ISSN 2039-1676


21 gennaio 2013 |

Sugli obblighi di prevenzione e di repressione di tortura e trattamenti inumani e degradanti: una poco conosciuta sentenza di condanna dell'Italia da parte della Corte EDU

Nota a C. eur. dir. uomo, II sez., sent. 31 luglio 2012, M. e altri c. Italia e Bulgaria

La recentissima sentenza Torreggiani c. Italia in materia di sovraffollamento carcerario (clicca qui per accedere alla nostra scheda e all'ormai copioso materiale correlato pubblicato dalla nostra Rivista), della quale molto si sta discutendo in questi giorni, non costituisce purtroppo un unicum nella recente giurisprudenza della Corte concernente l'Italia: già l'estate scorsa il nostro Paese era stato condannato per violazione dell'art. 3 CEDU, in una vicenda che concerneva l'acquisto a scopo di matrimonio, violenze fisiche e abusi sessuali di una minore da parte da parte di due uomini adulti di etnia rom. Il nostro Paese era stato in quel caso condannato per violazione degli obblighi c.d. procedurali discendenti dall'art. 3, in relazione agli addebiti formulati dalla madre della ragazza - e ritenuti fondati dalla Corte - di superficialità dell'indagine svolta dall'autorità giudiziaria italiana in seguito alla denuncia della vittima e all'arresto da parte della polizia del presunto responsabile.

Crediamo opportuno richiamare l'attenzione su questa prouncia, ancorché non recentissima - ma divenuta definitiva soltanto nel dicembre scorso -, che ben illumina quale sia l'ampiezza degli obblighi discendenti dalle norme convenzionali poste a tutela dei più importanti diritti fondamentali, quale il diritto a non subire tortura e trattamenti inumani o degradanti: obblighi che incombono su tutti i poteri dello Stato a protezione di tutti gli individui che si trovino entro la "giurisdizione" (art. 1 CEDU) dello Stato parte della Convenzione. Anche, dunque, sulla polizia e sulla magistratura inquirente, i cui atti e le cui omissioni possono essere oggetto di un attento scrutinio da parte della Corte di Strasburgo, come quello operato in questo caso (F.V.)

Per leggere il testo della sentenza qui illustrata, clicca qui.


1. La sentenza in commento, che condanna l'Italia[1] per violazione dell'art. 3 Cedu sotto il profilo procedurale, presenta numerosi profili di interesse, tra cui, da un lato, il tema delle positive obligations gravanti sullo Stato per la protezione degli individui da tortura e trattamenti inumani o degradanti, dall'altro il tema della proibizione di schiavitù, servitù e lavoro forzato (articoli 3 e 4 Cedu)

 

Questo il fatto nelle sue linee essenziali[2]. A.[3], diciassettenne di nazionalità bulgara, si reca in Italia insieme ai genitori B. e C., in seguito alla proposta di lavoro da parte di X., cittadino serbo di origine rom. L'incarico consiste nello svolgimento di lavori domestici presso la villa di proprietà di X., situata in provincia di Vercelli.

Dopo alcuni giorni di presenza in Italia della famiglia, X. rivolge a C. - padre della ragazza - una proposta di matrimonio tra questa ed il proprio nipote Y.

Secondo quanto sostenuto dai ricorrenti, C. sarebbe stato minacciato con armi da fuoco e picchiato per costringerlo al acconsentire al matrimonio. Secondo la ricostruzione proposta dalle autorità italiane, invece, i genitori avrebbero acconsentito a fronte del pagamento di € 11.000 in loro favore; si sarebbe trattato di un matrimonio conforme alla tradizione rom, avvenuto con il consenso della ragazza[4].

Poco dopo la cerimonia matrimoniale, avvenuta il 18 maggio 2003, B. e C. tornano in Bulgaria, mentre A. rimane in Italia, con Y.. Il 24 maggio, tuttavia, B. (la madre) rientra in Italia e denuncia, presso la questura di Torino, il rapimento della figlia A., nonché di essere stata picchiata e minacciata insieme al marito dai rapitori.

La polizia, dopo lo svolgimento di alcune indagini, l'11 giugno 2003 si reca presso la villa dove si trovano A. ed Y., "libera" A. ed arresta alcune persone, poi rilasciate. A. e B., dopo essere state interrogate, tornano in Bulgaria.

 

2. I ricorrenti sostengono che, durante il mese passato presso la villa di X., A. sia stata picchiata, stuprata e costretta a partecipare a furti organizzati da X. ed Y.. Ciò che i ricorrenti lamentano, sotto il profilo dell'art. 3, è in particolare la lentezza delle autorità italiane nell'intervenire per liberare la ragazza, nonchè le gravi carenze investigative per accertare i reati denunciati.

Le autorità italiane, infatti, dopo aver interrogato A. e B.[5], ed aver trovato presso la villa alcune foto della cerimonia matrimoniale tra A. ed Y.[6], avevano deciso, già il giorno successivo, di avviare un procedimento penale a carico di A. e B. per calunnia nei confronti dei presunti rapitori[7]. Per nessuna delle due donne, comunque, il procedimento è sfociato in una condanna[8].

Oltre alla  summenzionata carenza di indagini, i ricorrenti lamentano una serie di altre violazioni, concernenti l'art. 3 (circa le modalità con cui A. e B. sono state interrogate dalle autorità italiane[9], la mancanza di indagini circa la denunce di B. e C. di aver subito minacce e percosse da parte dei rapitori della figlia, la mancanza di protezione e di indagini da parte dello Stato bulgaro), 4 (in particolare per essere stata A. costretta a partecipare furti ed a subire maltrattamenti, dopo essere stata attirata in Italia con la prospettiva di trovare lavoro) e 14 Cedu (ritenendo di essere stati discriminati dalle autorità italiane nella gestione del caso a causa della loro origine etnica).

La Corte ritiene inammissibili - perchè manifestamente infondati - tutti i ricorsi, eccetto quelli riguardanti le violazioni dell'art. 3 Cedu relative alla situazione di A., sotto due profili: l'inadeguatezza delle misure prese dalle autorità italiane per liberare la ragazza e l'ineffettività delle indagini svolte sui fatti da questa denunciati. Solo sotto quest'ultimo profilo, come vedremo, la Corte riscontra una effettiva violazione della Convenzione.

 

3. Esponiamo qui brevemente i passaggi più significativi della sentenza, sia per quanto riguarda le affermazioni di principio, che per quanto riguarda la valutazione del comportamento delle autorità italiane nel caso oggetto di giudizio.

Nonostante la sentenza si ponga in linea di continuità con gli orientamenti della giurisprudenza di Strasburgo - sia per quanto riguarda l'applicazione dell'art. 3, che per le osservazioni in merito all'art. 4 Cedu - cogliamo l'occasione per ripercorrere gli importanti principi enunciati: senza dimenticare quelli relativi agli obblighi "procedurali" - per la violazione dei quali il nostro Paese è stato condannato - riserveremo particolare attenzione al tema delle positive obligations.

Queste, infatti, stanno affermandosi con sempre maggior decisione nella giurisprudenza della Corte EDU, attribuendo agli Stati obblighi di protezione degli individui sottoposti alla loro giurisdizione; obblighi il cui contenuto ed i cui presupposti sono stati confermati dalla presente pronuncia.

Mentre frequentissimi sono i casi in cui la Corte riscontra violazioni dell'art. 3  perpetrate da agenti dello Stato (cd. "violazioni dirette"), più rari[10] sono i casi in cui la Corte, come in questa occasione, ravvisa una responsabilità statale ex art. 3 in relazione a ill-treatment posti in essere da privati nei confronti di un singolo[11]. Differenza fondamentale tra i due generi di responsabilità, oltre alla qualifica del soggetto agente, riguarda la natura stessa del comportamento dovuto: mentre le cd. "violazioni dirette" rientrano nella categoria degli "obblighi negativi" - ossia del dovere dello Stato di "astenersi" (astenersi, cioè, dal porre in essere condotte vietate dalla Convenzione) - gli "obblighi di protezione" costituiscono obblighi positivi di intervento richiesti allo Stato[12].

I giudici di Strasburgo, pur ritenendole non manifestamente infondate, non hanno in questo caso accolto le doglianze relative agli obblighi positivi di protezione ex art. 3 Cedu.

Nel ricorso si denunciava la tardiva "liberazione" della ragazza da parte della polizia italiana: gli agenti attesero infatti diciassette giorni prima di "liberare" la ragazza dalla villa in cui era, a dire dei genitori, sequestrata. Valutati tutti gli elementi del caso concreto, la Corte ha ritenuto l'azione degli agenti conforme ai requisiti di prontezza e diligenza richiesti alle autorità in casi del genere. L'intervento, infatti, aveva dovuto essere preparato con particolare cura, date le scarse informazioni in possesso degli agenti circa i presunti rapitori, il sospetto che questi avessero la disponibilità di armi da fuoco, e le conseguenti esigenze di sicurezza[13].

Di una certa rilevanza, tuttavia, sono le affermazioni di principio con cui la Corte ribadisce l'esistenza di obblighi di protezione gravanti sullo Stato a tutela di soggetti individuati che si trovino in pericolo. La Corte riconferma infatti il principio[14], derivante dal combinato disposto degli artt. 1 e 3 della Convenzione, per cui gli Stati contraenti sono tenuti ad "adottare misure volte ad assicurare che gli individui sottoposti alla propria sfera di giurisdizione non siano soggetti a tortura o a trattamenti inumani o degradanti, anche da parte di soggetti privati" (non, dunque, solamente ove gli autori del fatto siano agenti statali). Come già chiarito, si tratta di principio consolidato nella giurisprudenza della Corte: elaborato a partire da sentenze risalenti al 1997, è stato confermato e precisato da pronunce più recenti[15].

 

4. La Corte, infatti, si è preoccupata in diverse sentenze di definire progressivamente i contorni del suddetto principio, al fine di limitarne l'applicabilità a casi in cui il comportamento statale fosse in concreto realmente "esigibile" e "colpevole"[16].

In particolare, la grande maggioranza delle pronunce che trattano di positive obligations sembrano in tendere a limitarne l'applicazione ai casi in cui le vittime rientrino in "categorie" a vario titolo ritenute meritevoli di tutela rafforzata: minori[17], detenuti e altri soggetti comunque "affidati alla custodia dello Stato"[18], nonché altri soggetti genericamente individuati come "other vulnerable individuals" (tra essi, ad esempio, le persone disabili)[19].

Questa impostazione, pur senza escludere, in linea di principio, che positive obligations possano riguardare anche persone non comprese in dette categorie[20], pare quantomeno richiedere un quid pluris quando la vittima di ill-treatment non sia ricompresa in una di esse[21]. La questione può tuttavia essere ridimensionata ove si osservi che - almeno di regola - qualunque vittima di ill-treatments che raggiungano il livello minimo di gravità ex art. 3 Cedu potrà ragionevolmente essere considerata, di per sé, anche "persona vulnerabile" ai sensi della giurisprudenza di Strasburgo, data la genericità dell'espressione ("other vulnerables individuals") usata dalla Corte come formula di chiusura.

Nella sentenza qui in commento, del resto, la riconduzione della ricorrente all'interno della categoria dei c.d. "individui vulnerabili" non sembra necessitare di giustificazione; infatti la Corte non si preoccupa di argomentare in alcun modo circa il sorgere di obblighi di tutela da parte dello Stato nei confronti di A..

Generalmente, inoltre, altri fattori intervengono a limitare l'applicabilità del principio: affinchè sia riscontrabile una effettiva violazione di positive obligations, spesso[22] la Corte richiede che le autorità "knew or ought to have known [...]  of the existence of a real and immediate risk of ill-treatment of an identified individual from the criminal acts of a third party"; le autorità, inoltre, devono aver fallito nel prendere le misure che avrebbero potuto/dovuto prendere, e dalle quali ci si sarebbe potuti ragionevolmente aspettare che avrebbero evitato il concretizzarsi del rischio[23]. E', insomma, necessario un controllo in concreto circa la prevedibilità del fatto dannoso e le possibilità di impedire il suo verificarsi.

Inoltre, le sentenze più recenti sottolieano la difficoltà di "prevedere i comportamenti umani", con la conseguenza che le positive obligations non devono imporre alle autorità oneri "impossibili o sproporzionati": "not every claimed risk of ill-treatment, thus, can entail for the authorities a Convention requirement to take operational measures to prevent that risk from materialising". Viene evocato il parametro della prevedibilità del fatto da impedire[24], e delle possibilità (sia de facto che giuridiche) di evitarlo: le forze di polizia devono esercitare i loro poteri "con modalità pienamente rispettose del due process e delle altre garanzie che legittimamente limitano lo svolgimento di indagini sulla commissione di reati [...], incluse le garanzie di cui all'art. 8 Cedu"[25].

Ciò che viene frequentemente specificato, infine, è che "it must be shown that the risk is real and that the authorities of the receiving State are not able to obviate the risk by providing appropriate protection"[26].

La sentenza in commento, al contrario di alcune delle pronunce appena citate, contiene una ricostruzione molto sintetica dei presupposti e dei limiti delle positive obligations ex art. 3 Cedu: essa si limita ad affermare, infatti, che queste possono sorgere (solo) "when they are "arguable" and "raise a reasonable suspicion"". Non viene affrontato, dunque, il tema della prevedibilità ed esigibilità del fatto; il minor approfondimento teorico è probabilmente dovuto alla limitata rilevanza dello stesso ai fini della decisione sul punto, basata su una generica valutazione di diligenza dell'azione delle autorità.

 

5. Nella sentenza in commento, inoltre, vengono in gioco i cd. "obblighi procedurali": questi, frequentemente portati all'attenzione della Corte, "operano 'a valle' della violazione"[27]. Da essi sorge il dovere di avviare rapidamente indagini effettive, allo scopo di verificare la violazione (che sia posta in essere da agenti statali, o da soggetti privati) e, ove questa sia accertata, sanzionare l'autore del fatto.

Nel presente caso la Corte ha riscontrato una violazione dell'art. 3 Cedu proprio sotto quest'ultimo profilo: le indagini svolte dall'Italia presentano, a parere dei giudici, gravi carenze. In particolare, le autorità hanno interrogato solamente le ricorrenti ed i presunti rapitori, omettendo quasi totalmente di ascoltare terze persone, potenziali testimoni dei fatti denunciati. Tali testimonianze sarebbero state essenziali, secondo la Corte, per l'accertamento dei fatti controversi, ad esempio per accertare se le fotografie stesse fossero state scattate sotto minaccia di morte, come sostenuto dai ricorrenti, o se si fosse trattato di un "reale" matrimonio.

Desta perplessità, inoltre, il fatto che le autorità italiane, una volta "liberata" la ragazza, abbiano chiuso le indagini in meno di una giornata, provvedendo immediatamente all'iscrizione nel registro degli indagati delle due donne.

Costituisce carenza investigativa anche l'omessa sottoposizione di A. ad accertamenti medici, nonostante la denuncia di stupri ripetuti e di percosse[28]: su tali denunce non sono state svolte indagini, nonostante la potenziale vittima fosse minorenne, e come tale meritevole di particolare protezione.

Il governo italiano, nella sua difesa, sembra giustificare la brevità delle indagini sulla base del fatto che, dall'analisi della scena del - presunto - delitto "sembrava [...] probabile che fosse stato posto in essere un [effettivo] contratto matrimoniale".

E' purtroppo significativo il fatto che la Corte abbia dovuto ricordare al nostro Paese che il dovere statale di proteggere gli individui da violazioni ex art. 3 Cedu sussiste anche nel caso in cui il soggetto agente sia il coniuge o il partner della vittima. Questo apparentemente ovvio principio non sembra, infatti, recepito dalle autorità italiane, quantomeno a giudicare dalle giustificazioni da queste portate alla Corte in questa occasione.

Ancora sotto il profilo procedurale dell'art. 3 Cedu, la Corte sottolinea l'assenza di indagini circa il reato di tratta. Tali indagini sarebbero state necessarie, dato quanto denunciato dai ricorrenti (l'ingresso in Italia dietro promessa di un lavoro, la sottoposizione a maltrattamenti e minacce e la costrizione alla commissione di furti): elementi che avrebbero potuto integrare, se provati, "human traffiking", secondo la nozione accolta da diverse fonti internazionali, tra cui, in particolare, la Convenzione del Consiglio d'Europa sulla lotta contro la tratta di esseri umani ed il c.d. "Protocollo di Palermo"[29].

Singolare risulta la scelta della Corte di affrontare questa doglianza sotto il profilo dell'art. 3 Cedu, e non invece dell'art. 4, cui vengono normalmente ricondotti fatti di cd. "schiavitù domestica" e di traffico di esseri umani[30]. I giudici giustificano tale decisione affermando che le condotte di human traffiking costituiscono a loro volta, "indubitabilmente", trattamenti inumani e degradanti ai sensi dell'art. 3 Cedu (§ 106 della sentenza).

 

6. Di tratta di esseri umani la Corte si occupa anche in passaggi ad hoc della sentenza, dedicate al vaglio delle lamentate violazioni dell'art. 4 Cedu da parte dell'Italia. Dato il contrasto insanabile tra la ricostruzione dei fatti operata dai ricorrenti e quella delle autorità statali - e deplorando la carenza di prove dovuta all'ineffettività delle indagini italiane[31] - , i giudici decidono di prendere in considerazione entrambe le "versioni", valutando la sussistenza della violazione alla luce di ciascuna di esse, autonomamente considerata.

Come accennato, la Corte esclude - sia ove si dia credito alla versione dei ricorrenti, che ove ci si basi su quella dello Stato - che vi sia stata violazione dell'art. 4 Cedu: la valutazione è di manifesta infondatezza, e dunque di inammissibilità del ricorso. Sotto il profilo della predisposizione di un "proper legal or regulatory framework" di repressione del trafficking, ciò che impedisce alla Corte di dichiarare violato l'art. 4 Cedu è la mancanza di prove a supporto della versione dei ricorrenti. Non è stato provato, in particolare, che effettivamente A., B. e C. siano stati introdotti in Italia per essere "utilizzati" in qualche genere di attività illecita. Non essendo certa la condizione di "vittima di tratta" di A., la Corte ritiene che non siano stati violati gli obblighi di prevenzione e repressione del trafficking (§ 155).

Per quanto riguarda il profilo delle positive obligations ex art. 4 Cedu, esse possono sorgere, come visto rispetto all'art. 3, anche in situazioni di mero rischio: potrebbe, dunque, astrattamente ravvisarsi una violazione sotto questo profilo, ove il rischio potesse considerarsi reale e conoscibile. Tuttavia, la Corte ritiene di aver già esaurientemente affrontato la questione circa l'adeguatezza dell'intervento delle forze di polizia in sede di giudizio ex art. 3 Cedu, e non ritiene dunque necessario affrontarla anche in questa sede.

 

7. Si segnala, in conclusione, una separate opinion[32] del giudice Kalaydjieva, la quale tiene a sottolineare l'illogicità del comportamento delle autorità italiane e richiama l'attenzione sul brusco passaggio della condizione delle ricorrenti da "potenziali vittime di reato" a "indagate in procedimento penale". Il fatto che le autorità abbiano preso questa decisione nel giro di poche ore rende, a parere del giudice, realistica la denuncia posta da A. e B. circa le minacce ricevute nel corso degli interrogatori dalle autorità italiane.

 


[1] Il ricorso è proposto anche contro la Bulgaria, Paese di cittadinanza dei ricorrenti, per il mancato supporto degli stessi nelle relazioni con l'Italia e nell'indagine sui fatti. In questa scheda, tuttavia, saranno analizzati principalmente i profili riguardanti lo Stato italiano; tutti i profili di ricorso contro la Bulgaria sono, in ogni caso, dichiarati inammissibili dalla Corte per manifesta infondatezza.

[2] Da segnalare, in proposito, che proprio la ricostruzione del fatto è uno dei punti controversi affrontati in sentenza: la versione proposta dai ricorrenti contrasta infatti con quella sostenuta dallo Stato italiano. La Corte individua come una delle cause della difficoltà di accertamento del fatto le carenze investigative imputabili allo Stato italiano.

[3] Le iniziali sono di fantasia: la Corte ha garantito l'anonimato ai ricorrenti ex art. 47 § 3 delle Rules of Court.

[4] Più precisamente, sulla base di quanto riportato dalle autorità italiane, A. non avrebbe reso testimonianza in merito all'assenza di consenso al matrimonio.

[5] Riscontrando alcune contraddizioni tra le due, nonché rilevando l'assenza di armi da fuoco presso la villa, in contrasto con quanto sostenuto dalle stesse.

[6] In cui  i partecipanti "apparivano contenti e rilassati" e mostravano lo scambio di denaro avvenuto tra X. e C.

[7] Le autorità avevano fornito alloggio alle due donne, prima ed immediatamente dopo la "liberazione" di A., presso un monastero ed un centro di accoglienza per senzatetto.

[8] Per quanto riguarda A., il Tribunale per i minorenni del Piemonte e Valle d'Aosta ha emesso sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, dal mentre B. è stata assolta dal Tribunale di Torino "perché il fatto non sussiste", non essendo stata raggiunta la prova della colpevolezza dell'imputata.

[9] Le due donne infatti affermano di essere state trattate dagli agenti in modo rude e da questi minacciate con la prospettiva di indagini per calunnia in caso di false dichiarazioni; di essere state, inoltre, forzate a firmare dichiarazioni di cui non comprendevano il contenuto, ed interrogate in assenza di difensore e di interprete.

[10] Per una panoramica della giurisprudenza della Corte EDU sull'art. 3 Cedu negli ultimi anni, si v. A. Colella, La giurisprudenza di Strasburgo 2011: il divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti (art. 3 Cedu), in DPC - Riv. trim., 2012, n. 3, pp. 213 ss. ed il precedente contributo pubblicato in DPC - Riv. trim., 2011, n. 1, relativo agli anni 2008-2010, pp. 221 ss.

[11] Per ulteriori riferimenti sul punto, si v. A. Colella, La giurisprudenza di Strasburgo 2008-2010: il divieto di tortura, cit., p. 222.

[12] Obblighi positivi, ma di natura diversa rispetto alla protezione di singoli individui, sono quelli che gravano sullo Stato sotto il profilo della predisposizione di un quadro normativo efficace per la prevenzione e la repressione delle violazioni dell'art. 3 Cedu: in questo senso il legislatore è tenuto a predisporre una disciplina conforme al diritto di Strasburgo (in particolare, devono essere previste pene congrue e proporzionate alla gravità del fatto commesso): cfr. A. Colella, La giurisprudenza di Strasburgo 2008-2010: il divieto di tortura, cit., p. 235.

[13] In particolare, sono stati necessari tre giorni per individuare la villa, e due settimane per preparare l'intervento.

[14] Seppure, come vedremo, senza dedicare particolare approfondimento al tema (v. infra, par. 4).

[15] C. eur. dir. uomo, sentenza 23 settembre 1998, ric. n. 25599/94, A. c. Regno Unito, in Reports 1998-VI. Riportiamo qui il passo della sentenza che si occupa del punto in oggetto:  "The Court considers that the obligation on the High Contracting Parties under Article 1 of the Convention to secure to everyone within their jurisdiction the rights and freedoms defined in the Convention, taken together with Article 3, requires States to take measures designed to ensure that individuals within their jurisdiction are not subjected to torture or inhuman or degrading treatment or punishment, including such ill-treatment administered by private individuals". La Corte aveva in quell'occasione specificato che "children and other vulnerable individuals, in particular, are entitled to State protection, in the form of effective deterrence, against such serious breaches of personal integrity".

[16] Usiamo qui, impropriamente, categorie penalistiche "individuali" applicate agli Stati.

[17] Oltre alla già citata A. c. Regno Unito del 23 settembre 1998, si v. anche C. eur. dir. uomo, grande camera, sentenza 10 maggio 2001, ric. n. 29392/95, Z e altri c. Regno Unito; entrambe hanno riconosciuto la violazione delle positive obligations derivanti dall'art. 3 in relazione al mancato intervento statale a tutela di alcuni minori vittime di abusi.

[18] V. A. Colella, La giurisprudenza di Strasburgo 2008-2010: il divieto di tortura, cit., p. 222. Si tratta ovviamente, anche qui, di protezione da violenze perpetrate da soggetti privati, quali ad es., altri detenuti, come nel caso di C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 17 aprile 2012, ric. n. 23893/06, J.L. c. Lituania, con riferimento ad un detenuto collaboratore di giustizia, vittima di stupri e percosse da parte dei compagni di cella. Per una sintesi di questa sentenza si v. il Monitoraggio Corte EDU di aprile 2012, in questa Rivista.

[19] In merito, v. la recente sentenza C. eur. dir. uomo, sez. I, sentenza 24 luglio 2012, ric. n. 41526/10, DorÄ‘ević v. Croatia (sulla quale cfr. anche il Monitoraggio Corte EDU luglio 2012, in questa Rivista), che ha riconosciuto la violazione dell'art. 3 Cedu in relazione alla mancata protezione di un bambino con disabilità fisiche e mentali da una situazione, nota alle autorità, di continue e perduranti molestie poste in essere da altri minori. V. anche C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 9 giugno 2009, ric. n. 33401/02, Opuz c. Turchia, in cui la condizione di donna vittima di violenze domestiche è riconosciuta come "particolarmente vulnerabile" ai fini della sussistenza di positive obligations nei suoi confronti. Per ulteriori categorie destinatarie di obblighi positivi di  protezione, ma con riferimento all'art. 4 Cedu si v., ad es., C. eur. dir. uomo, sez. I, sentenza 7 gennaio 2010, ric. n. 25965/04, Rantsev c. Cipro e Russia, su cui A. Colella, La giurisprudenza di Strasburgo 2008-2010: il divieto di schiavitù e del lavoro forzato (art. 4 Cedu), in  DPC - Riv. trim., 2011, n. 1, pp. 251 ss. Quest'ultima sentenza, tuttavia, non riconosce nel caso oggetto di giudizio la violazione degli obblighi positivi di tutela relativi al mancato impedimento del fatto, per l'imprevedibilità dello stesso.

[20]  Nelle sentenze si ricorda, infatti, che l'art. 1 Cedu impone agli Stati contraenti l'obbligo di "secure to everyone within their jurisdiction the rights and freedoms defined in Section I of [the] Convention". Così ex multis C. eur. dir. uomo, DorÄ‘ević v. Croatia, cit.

[21] In questo senso si v., in particolare, C. eur. dir. umani, Opuz c. Turchia, cit.

[22] Sono le sentenze più recenti ad approfondire questi aspetti, più raramente affrontati invece dalle sentenze più risalenti: cfr.  A. c. Regno Unito del 23 settembre 1998, cit.

[23] Con le parole della Corte: "they failed to take measures within the scope of their powers which, judged reasonably, might have been expected to avoid that risk". Così C. eur. dir. uomo, sez. II, sentenza 14 dicembre 2010, ric. n. 44614/07, Milanović c. Serbia, relativa alla mancata protezione di un esponente della comunità hindu serba, vittima di ripetute minacce ed aggressioni da parte di membri di un gruppo estremista di destra; ma in modo analogo altre sentenze (cfr. ex multis Rantsev c. Cipro e Russia, cit., e C. eur. dir. uomo, grande camera, sentenza 28 ottobre 1998, Osman c. Regno Unito, entrambe in relazione all'art. 2 Cedu).

[24] In particolare, Rantsev c. Cipro e Russia, cit., § 219.

[25] Così ad es. DorÄ‘ević c. Croatia, 24 luglio 2012, cit., § 139. Questi principi risultano enunciati in primo luogo da C. eur. dir. uomo, Osman c. Regno Unito, cit. (del 1998) in relazione alle positive obligations derivanti dall'art. 2 Cedu.

[26] Così C. eur. dir. Uomo, grande camera, sentenza 29 aprile 1997, H.L.R. c. Francia, ric. n. 24573/94, § 40: "Owing to the absolute character of the right guaranteed, the Court does not rule out the possibility that Article 3 of the Convention (art. 3) may also apply where the danger emanates from persons or groups of persons who are not public officials. However, it must be shown that the risk is real and that the authorities of the receiving State are not able to obviate the risk by providing appropriate protection".

[27] A. Colella, La giurisprudenza di Strasburgo 2008-2010: il divieto di tortura, cit., p. 229.

[28] Sul punto, stando a quanto può desumersi dalla motivazione della sentenza, il governo italiano ha sostenuto che A. aveva dichiarato alle autorità - presumibilmente, immediatamente dopo la "liberazione" - di non essere stata forzata da Y. ad avere rapporti sessuali con lui. I ricorrenti lamentano tuttavia di essere stati minacciati dagli agenti, e da questi forzati a rilasciare dichiarazioni non veritiere.

[29] Con quest'ultima espressione la Corte fa riferimento ad uno dei protocolli addizionali alla Convenzione delle Nazioni Unite sulla criminalità organizzata transnazionale del 2004, il Protocol to Prevent, Suppress and Punish Trafficking in Persons, especially Women and Children, recepito in Italia con legge n. 146 del 2006 di autorizzazione alla ratifica ed esecuzione. La Convenzione del Consiglio d'Europa sulla lotta contro la tratta di esseri umani invece è in vigore per l'Italia a partire dal 1.3.2011 (recepita con legge n. 108 del 2010 di autorizzazione alla ratifica ed esecuzione). Riportiamo qui alcune definizioni contenute in quest'ultima convenzione (art. 4), richiamate anche in sentenza: "For the purposes of this Convention: a) "Trafficking in human beings" shall mean the recruitment, transportation, transfer, harbouring or receipt of persons, by means of the threat or use of force or other forms of coercion, of abduction, of fraud, of deception, of the abuse of power or of a position of vulnerability or of the giving or receiving of payments or benefits to achieve the consent of a person having control over another person, for the purpose of exploitation. Exploitation shall include, at a minimum, the exploitation of the prostitution of others or other forms of sexual exploitation, forced labour or services, slavery or practices similar to slavery, servitude or the removal of organs; b) The consent of a victim of "trafficking in human beings" to the intended exploitation set forth in subparagraph (a) of this article shall be irrelevant where any of the means set forth in subparagraph (a) have been used; c) The recruitment, transportation, transfer, harbouring or receipt of a child for the purpose of exploitation shall be considered "trafficking in human beings" even if this does not involve any of the means set forth in subparagraph (a) of this article; d) "Child" shall mean any person under eighteen years of age; e) "Victim" shall mean any natural person who is subject to trafficking in human beings as defined in this article".

[30] Si v. A. Colella, La giurisprudenza di Strasburgo 2008-2010: il divieto di schiavitù, cit., pp. 248 ss.

[31]  "The parties to the case have presented diverging factual circumstances and regrettably the lack of investigation by the Italian authorities has led to little evidence being available to determine the case. Having said that, the Court cannot but take its decisions on the basis of the evidence submitted by the parties" (§ 152).

[32] Sembrerebbe trattarsi di una dissenting opinion, ma non risultano esplicitati in modo chiaro i punti di dissenso in merito alle conclusioni della maggioranza dei giudici. Il voto contrario dato dal giudice Kalaydjieva, infatti, riguarda la violazione dell'art. 3 Cedu sotto il profilo positive obligations (insufficienza delle misure prese dalle autorità italiane a tutela di A.), mentre la separate opinion non affronta direttamente questo aspetto del caso.