ISSN 2039-1676


16 ottobre 2012 |

La sentenza della Cassazione sui fatti della scuola Diaz: un nuovo tassello nella trama dei rapporti tra sistema penale italiano e Convenzione europea dei diritti dell'uomo

Guida alla lettura di Cass. pen., Sez. V, 5 luglio 2012 (dep. 2 ottobre 2012), n. 38085, Pres. Ferrua, Rel. Savani e Palla

Per accedere alla sentenza, clicca qui.

 

1. Dopo una rapida ricostruzione del contesto nel quale si inseriscono i fatti oggetto del processo (§ I: pp. 1-2), il § II dei "ritenuto in fatto" offre un quadro completo delle imputazioni elevate a carico degli ufficiali e degli agenti delle forze dell'ordine e delle statuizioni rese dai giudici di primo e secondo grado in relazione a ciascuna di esse (pp. 2-7). I successivi §§ III-XXVII (pp. 7-115) danno conto, invece, del contenuto dei ricorsi - tutti articolati su una pluralità di motivi, talvolta integrati da successive memorie - proposti dal Procuratore Generale di Genova, dalle difese degli imputati, dal Ministero dell'Interno in qualità di responsabile civile e da alcune delle parti civili.

 

2. Il nucleo centrale dei "considerato in diritto" è rappresentato dai §§ 1-7 (pp. 115-124), dedicati alla disamina delle due questioni preliminari sollevate da alcuni dei ricorrenti, che concernono entrambi la Convenzione europea dei diritti dell'uomo, nonché ad alcune considerazioni di ordine generale.

 

3. La prima questione preliminare affrontata dalla Corte può essere riassunta nei termini che seguono: la condanna degli imputati in appello, intervenuta dopo l'assoluzione in primo grado, violerebbe l'art. 6 § 1 CEDU così come interpretato dalla Corte EDU nella sentenza Dan c. Moldavia del 5 luglio 2011 (nella quale i giudici di Strasburgo hanno riscontrato un vulnus alla richiamata garanzia convenzionale, poiché il ricorrente - assolto in primo grado -  era stato condannato sulla base di una diversa valutazione delle dichiarazioni testimoniali in atti da parte della Corte d'appello, senza che i testi fossero nuovamente sentiti dai giudici d'appello).

La Quinta Sezione utilizza qui la tecnica del distinguishing, rilevando da un lato come, nel caso di specie sottoposto al suo esame, "il compendio probatorio a carico degli imputati, che supporta la sentenza di condanna di secondo grado, [sia] costituito non solo da prove testimoniali, ma anche da prove documentali, audio e video, dalla documentazione sanitaria, dalla documentazione del traffico telefonico, dalle registrazioni di conversazioni telefoniche, oltre che dalle dichiarazioni rese contra se dagli imputati e quelle, sempre provenienti dagli imputati, giudicate in evidente contrasto con la documentazione audiovisiva acquisita agli atti"; ed evidenziando dall'altro che i giudici d'appello non hanno operato una differente valutazione delle testimonianze, ma hanno semplicemente tratto da talune di esse conseguenze diverse in punto di responsabilità degli imputati.

 

4. La seconda questione preliminare attiene, invece, alla eccezione - formulata dalla Procura generale di Genova - di illegittimità costituzionale dell'art. 157 c.p., nella parte in cui non prevede, in contrasto con l'art. 3 CEDU come interpretato dalla Corte EDU nella copiosa giurisprudenza in materia, l'imprescrittibilità dei fatti di tortura e di trattamenti inumani e degradanti, comunque qualificati ai sensi del diritto interno.

I giudici della Suprema Corte riconoscono anzitutto che le violenze occorse presso la scuola Diaz sono state di una gravità inusitata, attestata dal fatto che le violenze si sono scatenate contro «persone inermi, alcune dormienti, altre già in atteggiamento di sottomissione con le mani alzate e spesso, con la loro posizione seduta, in manifesta attesa di disposizioni»; una violenza, dunque, «non giustificata [...], punitiva, vendicativa e diretta all'umiliazione e alla sofferenza fisica e mentale delle vittime». Una violenza che secondo l'apprezzamento della Corte integra gli estremi della nozione di "tortura" risultante dalla Convenzione ONU del 1984, o quanto meno di "trattamento inumano e degradante" vietato dall'art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, che - secondo la pertinente giurisprudenza di Strasburgo - deve essere represso dagli Stati membri con rimedi effettivi, e in particolare a mezzo di processi penali che non dovrebbero essere soggetti a prescrizione.

La questione sollevata dalla Procura generale di Genova viene nondimeno ritenuta manifestamente infondata, dal momento che la stessa «si scontra contro principi fondamentali del sistema penale costituzionale», e in particolare con il divieto per la Corte costituzionale di adottare pronunce il cui effetto sia quello «di incidere in peius sulla risposta punitiva o su aspetti inerenti alla punibilità, aspetti fra i quali, indubbiamente, rientrano quelli inerenti la disciplina della prescrizione»  (secondo quanto ribadito dal giudice delle leggi ancora nella sent. 1° agosto 2008, n. 324).

Né ad un diverso esito interpretativo potrebbe giungersi sulla scorta della giurisprudenza costituzionale in tema di "norme penali di favore", ché nel caso di specie - a differenza che in quelli esaminati dalla Corte costituzionale nella sent. 394/2006 - l'effetto in malam partem non rappresenterebbe una mera conseguenza della riespansione automatica di una norma incriminatrice dettata dal legislatore (e già oggetto di una disciplina derogatoria poi dichiarata incostituzionale), ma costituirebbe il frutto di un'indebita attività di creazione del diritto da parte del giudice delle leggi.

Il rimedio alla denunciata violazione convenzionale spetta dunque - secondo la Cassazione - esclusivamente al legislatore, essendo precluso alla Corte costituzionale correggere in peius la disciplina legislativa della prescrizione del reato.

 

5. Superate così le due questioni preliminari, i giudici della Cassazione giungono al nodo cruciale della ricostruzione dei fatti operata dalle sentenze di merito.

La sentenza condivide, anzitutto, la valutazione di legittimità della perquisizione ex art. 41 T.U.L.P.S. all'interno della scuola già formulata, seppur con argomentazioni differenti, in entrambi i gradi del giudizio di merito: l'aggressione alle pattuglie della polizia avvenuta  in via Cesare Battisti, nei pressi della scuola, e la conversazione telefonica intercorsa tra il capo della Digos Mortola e il coordinatore del Genoa Social Forum Kovac «avevano fatto sì che non potesse escludersi in modo assoluto la presenza di armi all'interno del plesso scolastico»: il che, appunto, bastava per sostenere la sostanziale legittimità dell'operazione.

Certamente illegittime furono però - secondo la valutazione dei giudici di merito, avallata dalla Cassazione - le modalità con le quali fu realizzata l'operazione di "messa in sicurezza" e di perquisizione dell'edificio, effettuata con modalità sostanzialmente militari, come dimostrano: «l'elevato  numero di operatori  (circa 500, tra  agenti  di polizia  e carabinieri, questi ultimi  incaricati  solo della cintura­zione degli edifici)» utilizzati; la manovra "a tenaglia" elaborata per avvicinarsi al plesso scolastico; la «mancata indicazione della modalità operativa alternativa al lancio dei lacrimogeni inizialmente proposta da Vincenzo CANTERINI, Comandante  del I° Reparto Mobile di Roma della Polizia di Stato»; e, soprattutto, la «accertata e incontroversa mancata indicazione delle "regole  di ingaggio" impartite agli operatori di p.g.».

Tanto ciò era vero» - scrivono i giudici della Quinta sezione - «che nessuno degli imputati [...] aveva mai posto in dubbio  che l'esito  dell'operazione era stato l'indiscriminato e gratuito "pe­staggio" di pressoché tutti gli occupanti il plesso scolastico, preceduto dall'altrettanto gratuita aggressione portata dagli operatori di polizia nei confron­ti di cinque inermi  persone  che si trovavano fuori dalla scuola (il giornalista  in­glese Mark COVELL, che ha subìto la frattura di otto  costole e della mano, oltre l'avulsione  di diversi  denti,  fino  a  perdere  i sensi;  Giuseppe  SCRIVANI, Paolo TIZZETTI, Matteo NANNI, i quali tutti hanno con sicurezza indicato gli autori delle condotte  in loro danno in appartenenti alla polizia; FRIERI, colpito  con i manga­nelli dalla parte  del manico, nonostante  l'esibizione  del pass, quale giornalista  - pass strappatogli e non più rinvenuto - , finché era riuscito  a mostrare  la tessera di consigliere comunale)».

«Altrettanto certo  in  causa»  - prosegue la sentenza - «è  stato  l'esito  dell'irruzione, che  ha  portato all'arresto, all'esterno e all'interno della scuola, di 93 persone, con l'accusa di associazione a delinquere  finalizzata  alla devastazione  e al saccheggio, resistenza aggravata  a pubblico  ufficiale, possesso di congegni esplosivi ed armi improprie; 87 di esse hanno riportato lesioni e due (Mark COVELL e Melanie JONASH) han­no corso pericolo di vita. Quanto  alle  modalità  con cui sono state  realizzate  le lesioni  in danni  degli occupanti la scuola "Diaz", le parti  offese [...] hanno  concordemente  riferito  che tutti gli operatori  di polizia, appena entrati  nell'edificio, si erano scagliati sui presenti, sia che dormissero, sia che stessero immobili con le mani alzate, colpendo tutti con i manganelli  (i c.d. "tonfa") e con calci e pugni, sordi alle invocazioni  di "non  violenza"  provenienti dalle vittime, alcune con i documenti  in mano, pure insultate  al grido di "bastardi"».

«Allora è del tutto  condivisibile» - concludono infine gli estensori - «perché formulato all'esito  di una analisi delle risultanze probatorie condotta secondo i canoni della logica argomentativa, il giudizio espresso dalla Corte genovese di condotta cinica e sadica da parte  degli operatori  di polizia, in nulla provocata  dagli occupanti la scuola, tanto  che il Co­mandante  del  VII  Nucleo,  Michelangelo  FOURNIER, ha, con  acrobazia  verbale tanto  spudorata quanto  risibile, dapprima  parlato  di "colluttazioni unilaterali", per poi finire con l'ammettere la reale entità dei fatti, per descrivere  i quali ha usato la significativa  e fotografica  espressione "macelleria messicana"».

 

6. Non è qui possibile riassumere le considerazioni espresse dalla Suprema Corte in relazione a ciascuno dei ricorsi presentati dagli imputati, articolati ognuno su più motivi ed in larga parte sovrapponibili.

Si affronteranno pertanto, nei paragrafi che seguono, soltanto quelli a nostro avviso più significativi.

 

7. Quanto all'imputazione a titolo di concorso nei reati di lesione materialmente commessi dagli agenti (mai identificati) - che l'accusa aveva elevato nei confronti di tutti i capi squadra, nonché del Comandante del primo reparto Canterini e di quello del VII Nucleo Fournier -  i giudici della Cassazione hanno evidenziato come la responsabilità dei suddetti imputati sia stata correttamente affermata dalla Corte d'appello di Genova, posto che la mancata indicazione di ordini a cui attenersi - ancor più necessari dato lo stato di nervosismo e di frustrazione in cui versavano gli agenti, talmente evidente da essere percepito persino dal prefetto La Barbera con l'icastico commento che «ognuno conosce gli animali suoi» -  ha confermato in questi ultimi la convinzione di avere "carta bianca" nella gestione dell'operazione, che per come era stata concepita dava tacitamente per assodato il ricorso indiscriminato all'uso della forza. Non è certo un caso che l'ordine di interrompere l'operazione sia intervenuto, peraltro da parte del solo Fournier, solo di fronte alla vista del corpo esanime di Melanie Jonash: come a dire che tutto quel che era avvenuto fino a quel momento era stato accettato o comunque preventivato dai dirigenti delle forze dell'ordine presenti in loco.

Significativo è altresì, secondo la Cassazione, che le violenze abbiano avuto fine non appena Fournier emanò l'ordine di interrompere l'operazione: il che dimostra come, se davvero gli imputati avessero voluto dissociarsi dall'operato dei loro uomini, ben avrebbero potuto intervenire prima, impedendo che soggetti inermi fossero esposti alle loro "intemperanze".

Dal momento, tuttavia, che nell'agosto 2010 è maturato il termine di prescrizione anche per i fatti di lesioni personali gravi, la Corte dichiara non doversi procedere per tale ragione, confermando peraltro le relative statuizioni civili (§ 10: p. 129).

 

8. In riferimento al reato di falso in atto pubblico commesso dal p.u. contestato a Canterini per una nota al Questore in cui dava conto della «vigorosa resistenza da parte di alcuni degli occupanti in ragione della avvenuta chiusura del cancello della scuola, della chiusura dei portoni di accesso, delle barricate erette per ostacolare l'accesso della polizia, nonché della presenza di occupanti ed agenti feriti», i giudici della Quinta sezione evidenziano la correttezza della qualificazione giuridica del fatto operata dai giudici del merito, essendo tale atto una vera e propria relazione di servizio e non potendo in alcun modo trovare applicazione, quale esimente, la regola del nemo tenetur se detegere (§ 13: pp. 130-131).

La consapevolezza che tale atto sarebbe certamente confluito nella comunicazione della notizia di reato che il questore avrebbe dovuto trasmettere all'autorità giudiziaria, inoltre, rende possibile affermare la responsabilità penale dello stesso Canterini anche per il reato di calunnia, a nulla rilevando che la stessa comunicazione sia stata predisposta il giorno successivo da altri ufficiali (§ 16: pp. 132-133).

 

9. Quanto a Mortola e Di Sarro, dirigenti della DIGOS di Genova, che  «nella loro veste di scout erano alla testa delle due colonne di uomini provenienti da nord e da sud che, con manovra a tenaglia, hanno circondato l'edificio scolastico e poi raggiunto l'ingresso della "Diaz"», la Corte ritiene provata la loro responsabilità per i reati di falso: entrambi avevano infatti quantomeno avuto modo di osservare il corpo del giornalista inglese Max Covell, riverso in terra al di fuori del cortile, che nel verbale di arresto veniva invece indicato come uno dei soggetti che si trovavano all'interno della scuola e che si erano resi responsabili delle condotte di resistenza violenta nei confronti delle forze dell'ordine (§ 17: 133-135).

La circostanza rappresentata da Di Sarro, che sosteneva di aver sottoscritto sostanzialmente "sulla fiducia" il verbale di arresto (in cui veniva richiamato per relationem anche quello di perquisizione), non vale certo ad escludere la colpevolezza dello stesso in relazione ai suddetti reati, posto che, da un lato, egli era stato presente allo svolgimento dell'intera operazione, e dall'altro, va ribadito in linea generale che il p.u. non può in nessun caso apporre firme "al buio", anche laddove esistano, in tal senso, prassi illegittimamente tollerate  o addirittura  promosse, che nel caso di specie peraltro non potevano rilevarsi (§ 18: pp. 135-136).

 

10. In riferimento al ricorso di Ferri, la Corte ritiene «del tutto logica la conclusione del giudice d'appello circa la piena partecipazione [...] del ricorrente alla predisposizione di atti e verbali che giustificassero, mediante distorta rappresentazione della realtà, una decisione di procedere ad arresti per inesistenti ipotesi di reato, presa da lui come dagli altri funzionari presenti anche per coprire, con la giustificazione della resistenza, le violenze compiute da colleghi e  sottoposti»: l'assenza di bottiglie molotov all'interno della scuola, il numero e la gravità dei feriti e il fatto che l'ammasso degli zaini e delle armi improprie impedisse la riconducibilità delle stesse ai singoli arrestati - elementi, tutti, constatabili ictu oculi - davano prova che lo stesso avesse partecipato attivamente alla decisione di procedere all'arresto degli occupanti la scuola sulla base della formulazione di un'accusa associativa (§ 20: pp. 137-147).

 

11. Quanto al ricorso di Di Bernardini, che lamentava che dalla sentenza di secondo grado non poteva ricavarsi la prova evidente della provenienza ab externo delle bottiglie molotov, i giudici della Cassazione evidenziano che egli «non avrebbe avuto alcuna possibilità di ritenere che le molotov fossero state portate dall'interno all'esterno della scuola, per poi venire a lui consegnate da Troiani, che ben conosceva», dato che, per un verso, egli aveva avuto modo di osservare personalmente che all'interno dell'edificio non vi erano bottiglie molotov e, per altro verso, aveva ricevuto le bottiglie medesime da Troiani, al quale erano appunto affidati compiti di pattugliamento esterno (§ 24: pp. 153-155).

 

12. La Corte ritiene quindi del tutto condivisibile l'affermazione di responsabilità nei confronti di Nucera e Panzieri per i reati di falso e calunnia in relazione al tentato omicidio di cui Nucera asseriva di essere stato vittima: «la circostanza della mancata identificazione e del mancato arresto dell'autore di un episodio di siffatta gravità», peraltro avvenuto nel contesto di un'operazione di messa in sicurezza realizzata «con una quantità di uomini diverse volte multipla del numero di presenti nella scuola», può spiegarsi solo «con l'essere l'episodio mai avvenuto, tassello invece di quella più ampia opera mistificatoria in corso e realizzata (...) in una delle numerose aule con l'utilizzo di banchi o di cattedre scolastiche per stendere gli indumenti uno dentro l'altro, come fossero indossati, e procurare i tagli con un coltello affilato» (§ 26: pp. 157-160).

 

13. Presenta profili di interesse anche il § 28, in cui i giudici della Quinta sezione hanno evidenziato gli elementi a sostegno della fondatezza dell'accusa di falso elevata nei confronti di Troiani in relazione all'episodio delle molotov: egli era infatti perfettamente al corrente del fatto che si stavano perquisendo i locali della scuola, e, nel consegnare le bottiglie a Di Bernardini, non poteva non essersi rappresentato che «i reperti sarebbero stati compresi fra quelli rinvenuti nel corso dell'attività di polizia giudiziaria in corso in quel momento ed in quel luogo».

Tale conclusione non si pone in contrasto con l'assoluzione dell'imputato dal delitto di calunnia, posto che, all'opposto, «non poteva apparirgli certo in quel momento, in una fase in cui le persone presenti per buona parte venivano soccorse perché ferite, che di quel rinvenimento si sarebbe fatto l'uso consistito nell'attribuzione della detenzione a persone identificate, o identificabili, utilizzo deliberato senza che egli abbia partecipato alle successive fasi dell'attività di polizia giudiziaria»: deve pertanto ritenersi infondato, ad avviso della Corte, il relativo motivo di ricorso da parte del Procuratore generale di Genova (pp. 161-165).

 

14. Quanto a Francesco Gratteri, la «figura apicale di riferimento per gli appartenenti alle squadre mobili», la Corte di Cassazione ritiene pienamente provata la sua responsabilità per i reati di falso e calunnia contestatigli dalla pubblica accusa, evidenziando come in ben 13 frammenti video egli compaia nel cortile della scuola mentre, agitando il "tonfa", ordina di fermare le persone che stavano tentando la fuga attraverso i ponteggi, e in un altro venga ritratto mentre «partecipa al c.d."conciliabolo" di funzionari con al centro il sacchetto contenente le bottiglie molotov tenuto in mano dal LUPERI». La sua «partecipazione diretta e attiva per tutta la durata dell'operazione "Diaz"», nondimeno, «non si è con essa esaurita, poiché è proseguita [...] nella fase della redazione degli atti, nonché nel controllo del loro contenuto, preceduto dalla richiesta rivolta al CANTERINI di redigere la relazione al questore [...] e dalla richiesta di certificati medici attestanti le lesioni subite dagli operanti, per suffragare il giudizio contenuto nella comunicazione della notizia di reato [...] sulla proporzione tra forza usata e violenta resistenza incontrata».

Lungi dall'essere stato chiamato a rispondere per tali reati «sulla base di un apodittico "non poteva non sapere" riferito ad una responsabilità da posizione di comando», egli è stato, ad avviso della Corte, colui che ha addirittura «dato impulso» alla «scellerata operazione mistificatoria», pur essendo pienamente consapevole di quanto stava avvenendo se non altro per aver visto il corpo esanime del giornalista inglese Max Covell e per essere entrato all'interno dell'edificio quando l'intervento era in pieno svolgimento (§ 29: pp. 165-168). 

Il concorso morale nei reati di falso da parte del medesimo Gratteri si è dunque estrinsecato «in istigazione, suggerimento e rafforzamento dell'intento delittuoso dei sottoscrittori materiali dei verbali [...], il tutto finalizzato alla calunnia e all'arresto illegale degli occupanti la scuola "Diaz-Pertini", onde garantire in tal modo l'impunità degli autori delle lesioni cagionate agli stessi arrestati e fornire, quanto meno nell'immediatezza, una patente di legittimità e di plausibilità ad una operazione di p.g. svoltasi invece con modalità tali da concretare [...] i reati di lesioni personali anche gravi, in assenza di qualsivoglia causa di giustificazione».

 

15. Considerazioni in gran parte simili valgono per Luperi, altra figura in posizione apicale, che come Gratteri era intervenuto «in loco dopo lo sfondamento del cancello della scuola "Pertini"», come questi partecipando con tutto il peso della propria posizione di dirigente alla gestione dell'operazione, e al contempo costituendo un preciso punto di riferimento per gli altri funzionari coinvolti nell'operazione e gerarchicamente subordinati (§ 31: pp. 169-173).

 

16. La Corte avalla, infine, la decisione dei giudici d'appello di non concedere agli imputati - fatta eccezione per Fournier, in ragione del suo pur tardivo ordine di far cessare le violenze - le circostanze attenuanti generiche, enumerando, quali elementi ostativi, la natura e la gravità dei reati loro addebitati, «la violazione dei doveri di fedeltà di tutti i prevenuti, realizzati nella consapevole preordinazione di un falso quadro accusatorio in danno degli arrestati», «la scelta di persistere negli arresti nonostante l'esito disastroso dell'intervento, creando una serie di false circostanze, funzionali a sostenere accuse così gravi da giustificare un arresto di massa, formulate peraltro in modo logico e coerente, tanto da indurre i Pubblici Ministeri a chiedere, e ottenere seppure in parte, la convalida degli arresti» (§ 24).

 

*****

 

17. Qualche considerazione a caldo.

La motivazione della sentenza sull'"operazione Diaz" si segnala per la scelta, più che mai efficace, di un registro asciutto e privo di enfasi, per il rigore nell'illustrazione degli elementi di prova a carico degli imputati e, soprattutto, per l'impegno argomentativo in relazione a profili notoriamente sfuggenti quali sono, in genere, quelli che attengono al concorso morale, specie quando lo stesso si estrinseca in condotte omissive.

La precisione con cui è stato ricostruito il "contributo causale" di ciascuno degli imputati ai reati di volta in volta contestati (dalle lesioni, alle falsità in atti, alle calunnie) destituisce, a nostro avviso, di qualsiasi fondamento le critiche - diffusamente espresse dalla stampa dopo la lettura del dispositivo, lo scorso 5 luglio - secondo cui la responsabilità dei funzionari in posizione apicale sarebbe stata affermata in maniera sostanzialmente apodittica, gettando discredito su "servitori dello Stato" che in passato erano stati protagonisti, tra l'altro, della cattura di pericolosi latitanti: il processo penale - non dovrebbe esserci alcun bisogno di ricordarlo - non è deputato a giudicare l'operato di una vita, ma ciascun imputato in relazione ad ogni singolo fatto descritto nell'imputazione.

 

18. Sotto un diverso profilo, è indubbia l'importanza del fatto che la Corte di Cassazione abbia affermato senza ombre una "verità processuale" che le vittime di quegli scellerati episodi di violenza, e con esse la società intera, da tempo attendevano: quel che accadde nel complesso scolastico "Diaz" la notte tra il 21 e il 22 luglio 2001 è ora scolpito su pietra, anche grazie al rigore metodologico e allo sforzo motivazionale profuso dai giudici della quinta sezione.

 

19. Nessuna condanna, nondimeno, è stata pronunciata in relazione agli accadimenti per cui queste vicende hanno fatto il giro del mondo, posto che anche sui reati di lesioni gravi - come alla Suprema Corte non è rimasto che accertare - si è infine abbattuta la scure della prescrizione, per effetto - anche - della perdurante (e scandalosa) mancata previsione, nell'ordinamento penale italiano, di una norma incriminatrice ad hoc per i fatti di tortura, assistita da un quadro edittale in grado di assicurare tempi di prescrizione congrui rispetto ai complessi e defatiganti accertamenti di questa particolare tipologia di reato, in cui gli organi inquirenti devono spesso scontrarsi con le reticenze, quando non delle complicità, delle stesse forze di polizia di cui devono avvalersi per l'accertamento dei fatti.

 

20. Non è certo difficile ipotizzare, a questo punto, che la pronuncia della Cassazione non chiuderà la vicenda, e che di essa si dovrà presto riparlare a Strasburgo: in seguito non solo al prevedibile ricorso dei condannati che hanno sostenuto senza successo la tesi della contrarietà della condanna di secondo grado all'art. 6 CEDU, così come interpretato dalla Corte EDU nella sentenza Dan c. Moldavia; ma anche in seguito al ricorso delle vittime delle violenze, le quali ben potranno dolersi della violazione degli obblighi discendenti dall'art. 3 CEDU, che impongono allo Stato parte di perseguire e punire con pene proporzionate alla gravità dei fatti i responsabili di condotte lesive del diritto fondamentale a non essere sottoposti a torture o a trattamenti inumani o degradanti (cfr. ampiamente sul punto, volendo, A. Colella, C'è un giudice a Strasburgo. In margine alle sentenze sui fatti della Diaz e di Bolzaneto: l'inadeguatezza del quadro normativo italiano in tema di repressione penale della tortura, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2009, pp. 1801-1843, nonché  F. Viganò, L'arbitrio del non punire. Sugli obblighi di tutela penale dei diritti fondamentali, in Studi in onore di Mario Romano, Jovene, Napoli, vol. IV, 2011, pp. 2645-2704; Id., Obblighi convenzionali di tutela penale? in V. Manes - V. Zagrebelsky, La Convenzione europea dei diritti dell'uomo nell'ordinamento penale italiano, 2011, pp. 243-298; e, su questa Rivista, Id., Sobre las obligaciones de tutela penal de los derechos fundamentales en la jurisprudencia del TEDH, 2 marzo 2012).