ISSN 2039-1676


3 ottobre 2013 |

Le Sezioni unite sull'aggravante del mezzo fraudolento nel furto in supermercato

Cass., Sez. un., 18.7.2013 (dep. 30.9.2013) n. 40354, Pres. Santacroce, Rel. Blaiotta, ric. Sciuscio

La circostanza aggravante dell'utilizzo del mezzo fraudolento nel furto è configurabile allorché la condotta dell'agente sia connotata da marcata efficienza offensiva e insidiosità, tali da sorprendere la contraria volontà del detentore della cosa sottratta e vanificare le misure da lui apprestate a difesa del possesso. Ne consegue che essa non ricorre nel fatto di chi si limiti ad occultare sulla sua persona, o in un contenitore esterno, merce esposta sui banchi di un esercizio commerciale che pratichi la vendita con il sistema del self service, trattandosi di accorgimento inidoneo a vulnerare in modo apprezzabile le difese predisposte a tutela del possesso.


Poiché la tutela penale del possesso non richiede la presenza di un titolo giuridico sulla cosa, né la sua fisica, diretta disponibilità, persona offesa legittimata alla proposizione della querela in caso di furto in esercizio commerciale del tipo self service è anche il responsabile dell'esercizio, allorché abbia l'autonomo potere di custodire, gestire, alienare la merce.

 

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1. Una sentenza, questa delle Sezioni unite, eminentemente "casistica", pur nel notevole spessore della (persuasiva) elaborazione teorica e nel tentativo - diranno i futuri sviluppi della giurisprudenza quanto riuscito - di ricondurre a una suggestiva sistemazione dogmatica l'inquadramento dell'aggravante del mezzo fraudolento. Che si tratti di una decisione "clinica" lo ammette la sentenza stessa quando riconosce che non può essere comunque obliterata "la considerazione delle peculiarità di ciascuna fenomenologia e di ciascun caso concreto".

Rinviando a quanto già scritto in questa Rivista in occasione della presentazione dell'ordinanza di rimessione alle Sezioni unite e ai precedenti di opposto segno allora evocati, ricordiamo che due erano le questioni sottoposte nella specie all'attenzione delle Sezioni unite penali. O meglio l'una di sicuro rilievo, l'altra meramente eventuale e rilevante solo in caso di risposta affermativa alla prima questione. Che consisteva nel decidere se, con riferimento al furto, il mero occultamento all'interno di una borsa (o analogo contenitore), ovvero sulla persona, della merce sottratta dagli scaffali di un esercizio commerciale in cui sia praticata la vendita con il sistema self service integri la circostanza aggravante dell'uso del mezzo fraudolento prevista dall'art. 625, comma primo, n. 2, c.p.

Il carattere eventuale della seconda questione, riguardante la legittimazione a proporre querela da parte del responsabile dell'esercizio commerciale che non ne sia anche legale rappresentante (come accaduto nel caso di specie), nasceva dalla circostanza che la querela non è necessaria nel furto aggravato, notoriamente procedibile di ufficio.

La questione centrale posta dal ricorso ruota tutta intorno al significato dell'espressione "si vale di qualsiasi mezzo fraudolento" che compare nella seconda parte dell'art. 625.1, n. 2, c.p.

Le Sezioni unite, premesso che il lessico della legislazione penale è spesso improntato all'uso di termini vaghi ed elastici, idonei, cioè, ad abbracciare, in modo onnicomprensivo, situazioni di fatto diverse che siano riconducibili al concetto generico utilizzato ("violenza", "minaccia", "onore"), notano che la nozione di "mezzo fraudolento", quantunque in sé vaga, risulta concordemente interpretata sia in dottrina, sia in giurisprudenza, nel senso di equivalente a stratagemma inteso ad aggirare gli ostacoli che si frappongono tra l'agente e la cosa, espediente insidioso inteso a sorprendere ed eludere le misure apprestate dal detentore a tutela del possesso per vanificarne gli effetti.

Ma se la "spiegazione teorica" appare semplice, l'applicazione in concreto va inevitabilmente incontro alla difficoltà di inquadrare i casi che la pratica, con le sue mille sfaccettature, offre all'interprete e che  si muovono, per lo più, in quella zona grigia nella quale sono plausibili opposte soluzioni ermeneutiche.

Ecco perché, secondo il Supremo Collegio, da quest'impasse non si esce, se non facendo riferimento alle specifiche modalità dell'azione e al livello di aggressività che essa presenta per giustificare l'inasprimento sanzionatorio che ne deriva.

Lo esigerebbe, secondo le Sezioni unite, il principio di offensività, la cui portata ha agganci non solo nell'art. 49 c.p., ma anche in vari articoli della Costituzione e il cui ruolo centrale nell'interpretazione della norma penale obbliga l'interprete a renderla applicabile solo ai fatti concretamente offensivi di beni giuridici. "Insomma - concludono le Sezioni unite - i beni giuridici e la loro offesa costituiscono la chiave per una interpretazione teleologica dei fatti che renda visibile, senza scarti di sorta, la specifica offesa già contenuta nel tipo legale del fatto ... sicché tra i molteplici significati eventualmente compatibili con la lettera della legge si dovrà operare una scelta con l'aiuto del criterio del bene giuridico, considerando fuori del tipo di fatto incriminato i comportamenti non offensivi dell'interesse protetto".

L'estensione di questo criterio valutativo - operante per il fatto di reato - alle circostanze è imposta dall'osservazione che esse, pur non concorrendo all'identificazione dell'offesa tipica, esercitano un peso rilevante sul grado di disvalore sociale del fatto e quindi sulla risposta punitiva dello Stato. Tant'è vero che, proprio con riferimento al furto, la disciplina positiva delle circostanze aggravanti è studiata in modo da far scattare pene largamente al di sopra della pena prevista per l'ipotesi base e di tale severità da dover indurre l'interprete a particolare cautela nel ritenerle applicabili.

Al clou, questo elemento di cautela, coniugato con l'esclusione di una speciale aggressività della condotta - ricavabile dalla mancata predisposizione dei mezzi o dalla ingannevole messinscena - induce a ritenere che la nozione di frode non possa identificarsi in un "qualunque banale, ingenuo, ordinario accorgimento" per realizzare la sottrazione della cosa, ma debba richiedere un quid pluris che è "un'astuta, ingegnosa e magari sofisticata predisposizione".

Logico l'ulteriore corollario: il puro occultamento della cosa prelevata dai banchi di vendita di un esercizio commerciale praticante la vendita con il sistema del self service sulla persona, in borsa o in qualsiasi altro contenitore nella disponibilità dell'agente risulta privo dei connotati di studiata efficienza aggressiva che caratterizza la circostanza aggravante in esame.

 

2. Una volta esclusa la circostanza aggravante contestata e ritenuta dal giudice di merito, ha assunto rilievo la seconda delle questioni in precedenza evocate, quella della legittimazione a proporre querela per i furti della merce esposta al pubblico in supermercato (o struttura similare) in capo al responsabile dell'esercizio che sia sprovvisto di poteri di rappresentanza del proprietario (nella specie la querela era stata presentata dalla persona responsabile del supermercato, priva di poteri rappresentativi dell'imprenditore).

Dopo un puntuale excursus delle decisioni della giurisprudenza di legittimità in contrasto sul tema, la sentenza, muovendo dal dato normativo in forza del quale la legittimazione a proporre la querela è attribuita alla persona offesa dal reato, si sofferma sull'individuazione dell'interesse protetto dalla norma incriminatrice e del soggetto che ne è titolare.

Premesso che il furto è un fatto illecito che si concreta nella sottrazione, ancor prima che nell'inflizione di un danno patrimoniale, e che la vittima di essa è identificata dal legislatore come il detentore della cosa, la sentenza colloca ed esamina il tema nel più generale ambito che attiene al significato di termini civilistici nel diritto penale.

È qui che la sentenza riprende i risultati di una lunga elaborazione teorica sulla nozione di "possesso penalistico" in termini ampi e dettagliati, che esimono da ulteriori chiose. E approda alla conclusione, condivisa da tempo dalla dottrina penalistica e dalla giurisprudenza, della maggiore latitudine del concetto di possesso nel diritto penale, nel quale ha rilievo quella signoria di fatto sulla res che consente al titolare di fruirne e disporne in modo indipendente dall'eventualmente maggior potere giuridico altrui. Tanto che sul piano della tutela penale rileva anche la relazione possessoria non sorretta da base giuridica, clandestina o addirittura illecita, con la conseguenza che costituisce furto anche la sottrazione della refurtiva al ladro (nell'ottica pubblicistica del diritto penale, la spoliazione in danno del ladro non rende meno biasimevole la condotta e giustifica, pertanto, la reazione punitiva).

Difatti, il bene giuridico protetto dal reato di furto è costituito non solo dal diritto di proprietà e dai diritti reali e personali di godimento, ma anche dal possesso, inteso quest'ultimo nel senso di una detenzione qualificata, cioè da un'autonoma relazione di fatto con la cosa, che implica il potere di utilizzarla, gestirla, disporne.

Ecco perché il responsabile di un esercizio commerciale che si trova in una relazione con la merce riconducibile a uno dei paradigmi sopra indicati e che dalla sua eventuale sottrazione veda lesi i propri poteri sul bene, è da considerare persona offesa dal reato e, come tale, legittimata a proporre querela, abbia o non poteri rappresentativi dell'imprenditore.