Con la sentenza depositata il 13 maggio scorso, qui allegata, la Corte di Cassazione è tornata ad occuparsi della problematica relativa all’elemento soggettivo del reato di abuso d’ufficio, aderendo all’orientamento dominante in giurisprudenza secondo il quale
il perseguimento del fine pubblico dell’agente non vale ad escludere il dolo dell’abuso d’ufficio sotto il profilo dell’intenzionalità allorché rappresenti un mero pretesto con il quale venga mascherato l’obiettivo reale della condotta(
[1]).
Il caso di specie vedeva un Consiglio Comunale cedere, con apposita delibera, un’area ad una società privata proprietaria di altri terreni nella zona, per consentire a quest’ultima la costruzione di un Centro Culturale. Al provvedimento faceva seguito il rilascio di una concessione edilizia e poi di una concessione in sanatoria, per una variante in corso d’opera, operazione che risultava essere attuata in violazione della normativa che vieta la cessione a privati di beni patrimoniali indisponibili, avvenuta, nella specie, a licitazione privata e non con gara pubblica e non a prezzo di mercato ma a prezzo d’esproprio.
La cessione si presentava particolarmente vantaggiosa per la società, in quanto le era stato riconosciuto il diritto di gestire l’intero complesso, destinato a servizio pubblico, senza che fosse previsto, a suo carico, né un prezzo d’acquisto né il pagamento di un canone di locazione, con evidente danno per l’ente locale. Evidente, quindi, la sussistenza degli altri elementi oggettivi del reato di abuso d’ufficio, consistenti, oltre alla violazione di legge, nel vantaggio ingiusto ottenuto dal privato e dal danno ingiusto subito dalla Pubblica Amministrazione, peraltro riconosciuti dai giudici di merito.
Ciò nonostante, sebbene il Sindaco fosse pienamente consapevole del vantaggio arrecato alla società, i giudici di prime cure escludevano la sussistenza del dolo intenzionale del delitto di abuso d’ufficio, in quanto ritenevano che costui non avesse agito al fine primario di arrecare un vantaggio al privato, ma allo scopo di realizzare, ad ogni costo, un’istituzione avente rilevanza pubblica, in modo da attribuire alla propria amministrazione il merito della realizzazione dell’opera.
Secondo i giudici di legittimità,
il vantaggio o danno per il privato può essere affiancato anche da una finalità pubblica che rappresenti una mera occasione o un pretesto per coprire la condotta illecita. Al tempo stesso, come ribadito dai giudici della Terza Sezione Penale,
tale finalità pubblicistica non deve essere confusa con il fine politico dell’agente, con l’esigenza di dimostrare la propria capacità di “governo” ai consociati, con la smania di protagonismo, con la finalità propagandistica, con l’aspirazione ad aumentare il consenso elettorale, in quanto
trattasi di motivi egoistici che si pongono in antitesi con la finalità altruistica che deve connotare la finalità pubblica(
[2]).
***
La pronuncia in commento, discostandosi dall’orientamento tenuto in passato dalla giurisprudenza di legittimità, richiedendo il dolo intenzionale in senso stretto, esclude il rilievo non solo del dolo eventuale (caratterizzato dall’accettazione del verificarsi dell’evento), ma anche del dolo diretto (che ricorre nel caso in cui l’agente si rappresenti l’evento come verificabile con certezza o con un elevato grado di probabilità); al tempo stesso, tuttavia, ribadisce come l’art. 323 c.p. non richieda che l’evento tipico costituisca il fine esclusivo del soggetto agente, argomentazione, quest’ultima, che trova supporto anche nell’ordinanza n. 251/2006 della Corte Costituzionale.
Aggiunge la Cassazione che la finalità pubblica non può essere realizzata ad ogni costo o a qualsiasi prezzo, non potendosi prescindere, all’interno del concetto di pubblica utilità, dall’osservanza, anche sotto il profilo economico, del principio del buon andamento della pubblica amministrazione.
Ai fini dell’
accertamento del dolo intenzionale, quale atteggiamento psicologico dell’agente, questo deve desumersi dai comportamenti tenuti prima, durante e dopo la condotta ed in particolar modo dall’evidenza delle violazioni, dalla competenza dell’agente, dalla reiterazione e gravità delle violazioni, dai rapporti tra agente e soggetto favorito o danneggiato e, in caso di compresenza di più fini, dalla comparazione dei rispettivi vantaggi o svantaggi (
[3]).
[1] Cfr. ad es. Cass. pen., Sez. V, 19 maggio 2010, n. 23421, in
D&G, 2010.
[2] Cfr. ad es. Cass. pen., Sez. VI, 18 dicembre 2002, n. 42839, in
Cass. Pen., 2003, 2650.
[3] Nello stesso senso Cass. pen., Sez. VI, 9 novembre 2006, n. 41365, in
Cass. Pen., 2007, 3667.