni e la presenza di ulteriori elementi utili per una valutazione più approfondita, specie riguardanti le dotazioni logistiche (acqua calda, illuminazione, aria) e le opportunità trattamentali (opportunità ricreative, culturali e lavorative).

Introdotta una prima ricostruzione della giurisprudenza europea, l’ordinanza in questione si premura di confrontarsi anche con la giurisprudenza di legittimità interna, più volte intervenuta, specie per quanto riguarda nel merito il modo con il quale calcolare lo spazio a disposizione di un detenuto dentro la cella. Con una sorta di “serrato” confronto tra le decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo e quelle della Corte di Cassazione, il magistrato di sorveglianza risolve in un determinato modo uno dei problemi più rilevanti, vale a dire il dover conteggiare, tra i metri quadrati a disposizione del detenuto, anche il letto, da intendersi come arredo tendenzialmente fisso. Mettendo a confronto la giurisprudenza di Strasburgo, che non esclude esplicitamente il letto, a differenza del bagno, con quella di legittimità, che invece di recente è arrivata a una valutazione differente, per la quale il letto, quale arredo tendenzialmente fisso, non deve conteggiarsi per calcolare la metratura a disposizione di ciascun detenuto, l’ordinanza – che, tra l’altro, merita di essere segnalata anche perché è una delle prime ad affrontare siffatta questione dopo la sentenza 9 settembre 2016, n. 52819 della Cassazione, a sua volta la prima dopo Mursic di Grande Camera della Corte di Strasburgo – rileva che è necessario “seguire” l’interpretazione della Cassazione. Facendo questo, l’ordinanza sottolinea altresì che ci si discosta dalla prevalente interpretazione della magistratura di sorveglianza, incline invece a non “scorporare” la dimensione dei letti, sempre ai fini del calcolo dello spazio nella cella.

Come si pone, il magistrato di sorveglianza, di fronte al problema dell’interpretazione convenzionalmente orientata? Non una questione di poco momento, in effetti. L’art. 35 ter ord. pen. lo obbliga a rifarsi alla giurisprudenza di Strasburgo, la quale, però, è stata “integrata” da un’importante recente sentenza della Cassazione, in particolare per quanto riguarda la questione del letto. La soluzione prospettata è la seguente: certamente, sostiene l’ordinanza, la Cassazione specifica una questione lasciata aperta dalla Corte di Strasburgo, tuttavia, residuano due perplessità riguardanti la giurisprudenza di legittimità. In primo luogo, detrarre “sempre” il letto, dal conteggio dei metri quadrati a disposizione, potrebbe significare non considerare che il criterio adottato dalla Corte di Strasburgo, invece di essere puramente geometrico, appare funzionale e che, quindi, molto dipende dal come sono collocati i letti in una cella, quindi dalla possibilità di movimenti dei detenuti. In secondo luogo, la giurisprudenza di legittimità interna sembra non considerare le possibilità, invece lasciate aperte dalla Corte di Strasburgo, sulla possibilità di “compensare” la detenzione sotto i tre metri quadrati con talune modalità trattamentali. A questo punto, il magistrato di sorveglianza, preso atto che la Cassazione ha introdotto standard ancora più stringenti di quelli europei, sostiene che si tratta di un’evenienza perfettamente rientrante nella previsione dell’art. 35 ter ord. pen., che deve essere interpretata nel modo che più appare consono per garantire un massimo di effettività degli strumenti introdotti, come peraltro dimostrato anche dalla giurisprudenza costituzionale già richiamata e utilizzata. In altri termini, la giurisprudenza europea, nel caso di specie, ha assicurato nel minimo le condizioni per le detenzioni non contrarie all’art. 3 Conv, le quali possono sicuramente essere allargate dagli interpreti interni, senza per questo oltrepassare il dettato dell’art. 35 ter ord. pen. Non si può, di conseguenza, restringere i criteri utilizzati dal giudice di Strasburgo, mentre è possibile specificarli anche in senso maggiormente garantista.

 

8. Dopo aver dedicato attenzione anche ad altri profili, in particolare per quanto riguarda i criteri probatori, l’ordinanza si avvia al calcolo dei metri quadrati a disposizione del detenuto e constata che, per 231 giorni, il detenuto ha potuto usufruire di uno spazio “vivibile” nettamente inferiore a tre metri quadrati (tra i 2,20 e i 2, 64 metri quadrati), in alcun modo compensabile con le attività trattamentali. A fronte di questi risultati, l’ordinanza accorda il risarcimento in termini di otto euro per giorno scontato in condizioni inumane e degradanti.

 

9. Si è alla presenza di un’ordinanza sicuramente meritevole di attenta lettura, che affronta non pochi problemi di estrema complessità e offre delle soluzioni che si muovono, senza oltrepassarne il senso, sul “crinale” dell’interpretazione conforme a Costituzione e a giurisprudenza costituzionale, per quanto riguarda la questione della possibilità di accordare il risarcimento monetario anche al detenuto che si trova in custodia cautela in attesa di primo giudizio. Lo stesso, compie rispetto all’interpretazione convenzionalmente orientata, che sviluppa in un confronto fruttuoso con le più recenti decisioni del giudice di legittimità interno. A fronte di un legislatore per lo meno poco preciso, l’ordinanza in questione affronta non pochi aspetti problematici, soprattutto, lo fa senza mai oltrepassare il tenore letterale della disposizione legislativa di cui all’art. 35 ter ord. pen. E questo, pensiamo, costituisce un punto di forza. Come sempre, per quanto riguarda il merito, non resta che attendere, con l’occhio diretto in una triplice direzione: gli eventuali interventi successivi della Cassazione, per comprendere il consolidamento del suo orientamento alla base di questa ordinanza del magistrato di sorveglianza di Udine; quelli del giudice costituzionale, che potrebbe essere chiamato a risolvere altri dubbi di legittimità costituzionale della previsione di cui all’art. 35 ter, in questo modo ulteriormente spiegandone il senso più generale; infine, ovviamente, del giudice di Strasburgo, il quale avrà sicuramente modo di tornare sulla questione del conteggio dei metri a disposizione di un detenuto all’interno di una cella.