ISSN 2039-1676


5 marzo 2010

Corte d'appello di Genova, 5.3.2010 (dep. 15.4.2011), Pres. D'Angelo, Est. Settembre (G8 - Bolzaneto)

La sentenza d'appello sui fatti di Bolzaneto del 2001: accertata la responsabilità  degli imputati, ma ormai in gran parte prescritti i reati contestati in assenza di una norma incriminatrice della tortura nell'ordinamento italiano

Lo scorso 15 aprile 2011 sono state depositate le motivazioni, qui scaricabili nell'allegato in calce alle presenti note, della sentenza resa dalla Corte d’appello di Genova in relazione ai fatti accaduti durante il vertice del G8 del 2001 presso la caserma “Nino Bixio” di Bolzaneto, oggetto di un procedimento penale a carico di oltre una quarantina di agenti e funzionari delle forze dell’ordine.
 
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Su richiesta della Procura della Repubblica, con decreto in data 16 maggio 2005 il giudice per l’udienza preliminare di Genova rinviava a giudizio 45 imputati appartenenti alle forze dell’ordine in servizio a Bolzaneto fra il 19 e il 21 luglio 2001, formulando a loro carico ben 120 distinti capi d’imputazione.
 
In estrema sintesi, queste le condotte contestate dai pubblici ministeri agli ufficiali delle forze dell'ordine:
 
– avere ingiustificatamente e ripetutamente percosso, o avere consentito che altri percuotessero, con calci, pugni e schiaffi e talvolta colpi di manganello alla testa, al volto, alla schiena, ai reni, allo stomaco, ai testicoli, nonché attingendole con gas asfissianti e urticanti, le persone arrestate presenti nella caserma di Bolzaneto, cagionando a vari arrestati malori e/o lesioni personali e, in un caso, una lesione grave (cagionata da un agente di polizia che divaricò con forza due dita di una mano di un arrestato, provocandogli così una ferita lacerocontusa guarita in 50 giorni);
 
– avere costretto, o non impedito che altri costringessero, le persone arrestate presenti nella caserma di Bolzaneto a «rimanere per numerose ore in piedi all’interno delle celle, con il viso rivolto verso il muro della cella, con le braccia alzate oppure dietro la schiena, o sedute per terra ma con la faccia rivolta verso il muro, con le gambe divaricate, o in altre posizioni non giustificate [...], senza poter mutare tale posizione», e a subire «percosse calci pugni insulti e minacce, anche nel caso in cui non riuscivano più per la fatica a mantenere la suddetta posizione nonché per farli desistere da ogni benché minimo tentativo, del tutto vano, di cercare posizioni meno disagevoli»;
 
– avere minacciato, o comunque non impedito che altri minacciassero, di infliggere violenze sessuali o lesioni fisiche numerosi arrestati, in un caso simulando addirittura un’esecuzione sommaria;
 
– avere costretto, o non impedito che altri costringessero, le persone arrestate che dovevano essere accompagnate ai bagni a camminare “con la testa abbassata all’altezza delle ginocchia e le mani sulla testa”, mentre altro personale appartenente alle Forze dell’Ordine presente nei locali le derideva, ingiuriava e percuoteva;
 
– avere mantenuto, o avere consentito che altri mantenessero, le persone arrestate senza rifornimenti di cibo, bevande e generi necessari alla cura e alla pulizia personale in quantità adeguata in rapporto alla lunga durata del periodo di permanenza presso la struttura;
 
– avere costretto, o comunque non impedito che altri costringessero, taluni degli arrestati a ripetere frasi fasciste o comunque contrarie alle loro convinzioni politiche, o comunque a “ad ascoltare espressioni e motivi di ispirazione fascista contrariamente alla loro fede politica” (quali inni e slogan fascisti);
 
– avere costretto, o comunque non impedito che altri costringessero, a compiere movimenti innaturali aventi lo scopo di umiliarli;
 
– avere costretto, o avere consentito che altri costringessero, un’arrestata a subire il taglio di tre ciocche di capelli;
 
– avere pesantemente offeso, o non avere impedito che altri offendessero, l’onore delle persone arrestate a mezzo di «insulti riferiti alle loro opinioni politiche (quali ‘zecche comuniste’, ‘bastardi comnisti’, ‘comunisti di merda’, [...], ‘Che Guevara figlio di puttana’, ‘bombaroli’, ‘popolo di Seattle fate schifo’ e altre di analogo tenore), alla loro sfera e libertà sessuale e alle loro credenze religiose e condizione sociale (quali ‘ebrei di merda’, ‘frocio di merda’ e altre di analogo tenore)»;
 
– avere costretto, o avere consentito che altri costringessero a mezzo di percosse o altre violenze taluni degli arrestati a firmare i verbali relativi all’arresto contro la loro volontà;
 
– avere danneggiato o sottratto, o consentito che altri danneggiassero o sottraessero, oggetti personali alle persone arrestate;
 
non avere consentito alle persone arrestate di avvisare familiari e parenti del loro arresto, e agli arrestati di nazionalità stranieri di avvertire l’ambasciata o il consolato del paese di appartenenza, attestando anzi falsamente sui verbali relativi all’arresto – o consentendo che altri attestassero falsamente sui verbali medesimi – la volontaria rinuncia degli arrestati a tali facoltà;
 
I pubblici ministeri avevano inoltre chiesto e ottenuto il rinvio a giudizio di alcuni ufficiali medici presenti nella caserma di Bolzaneto, contestando loro, in sintesi, le condotte seguenti:
 
– avere sottoposto, o avere consentito che altri sottoponesse, le persone arrestate a visite mediche con modalità non rispettose della dignità della persona, in particolare facendole restare nude nell’infermeria oltre il tempo necessario per l’espletamento della visita (consentendo che persone di sesso femminile restassero nude anche alla presenza di uomini), sottoponendo le stesse ad insistenti e non necessarie ispezioni nelle parti intime, omettendo di accertare condizioni di reale sofferenza e disagio fisico lamentate da molti arrestarti sottoposti alla visita, insultando durante l’esecuzione della visita gli arrestati con espressioni di scherno e con pesanti allusioni alla loro fede politica e alla sfera sessuale, ed omettendo infine di inoltrare referto all’autorità giudiziaria per segnalare la commissione di violenze fisiche a danno degli arrestati ad opera degli agenti di polizia, in tal modo aiutandoli ad eludere le investigazioni dell’autorità;
 
– avere eseguito senza anestesia la sutura di una ferita lacero contusa alla mano provocata in precedenza da agenti di polizia in danno di Azzolina Giuseppe, rivolgendo (o consentendo che fosse rivolta) al medesimo la minaccia “se non ti stai zitto, ti diamo le altre”, evidentemente prospettando ulteriori percosse se l’Azzolina non avesse sopportato in silenzio il dolore provocato dalla sutura;
 
– avere omesso di disporre il ricovero ospedaliero di un’arrestata che evidenziava una importante frattura ossea in seguito alle violenze subite, frattura che avrebbe necessitato immediati interventi diagnostici e terapeutici non effettuabili in carcere;
 
– avere direttamente percosso taluno degli arrestati durante la visita medica;
 
– avere sottoposto durante la visita medica un arrestato mentre era nudo a pesanti allusioni sulla sua vita sessuale.
 
Non esistendo nell’ordinamento penale italiano alcuna norma incriminatrice della tortura e/o dei trattamenti inumani o degradanti, i fatti di violenza, minacce e ingiurie sopra descritti venivano giuridicamente qualificati dai pubblici ministeri, secondo i casi, come:
 
lesioni personali gravi (art. 583 co. 1 c.p.), punibili con la reclusione da tre a sette anni, nel solo caso di cui al capo di imputazione n. 57 (relativo alla ferita alla mano provocata alla parte offesa Azzolina Giuseppe);
 
lesioni personali (art. 582 c.p.), punibili con la reclusione da tre mesi a tre anni;
 
percosse (art. 581 c.p.), punibili con la reclusione da quindici giorni a sei mesi o con una pena pecuniaria;
 
violenza privata (art. 610 c.p.), punibile con la reclusione da quindici giorni a quattro anni;
 
abuso d’ufficio (art. 323 c.p.), punibile con la reclusione da sei mesi a tre anni;
 
abuso di autorità contro arrestati o detenuti (art. 608 c.p.), punibile con la reclusione da quindici giorni a trenta mesi;
 
minaccia (art. 612 c.p.), punibile con la pena pecuniaria sino a € 51 ovvero, se la minaccia è grave, con la reclusione da quindici giorni a un anno;
 
ingiuria (art. 594), punibile con la reclusione da quindici giorni a sei mesi e con la pena pecuniaria.
 
Ai medici responsabili delle operazioni di vista medica erano stati inoltre contestati i reati di:
 
omissione di atti d’ufficio (art. 328 c.p.), punibile con la reclusione da sei mesi a due anni, in relazione al mancato ricovero in ospedale di taluno degli arrestati;
 
favoreggiamento personale (art. 378 c.p.), punibile con la reclusione da quindici giorni a quattro anni, in relazione alla mancata segnalazione all’autorità giudiziaria delle lesioni di taluni arrestati;
 
omissione di referto (art. 365 c.p.), punibile con la con la multa fino a € 516, ancora in relazione alla mancata segnalazione all’autorità giudiziaria delle lesioni di taluni arrestati.
 
A taluni funzionari delle forze di polizia, infine, i pubblici ministeri avevano contestato altresì il reato di falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici (art. 479 c.p.), punibile nell’ipotesi aggravata con la reclusione da tre a dieci anni, in relazione agli episodi di falsa attestazione nei verbali della rinuncia dell’arrestato alla facoltà di avvisare parenti o familiari e di avvalersi dell’assistenza diplomatica o consolare.
 
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Dopo un lunghissimo dibattimento, nel quale si costituirono parti civili 165 delle numerosissime persone offese individuate dai pubblici ministeri, il Tribunale di Genova emetteva la sentenza di primo grado il 14 luglio 2008.
 
Il collegio perveniva in quell’occasione alla condanna di soli 14 dei 45 imputati, assolvendo i restanti in gran parte per difetto di prova sufficiente:
 
- in qualche caso sulla materialità dei fatti contestati;
 
- in altri casi sull’identificazione del singolo come autore materiale delle condotte lamentate delle vittime e considerate accertate dal Tribunale;
 
- nella maggior parte dei casi sulla sussistenza del dolo in capo ai singoli imputati, in termini di effettiva consapevolezza e volontà dei fatti accaduti. Ciò, in particolare, con riferimento a molti imputati di grado gerarchico elevato, che avevano la responsabilità complessiva delle operazioni ed erano, altresì, presenti sul luogo, rispetto ai quali il Tribunale non ritenne provata oltre ogni ragionevole dubbio la precisa intenzione – richiesta dal reato di abuso di ufficio (art. 323 c.p.) ad essi generalmente contestato – di cagionare, o quanto meno di non impedire che altri cagionassero, un danno alle persone offese.
 
Il Tribunale escludeva, altresì, il dolo di tutti gli imputati in relazione alla circostanza – pure ritenuta provata nella sua materialità, e certamente imputabile a difetti di organizzazione e di gestione complessiva dell’operazione  – che gli arrestati fossero rimasti privi per molte ore di alimenti, di liquidi e di generi di prima necessità, escludendo conseguentemente la responsabilità penale degli imputati per questo addebito.
 
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Contro la sentenza di primo grado proponevano appello i 14 condannati, nonché l’ufficio della pubblica accusa oltre alle parti civili e ai due Ministeri responsabili civili.
 
Il 5 marzo 2010 la Corte d’Appello di Genova pronunciava la sentenza di cui ora è stata depositata la motivazione, qui scaricabile in allegato.
 
Diversamente da quanto aveva ritenuto il Tribunale in primo grado, la Corte d'appello ha riconosciuto la responsabilità di tutti coloro che erano stati tratti in giudizio in primo grado (ad eccezione di due soltanto: l’uno perché deceduto e l’altro per difetto di impugnazione da parte della pubblica accusa) per la quasi totalità dei fatti loro contestati dai pubblici ministeri, condannandoli conseguentemente al risarcimento dei relativi danni in favore delle parti civili costituite.
 
In massima parte, tuttavia, i reati contestati agli imputati sono stati dichiarati prescritti.
 
Le uniche condanne penali pronunciate dalla Corte d’Appello concernono così fatti di falsità ideologica commessa da pubblico ufficiale in atti pubblici, ravvisata in capo a 4 imputati in ordine agli episodi di falsa verbalizzazione della rinuncia degli arrestati ad avvalersi della facoltà di avvisare familiari o parenti e di ricorrere all’assistenza diplomatica e consolare, nonché l’unico episodio di violenza sfociato in una lesione personale grave (la frattura alla mano sofferta da Azzolina Giuseppe), del quale è stato riconosciuto colpevole un quinto imputato.
 
Tra i profili di maggiore interesse della lunghissima motivazione depositata in data 15 aprile 2011 si evidenziano:
 
a) l’affermazione secondo cui “il danno cagionato dagli imputati alle vittime di questi reati incrina la struttura psicologica del cittadino di uno Stato democratico, quando viene posto nelle mani di chi, approfittando della privazione della sua libertà, ha spadroneggiato senza limiti su di lui coi gesti e con le parole. Si tratta dunque di un danno morale elevatissimo, poiché il primo diritto riconosciuto al cittadino della Repubblica Italiana, discende direttamente dalla sua Legge Suprema: "La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo" (art. 2 Cost)”;
 
b) il riconoscimento della risarcibilità del danno non patrimoniale nei confronti dei familiari di alcune delle vittime, sul presupposto che gli effetti pregiudizievoli dei reati abbiano avuto riflessi negativi anche all’interno dei nuclei familiari, determinando in particolare anche nei congiunti delle vittime una perdita di fiducia nelle istituzioni e nelle forze dell’ordine
 
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Si segnala, infine, che nel settembre 2010 alcune delle persone offese hanno presentato ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, sostenendo tra l’altro che:
 
a) le violenze, le minacce e le ingiurie reiterate e prive di alcuna giustificazione ad opera di funzionari delle forze di polizia, le quali hanno cagionato ai “detenuti” di Bolzaneto gravi sofferenze fisiche e psichiche, hanno integrato una violazione diretta dell’art. 3 CEDU da parte dello Stato, anche in relazione alla tutela offerta all’individuo dagli artt. 9, 10 e 11 CEDU, che garantiscono le libertà di pensiero, di espressione e di riunione;
 
b) l’impossibilità di pervenire, nell’ordinamento italiano, alla condanna delle persone direttamente o indirettamente responsabili di violazioni a un diritto così fondamentale come quello riconosciuto dall’art. 3 CEDU abbia dato luogo a una violazione, da parte dello Stato italiano, degli obblighi procedurali che discendono da tale disposizione convenzionale, e che si sostanziano nel dovere di compiere indagini effettive sulla commissione di sospetti fatti di tortura o trattamenti inumani e degradanti, idonee a condurre alla identificazione e alla punizione dei responsabili (come di recente riaffermato dalla Grande Camera della Corte EDU nella sentenza sentenza Gäfgen c. Germania, del 1° giugno 2010);
 
c) l’avvenuta violazione degli obblighi di adeguata persecuzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti sul terreno penale nel caso di specie sia stata la conseguenza di una violazione strutturale, da parte dello Stato italiano, dei suoi obblighi discendenti dall’art. 3 CEDU di mettere in pratica un appropriato quadro legislativo in grado di prevenire la commissione di violazioni del diritto convenzionale; violazione integrata i) dalla mancanza, nel sistema penale italiano, di una norma incriminatrice della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti provvista di un quadro sanzionatorio proporzionato alla gravità dei fatti, e ii) da un regime normativo in tema di prescrizione del reato che, interagendo con la mancata previsione di una norma incriminatrice ad hoc, fa sì che simili fatti corrano il serio rischio di restare sistematicamente impuniti.
 
 
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Per una più ampia analisi di questa vicenda e di quella parallela relativa ai fatti accaduti nella scuola Diaz, si consenta qui il rinvio ad A. Colella, C'è un giudice a Strasburgo. In margine alle sentenze sui fatti della Diaz e di Bolzaneto: l'inadeguatezza del quadro normativo italiano in tema di repressione penale della tortura, in Riv. it. dir. proc. pen., 2009, pp. 1801-1843. (Note a cura di Angela Colella e Francesco Viganò ).
 
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