ISSN 2039-1676


2 gennaio 2011 |

Un problematico arresto in tema di elemento psicologico del reato di abuso d'ufficio

Nota a Cass. Sez. VI, ud. 20.10.10, (dep. 09.11.10), n. 39371

1. Com’è noto, secondo una ormai costante giurisprudenza di legittimità, a seguito della riformulazione del testo dell’art. 323 c.p. da parte della l. 16 luglio 1997, n. 234 per l’integrazione dell’elemento soggettivo del reato di abuso d’ufficio è richiesto necessariamente il dolo intenzionale. In altri termini, per l’affermazione della penale responsabilità del soggetto agente si ritiene necessario che l’evento di ingiusto danno (altrui) o di ingiusto vantaggio (proprio o altrui) che costituisce un elemento del fatto di reato, sia da quest’ultimo voluto come conseguenza diretta e immediata della condotta abusiva e come obiettivo primario della stessa (da ultimo: Cass. 18.9.08 CED 241210; Cass. 06.3.08 CED 238927; Cass. 05.5.04 CED 228811. Più recentemente, sembra richiedere addirittura l’esclusività del fine di perseguire un ingiusto danno o vantaggio Cass. 19.10.09 CED 245010; Cass. 25.8.08 CED 240757).
 
Inoltre, è salda opinione del Supremo Collegio che la sussistenza del dolo intenzionale nel delitto di abuso d’ufficio sia da escludersi ogniqualvolta le condotte abusive vengano poste in essere allo scopo di perseguire un interesse pubblico legittimamente affidato al soggetto agente (da ultimo: Cass. 16.5.05 CED 231343; Cass. 05.5.04 CED 228811; Cass. 05.8.03 CED 226566).
 
Con la sentenza in nota, la Suprema Corte ha inteso specificare la nozione di interesse pubblico, il cui perseguimento vale ad escludere la rilevanza penale delle condotte abusive. In particolare, secondo la pronuncia in commento, l’interesse pubblico dev’essere tenuto distinto da fini privati per quanto leciti, nonché da fini collettivi, fini privati di ente pubblico e fini politici.
 
 
2. Una sintetica ricostruzione dei fatti oggetto di accertamento potrà chiarire il senso delle affermazioni della Corte.
 
Il processo scaturiva dalla richiesta di rinvio a giudizio, formulata dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Messina, di G.S., direttore generale del Comune di Messina, in concorso con P.F. e V.F., rispettivamente presidente e vicepresidente della società sportiva F.C. Messina Peloro s.r.l., per il reato di abuso d’ufficio aggravato dal vincolo della continuazione. In particolare la pubblica accusa contestava al pubblico ufficiale G.S. di avere, su istigazione dei privati avvantaggiati P.V. e V.F., istruito la pratica e poi presentato al Consiglio Comunale – che lo approvava nella seduta del 30.8.05 – un accordo procedimentale tra il Comune stesso e la società sportiva F.C. Messina per l’affidamento diretto a quest’ultima degli stadi comunali e delle aree pertinenziali, in violazione delle procedure concorrenziali e di evidenza pubblica prescritte dal TUEL e dalla l. n. 109/1994, in tal modo procurando alla società un ingiusto vantaggio patrimoniale con corrispondente danno per l’ente locale.
 
Mentre nei confronti del V.F. si procedeva separatamente con rito abbreviato, il G.U.P. presso il Tribunale di Messina pronunciava sentenza di non luogo a procedere nei confronti di G.S. e P.F. in relazione all’imputazione per il reato di cui all’art. 323 c.p., motivando con riferimento all’assenza dell’elemento soggettivo richiesto per l’integrazione del reato in esame. Infatti, secondo il giudice di prime cure, nonostante la palese illegittimità della procedura adottata e il corrispondente indebito vantaggio privato, il direttore generale del Comune di Messina si sarebbe limitato a recepire una ”precisa scelta politica dell'ente, maturata a seguito di una vera e propria trattativa con la società sportiva”, dal momento che “la conclusione in tempi ristretti di un accordo che assicurasse le risorse finanziarie reclamate dalla squadra rispondeva ad una ferma intenzione del Consiglio Comunale di garantire la sopravvivenza della squadra di calcio cittadina, impegnata nel torneo di massima divisione e di dare prestigio alla città di Messina”.  Ad avviso del G.U.P., non sarebbe quindi stato possibile considerare un obiettivo primario del soggetto attivo quello di procurare alla Società F.C. Messina Peloro S.r.l. un ingiusto vantaggio patrimoniale, con conseguente insussistenza del dolo intenzionale.
 
 
3. In accoglimento del gravame della pubblica accusa, la Suprema Corte annulla la sentenza di non luogo a procedere, censurando tra l’altro l’erronea applicazione dell’art. 323 c.p.
 
Il giudice di legittimità rammenta, anzitutto, la costante giurisprudenza della Sezione VI in tema di elemento psicologico del delitto di abuso d’ufficio, secondo la quale mediante la riforma introdotta dalla l. n. 234/1997 il legislatore avrebbe inteso «limitare il sindacato del giudice penale a quelle condotte del pubblico ufficiale dirette, come conseguenza immediatamente perseguita, a procurare un ingiusto vantaggio patrimoniale e arrecare un ingiusto danno».
 
Tale limitazione implica invero, osserva la S.C., che la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di abuso d’ufficio è comunque da escludere in caso di perseguimento - da parte del pubblico ufficiale che avrebbe posto in essere condotte abusive con ciò provocando un ingiusto danno o vantaggio – di un «interesse pubblico legittimamente affidato all’agente dell’ordinamento».
 
Tuttavia, con l’espressione “interesse pubblico” non sarebbe lecito intendere né «un fine privato per quanto lecito, né un fine collettivo, né un fine privato di ente pubblico né tanto meno di un fine politico».
 
In particolare, secondo il Supremo Collegio, l’errore del G.U.P. presso il Tribunale di Messina, al quale gli atti sono stati rinviati per nuova deliberazione, sarebbe precisamente consistito nell’avere identificato l’interesse pubblico con un mero fine politico perseguito dagli organi elettivi del comune, consistito nel caso di specie nell’assicurare i mezzi finanziari reclamati dalla locale squadra di calcio per evitare decisioni di forte impatto emotivo sui tifosi, quali la cessione della squadra medesima.
 

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4. La sentenza la Suprema Corte, a parere dello scrivente, non contribuisce a far luce sulla delicata materia dell’elemento soggettivo del delitto di cui all’art. 323 c.p.
 
In particolare, occorre chiedersi quali possano essere le possibili fondamenta logico-normative dell’assunto, costantemente ribadito dalla Corte di Cassazione e confermato anche da questa sentenza, secondo cui il perseguimento da parte del soggetto attivo del delitto di abuso d’ufficio di un interesse pubblico vale ad escludere la sussistenza del dolo intenzionale di ingiusto danno o vantaggio richiesto dall’art. 323 c.p.
 
Posto che, secondo una costante giurisprudenza di legittimità, perché possa ritenersi sussistente il dolo intenzionale nel delitto di abuso d’ufficio l’agente deve perseguire l’evento di ingiusto danno o vantaggio quale obiettivo primario della propria condotta, una prima possibile spiegazione potrebbe semplicemente far leva sul fatto che, in questi casi, l’agente perseguirebbe in realtà in via primaria un obiettivo (l’interesse pubblico) diverso da quello richiesto per l’integrazione dell’elemento soggettivo dall’art. 323 c.p.
 
Ma, se così fosse, il perseguimento in via primaria di qualunque altro fine, diverso da quello di procurare un ingiusto danno o vantaggio, dovrebbe valere ad escludere la sussistenza del dolo intenzionale: ivi compreso, dunque, un fine “politico”, come quello che secondo la stessa Cassazione ricorreva nel caso di specie, e il cui perseguimento in altre occasioni la S.C. – seppur a livello di obiter – aveva ritenuto inidoneo a escludere il dolo intenzionale dell’abuso d’ufficio (cfr. Cass. 05.8.03 CED 226566, Cass. 18.12.02 CED 222860).
 
D’altra parte, la Cassazione non si perita di precisare perché proprio e soltanto la finalità di perseguire l’interesse pubblico (rettamente inteso) da parte del pubblico ufficiale debba essere ritenuta incompatibile con l’intenzione, richiesta dall’art. 323 c.p., di procurare ad altri un ingiusto profitto o di arrecare un danno. E ciò in assenza, si noti, di alcun appiglio testuale nella norma che faccia anche solo indirettamente riferimento a una possibile rilevanza esimente del perseguimento dell’interesse pubblico da parte del pubblico ufficiale.
 
 
5. Vi è dunque da chiedersi se questa sentenza non costituisca un tentativo inquieto di sciogliersi da quei lacci interpretativi con i quali, almeno da una decina d’anni, il Supremo Collegio sta relegando il delitto di cui all’art. 323 c.p. ad una pratica (e nota) inapplicabilità, attraverso una lettura estremamente rigida del requisito del dolo intenzionale: che è oggi considerato incompatibile non solo con il dolo eventuale, ma anche con il dolo diretto (v. ad es. Cass. 02.8.00 CED 217558), e che parrebbe addirittura richiedere, secondo quanto sembra emergere da numerosi precedenti della Corte, il perseguimento dell’ingiusto vantaggio o del danno altrui come finalità esclusiva, o quanto meno dominante, da parte del pubblico ufficiale.
 
Implicazioni, l’una e l’altra, sulla cui effettiva irresistibilità, alla luce del dato testuale dell’art. 323 c.p., sarebbe opportuno, in altra e più consona sede, riflettere più a fondo.