ISSN 2039-1676


29 ottobre 2013 |

La sentenza della Cassazione su Bolzaneto chiude il sipario sulle vicende del G8 (in attesa del giudizio della Corte di Strasburgo)

Cass., sez. V, sent. 14.6.2013 (dep. 10.9.2013), n. 3708813

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Per scaricare la sentenza della Corte di appello di Genova e la relativa scheda illustrativa a suo tempo pubblicata dalla nostra Rivista, clicca qui.

Per una più ampia analisi di questa vicenda e di quella parallela relativa ai fatti accaduti nella scuola Diaz, cfr. A. Colella, C'è un giudice a Strasburgo. In margine alle sentenze sui fatti della Diaz e di Bolzaneto: l'inadeguatezza del quadro normativo italiano in tema di repressione penale della tortura, in Riv. it. dir. proc. pen., 2009, pp. 1801-1843. Cfr. altresì, sulle due vicende, i numerosi documenti correlati elencati nella colonna a destra a fianco.

 

1. Con la sentenza qui pubblicata la Corte di Cassazione ha sostanzialmente confermato il giudizio della Corte d'Appello di Genova del 5.3.2010 sui fatti avvenuti all'interno della caserma di Bolzaneto in occasione del G8 del luglio 2001, annullando peraltro (nella maggior parte dei casi con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello) talune statuizioni civili nei confronti di una serie di imputati già prosciolti nei precedenti gradi di giudizio per intervenuta prescrizione.

 

2. Volendo tracciare un bilancio complessivo della vicenda giudiziaria, soltanto sette delle condanne sono state confermate in via definitiva, mentre - fatta eccezione per le quattro assoluzioni cui si è accennato - tutti gli altri reati contestati ai 45 imputati sono stati dichiarati prescritti:  è difficile non vedere come, nel caso di specie, la risposta offerta dall'ordinamento penale italiano a fronte di gravissime violazioni dei diritti fondamentali sia stata del tutto ineffettiva; e ciò - si badi - per cause non imputabili ai singoli magistrati inquirenti e giudicanti, ma per ragioni di sistema, legate in particolar modo all'assenza di una norma incriminatrice della tortura corredata di un apparato sanzionatorio adeguato e, ancor più, all'attuale conformazione del regime di prescrizione dei reati.

 

3. A dispetto di ciò, le 110 pagine di motivazione depositate il mese scorso conservano un'importanza fondamentale dal punto di vista dell'accertamento dei fatti di reato contestati agli imputati, che non potrà non riverberarsi sull'imminente giudizio della Corte europea dei diritti dell'uomo (già incardinato a seguito dei ricorsi di alcune delle vittime dei soprusi all'interno della caserma di Bolzaneto e della scuola Diaz, che sono stati poi riuniti a Strasburgo: clicca qui per accedere all'exposé des faits pubblicato sul sito della Corte EDU relativo ai ric. n. 28923/09, Azzolina e a., e n. 67599/10, Kutschkau e a.).

Vale allora la pena di ripercorrerne alcuni dei passaggi più significativi.

La corte di merito - hanno precisato anzitutto i giudici di piazza Cavour - non ha utilizzato il criterio di giudizio riassumibile nella formula "non poté non aver visto", affermando la responsabilità dei dirigenti sulla base della loro mera presenza all'interno della Caserma; ma, al contrario, "ha chiarito essersi raggiunta la prova dell'effettiva percezione" da parte degli stessi "di quanto andava accadendo: e ciò in quanto gli illeciti che venivano compiuti producevano fonti visive, sonore e olfattive del tutto inequivocabili per chi, operando in quel ristretto ambito spaziale e muovendosi al suo interno, in quegli stessi eventi si trovava immerso alla stregua di un testimone oculare" (p. 57).

E quel che si è rimproverato ai dirigenti medesimi non è semplicemente di non aver esercitato la loro autorità per impedire la commissione dei reati che si consumavano in loro presenza, ma di aver anzi rafforzato con la loro "consapevole inerzia" la certezza della impunità (p. 57).

Poiché era impossibile "che all'interno della struttura potessero sfuggire a chicchessia le risonanze vocali (cioè  gli ordini, i pianti, le grida, i lamenti, i cori), le risonanze sonore (cioè i transiti, le cadute, i colpi), le percezioni olfattive (cioè la puzza dell'urina, l'odore del gas urticante spruzzato, l'odore del vomito, del sudore e del sangue) e le tracce lasciate sui volti, sui corpi, sugli abiti, negli sguardi, negli ansiti e nella voce delle vittime" - si legge ancora a p. 83 - la responsabilità di quanti si trovavano in posizione di comando per aver avuto consapevolezza di tutto ciò e non averlo impedito è stata correttamente fondata sulla posizione di garanzia da essi rivestita, secondo il paradigma del concorso omissivo di cui all'art. 40 co. 2 c.p.

Quanto alla diffusione dei comportamenti illeciti ascritti agli appartenenti alle forze dell'ordine, la Cassazione ha affermato lapidariamente che "le vessazioni imposte ai detenuti furono continue e diffuse in tutta la struttura; non risulta, infatti, dalla motivazione della sentenza che vi fossero singole celle da riguardare come oasi felici nelle quali non si imponesse ai reclusi di mantenere la posizione vessatoria, non volassero calci, pugni o schiaffi al minimo tentativo di cambiar posizione, non si adottassero le modalità di accompagnamento nel corridoio (verso i bagni o gli uffici) con le modalità vessatorie e violente riferite dai testi" (pp. 85 e 86).

Secondo i giudici di piazza Cavour, infine, "la Corte d'Appello ha dato conto in modo chiaro, e conforme ai canoni della logica, delle ragioni per cui ha ritenuto che l'illecito fosse stato commesso per motivi abietti e futili" (p. 91), in particolare sottolineando come le singole condotte fossero inserite "in un generale contesto di ingiustificate vessazioni ai danni dei fermati, non necessitate dai comportamenti di costoro e riferibili piuttosto alle condizioni e alle caratteristiche delle persone arrestate, tutte appartenenti all'area dei no global" (p. 93).

 

4. Le violazioni sostanziali dell'art. 3 CEDU lamentate da alcune delle vittime nei loro ricorsi a Strasburgo saranno dunque supportate, dal punto di vista probatorio, da un accertamento giurisdizionale con efficacia di giudicato: ben più di quel che la Corte EDU pretende, dato che, per giurisprudenza costante, ogniqualvolta un soggetto che si trovava in condizioni lato sensu di detenzione affermi di aver subito lesioni (e al più fornisca referti medici idonei a supportare l'allegazione) l'onere di dimostrare che la causa delle medesime è da ricercarsi aliunde incombe sulle autorità statali.

Anche i profili di violazione procedurale dell'art. 3 CEDU che i ricorrenti hanno evidenziato vengono resi ancor più evidenti dalla sentenza della Cassazione, che mostra, per così dire, una discrasia tra motivazione e dispositivo, dato che all'accertamento di fatti qualificabili, secondo la human rights law, come torture o trattamenti inumani e degradanti non è seguita, nella stragrande maggioranza dei casi, la repressione degli stessi, proprio in ragione delle già evidenziate criticità dell'ordinamento penale italiano.

E' legittimo chiedersi, infine, se e in che misura gli esiti del terzo grado di giudizio e la rigorosissima motivazione resa dalla Suprema Corte tanto per le vicende di Bolzaneto quanto per quelle della Diaz condizioneranno le strategie difensive dello Stato italiano a Strasburgo: non apparirebbe contraddittorio negare che le gravissime violazioni dell'art. 3 CEDU lamentate dai ricorrenti siano avvenute o ridimensionarne la portata, dopo che il più alto organo giurisdizionale dello Stato si è espresso sul punto con inequivocabile chiarezza?