ISSN 2039-1676


18 febbraio 2013 |

Diagnosi preimpianto: respinta la richiesta di rinvio alla Gran Camera CEDU avanzata dal Governo italiano nel caso Costa e Pavan contro Italia

1. Lo scorso 11 febbraio 2013 un collegio di cinque giudici della Corte europea dei diritti dell'uomo ha rigettato, con provvedimento non motivato (clicca sotto su download documento per scaricare il comunicato della Corte), la richiesta di rinvio alla Grande Camera presentata dal governo italiano contro la sentenza della Seconda sezione resa il 28 agosto 2012 nel caso Costa e Pavan c. Italia (n. 54270/10), sulla quale cfr. la scheda a firma di A. Verri a suo tempo pubblicata dalla nostra Rivista (clicca qui per accedervi). Come è noto, nel sistema disegnato dalla Convenzione il rinvio alla Grande Camera di un caso già deciso in primo grado è consentito soltanto laddove "la questione oggetto del ricorso sollev[i] gravi problemi di interpretazione o di applicazione della Convenzione e dei suoi Protocolli, o comunque un'importante questione di carattere generale", a giudizio di un collegio di cinque giudici della stessa Grande Camera, i quali sono così chiamati a una valutazione preliminare di ammissibilità del ricorso (art. 43 CEDU). Nell'ipotesi in cui non vengano ritenute sussistenti le condizioni predette, i giudici comunicano semplicemente il rigetto della richiesta di riesame senza alcuna motivazione, e la sentenza diviene definitiva ai sensi dell'art. 44 co. 2 lett. c) CEDU.

 

2. Con tale sentenza il nostro Paese era stato condannato a risarcire 15.000 euro a titolo di danno morale ad una coppia non sterile ma portatrice sana di mucoviscidosi, cui la legge 19 febbraio 2004 n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita) impediva l’accesso alla procreazione medicalmente assistita (consentito unicamente in caso di sterilità o infertilità: art.1 e 4 co.1) e, dunque, la possibilità di ricorrere alla diagnosi e selezione preimpianto, pratica necessaria per individuare e trasferire in utero soltanto embrioni sani ed evitare così la trasmissione della malattia ai figli. Detta disciplina – merita ricordarlo - veniva considerata sproporzionatamente limitativa della facoltà di avere un figlio sano, quale espressione della libertà al rispetto della vita privata e familiare (art. 8 CEDU). La sproporzione nell’operare una limitazione in linea di principio praticabile (perché attuata in un caso "previsto dalla legge" e in funzione della salvaguardia di interessi ritenuti meritevoli dall’art. 8, 2° comma, CEDU) era rivelata dall’irragionevole discriminazione rispetto alla possibilità di far ricorso alla diagnosi prenatale e quindi, eventualmente, all’aborto terapeutico in presenza di quelle medesime motivazioni, e per il conseguimento dei medesimi fini, che spingevano la coppia a chiedere la diagnosi preimpianto (vedi artt. 4 e 5 legge 22 maggio 1978 n.194, “norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”).

In effetti, balza agli occhi come nel complesso l’ordinamento italiano, lungi dall’apparire coerentemente volto a salvaguardare ad ogni costo il concepito, sia assurdamente (e crudelmente) orientato a imporre il trattamento medico più invasivo, più rischioso per la salute della donna ed egualmente atto a sopprimere il concepito stesso (oltretutto in una fase avanzata di sviluppo), vietando invece l'intervento non invasivo (perché compiuto su un embrione ancora in vitro).

Il rigetto del ricorso era prevedibile per la dimensione macroscopica dell’incongruenza normativa sanzionata, che induceva i giudici della Camera CEDU, seconda sezione, a pronunciarsi all’unanimità. Oltretutto, secondo la dottrina del “margine di apprezzamento” elaborata dalla giurisprudenza CEDU, lo spazio di discrezionalità del legislatore nazionale nel porre limiti ad una prerogativa riconducibile all’art.8 CEDU si restringe oltremodo quando dall’esame comparato degli ordinamenti degli Stati parte si evinca una univoca tendenza ad un pieno riconoscimento di quella prerogativa: come appunto accade in tema di diagnosi e selezione preimpianto.

 

3. Nondimeno, la Gran Camera in altre occasioni (ricordate nel ricorso del Governo italiano) aveva manifestato una tendenza ad un estremo self restraint  su temi sensibili di “biodiritto”, nello specifico in materia di fecondazione assistita, fino al punto di eludere del tutto precise doglianze avanzate dai ricorrenti privati. Così nella sentenza S.H. e altri c.Austria  (3 novembre 2011) una questione relativa ad alcune palesi disparità di trattamento, incompatibili con l’art.14 CEDU, che la disciplina austriaca in materia di fecondazione eterologa senza dubbio determina (e che avevano indotto la 1a sezione Camera CEDU a condannare l’Austria con decisione del 1° aprile 2010), veniva considerata acriticamente assorbita in altra e in realtà diversa questione ex art. 8 CEDU, quest’ultima ritenuta poi infondata. Ancor più marcata deferenza verso le scelte del legislatore nazionale s’era manifestata nella sentenza A, B e C c. Irlanda del 16 dicembre 2010, nella quale persino si smentiva la già richiamata dottrina del “margine di apprezzamento”. Nel caso di specie, se la Gran Camera avesse voluto ribadire questo prudentissimo orientamento di “politica giudiziaria” - che si pone, diciamolo, ai limiti della denegata giustizia - avrebbe potuto in qualche modo appigliarsi ad alcune marginali “imprecisioni” della sentenza Costa e Pavan c. Italia (a nostro avviso comunque non in grado di minare la tenuta complessiva della motivazione), facendo altresì gioco sulla possibilità, potenzialmente illimitata, che l’art. 8, 2° comma, CEDU le concede di “far salva” la discrezionalità del legislatore nazionale (ricordiamoci che, ai sensi di detta norma, un’ingerenza statale nel diritto individuale alla vita privata e familiare è tra l’altro legittima quando strumentale all’esigenza, vaghissima e inquietante, della “protezione della morale”).

 

4. In uno dei motivi della richiesta di rinvio il Governo italiano lamentava, nello specifico, come la Camera avesse sostanzialmente sanzionato un “obbligo di coerenza” tra norme dell’ordinamento interno ritenute però, singolarmente, non in contrasto con la Convenzione. In realtà, non v’è da dubitare che la Corte europea abbia titolo per condannare lo Stato per illogiche “disparità di trattamento” (senza con ciò fare le veci di un “giudice costituzionale”); quel che è vero è che il parametro convenzionale più adeguato a sostenere questo tipo di giudizio appare, forse, l’art. 14 (divieto di discriminazione), che non già l’art. 8, 2° comma, CEDU, cui invece si è fatto ricorso nella sentenza Costa e Pavan c. Italia attraverso una declinazione, volendo, problematica del criterio di “proporzione” e “adeguatezza”.

Inoltre, la sentenza oggetto del ricorso appariva un po’ “approssimativa” nel descrivere i contenuti della normativa italiana sull’interruzione di gravidanza, quasi che essa consenta senz’altro il ricorso all’aborto in caso di riscontrate anomalie del feto (in realtà possibile solo quando dette anomalie minaccino in varia misura la salute psico-fisica della donna): altro profilo critico su cui insistevano le doglianze del Governo italiano, con argomenti comunque di scarso pregio, giacché è indubitabile che, anche adottando la più precisa interpretazione della l. 194/78, l’aborto nel nostro Paese sia praticabile in casi in cui diagnosi e selezione preimpianto restano inibite, e tanto basta a determinare una insostenibile discriminazione (discriminazione comunque emergente in rapporto allo specifico caso oggetto del ricorso: è noto che l’approccio della Corte è tendenzialmente “topico”, cioè incline a valutare violazioni di diritti non in rapporto alla portata generale di certe norme dell’ordinamento interno, bensì con riguardo alla specifica vicenda concreta posta alla sua attenzione).

Più marcato, semmai, il vizio procedurale sul quale il Governo italiano aveva posto l'accento: i ricorrenti avevano adito la Corte europea per i diritti dell’uomo senza prima interpellare i tribunali italiani, né la Corte costituzionale, dunque senza aver esaurito le possibilità di tutela garantite dall’ordinamento interno, in violazione forse dell’art.35 Convenzione EDU. L’asserita impossibilità a priori di ottenere qualsivoglia riconoscimento del proprio diritto di fronte a un giudice nazionale, stante la natura inequivoca della preclusione all’accesso posta dalla l.40/2004, rischiava d’essere smentita se non altro da una recente decisione del Tribunale di Salerno (ordinanza 9-13 gennaio 2010): in essa si esasperava un’interpretazione adeguatrice da tempo proposta dai giudici civili (che desumono dall’art. 14, co. 5, l. 40/2004 un vero e proprio diritto alla diagnosi preimpianto: vedi da ultimo Tribunale di Cagliari, ordinanza 9 novembre 2012), sino ad imporre ad una struttura sanitaria di praticare la procreazione assistita e la diagnosi preimpianto a favore di una coppia fertile, in virtù di una motivazione che suonava più come una indebita “disapplicazione” di norme di legge ritenute costituzionalmente non compatibili, che non già come una esegesi costituzionalmente orientata. La Camera CEDU di prima istanza aveva nondimeno ritenuto quel precedente isolato, non definitivo e dunque non significativo di una effettiva e strutturale possibilità di ottenere giustizia nell’ordinamento interno.

 

5. In ogni caso, ripetiamo, la richiesta di rinvio del Governo italiano è stata rigettata, e dunque la sentenza della Camera CEDU si è fatta definitiva ai sensi dell’art. 44 § 2 (c) della Convenzione.

Il nostro Paese sopporta così un’ulteriore condanna per un difetto a dir poco eclatante della sua legislazione, da tempo denunciato da dottrina e giurisprudenza (perché già contrastante con gli artt. 3 e 32 Cost.), ed al quale, come si è ricordato, nei limiti del possibile tenta di porre rimedio una comprovata prassi costituzionalmente orientata (che però, eccettuata la “anomala” decisione salernitana, può riconoscere un diritto alla diagnosi preimpianto soltanto a favore di coppie sterili o infertili, stante l’inequivoca preclusione contenuta negli artt.1 e 4, co.1 l. 40/2004). Cosa altro servirà per indurre il legislatore a formulare, con ragionevolezza, una disciplina delle procedure di diagnosi e selezione preimpianto? Forse una decisione della Corte costituzionale, che adesso potrebbe essere chiamata in causa non solo ex artt. 3 e 32 Cost., ma anche ex art. 117 Cost., stante l’ormai dichiarata incompatibilità dei divieti della l. 40/2004 con il “vincolo internazionale” costituito dalla Convenzione EDU, nell’interpretazione che ne viene offerta da parte della Corte di Strasburgo.

 

I precedenti richiamati in questa nota sono tutti consultabili in questa rivista: vedi i link correlati nella colonna di destra in questa stessa pagina.

Per un approfondimento delle questioni trattate sia consentito rinviare ad A. Vallini, Illecito concepimento e valore del concepito, Torino, 2012, 122 ss. (sul caso S.H. e  altri c. Austria, e sulle ricadute che ha avuto nel nostro ordinamento) e 287 ss. (sull'elaborazione dottrinale e giurisprudenziale in tema di diagnosi e selezione preimpianto, con alcuni riferimenti comparatistici e cenni al caso Costa e Pavan c. Italia).