ISSN 2039-1676


16 novembre 2017 |

A Bolzaneto e ad Asti fu tortura: tre nuove condanne inflitte dalla Corte di Strasburgo all'Italia per violazione dell'art. 3 Cedu

C. edu, 26.10.2017, Azzolina ed altri c. Italia (ric. n. 28923/09 e n. 67599/10), Blair e altri c. Italia (ric. n. 1442/14, 21319/14 e 21911/14), Cirino e Renne c. Italia (ric. n. 2539/13 e 4705/13)

 

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1. Il 26 ottobre 2017 la prima sezione della Corte europea dei diritti dell'uomo ha pronunciato tre sentenze con le quali ha condannato all’unanimità l'Italia per violazione del divieto di tortura di cui all'art. 3 Cedu – sotto il profilo sia sostanziale che procedurale – nei casi Azzolina ed altri c. Italia (ric. n. 28923/09 e n. 67599/10) e Blair e altri c. Italia (ric. n. 1442/14, 21319/14 e 21911/14) aventi ad oggetto gli abusi avvenuti nella caserma di Bolzaneto a margine del G8 di Genova nel 2001, nonché nel caso Cirino e Renne c. Italia (ric. n. 2539/13 e 4705/13), avente ad oggetto i maltrattamenti subìti da due detenuti del carcere di Asti nel 2004.

 

2. Molteplici sono i profili che accomunano le tre sentenze. Dal punto di vista sostanziale, gli atti di tortura esaminati dai giudici di Strasburgo sono stati posti in essere dalle forze dell'ordine in modo sistematico ed organizzato nei confronti di soggetti privati della libertà personale; dal punto di vista procedurale, i giudici hanno riscontrato che, nonostante lo sforzo compiuto dalle autorità giurisdizionali italiane per accertare i fatti e individuare i responsabili, da un lato la risposta dell'ordinamento penale è stata inadeguata in ragione dell'assenza, all’epoca dei fatti, del reato di tortura; dall’altro lato anche i giudizi disciplinari a carico dei responsabili non sono stati efficaci, o perché non sono state proprio adottate misure disciplinari o perché i procedimenti sono stati privi di effetto sospensivo. Ciò premesso, conviene esaminare separatamente il caso del carcere di Asti (v. infra, nn. 3-4) ed i casi relativi alla caserma di Bolzaneto (nn. 5-7).

 

3. I fatti avvenuti nel carcere di Asti risalgono al dicembre del 2004, quando, a seguito di un alterco con un agente penitenziario, due detenuti venivano collocati in isolamento in celle prive di lavandino e di vetri alle finestre e il cui letto non era dotato di materasso, lenzuola o coperte. Entrambi i ricorrenti, lasciati senza abiti, in carenza di cibo ed acqua e privazione del sonno, venivano picchiati sistematicamente da gruppi di agenti, sia durante il giorno che durante la notte. Tale situazione si protraeva per 19 giorni nei confronti del primo ricorrente e per 6 giorni nei confronti del secondo ricorrente (quest’ultimo veniva successivamente ricoverato all'ospedale, dove gli era diagnosticata la frattura di una costola ed erano refertate numerose ecchimosi sul corpo).

Il Tribunale di Asti ha accertato le ripetute violenze subite dai ricorrenti e ha altresì rilevato l'esistenza di una "pratica generalizzata di maltrattamenti" riservata ai detenuti considerati problematici, maturata in un clima di impunità, dovuto anche alla tolleranza degli alti livelli dell'amministrazione del carcere (§ 29-30).

Nonostante il Tribunale abbia definito le condotte perpetrate nel penitenziario piemontese come vera e propria tortura ai sensi della CAT (Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e gli altri trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti), all’epoca dei fatti l’ordinamento italiano non contemplava una fattispecie penale ad hoc; mentre i reati contestati agli imputati (maltrattamenti ex art. 572 c.p. aggravati dall'art. 61 n. 9 c.p., lesioni personali ex art 582 c.p. e abuso di autorità contro arrestati o detenuti ex art. 608 c.p.) sono stati dichiarati prescritti.

Sul fronte dei procedimenti disciplinari, un solo agente è stato licenziato, due sono stati sospesi dal servizio rispettivamente per 4 e 6 mesi e un altro è stato dapprima licenziato e poi reintegrato. Per nessuno di loro è stata disposta la sospensione precauzionale dal servizio nel corso delle indagini e del processo penale (§ 44-45).

 

4. La Corte di Strasburgo ha qualificato il trattamento subito dai ricorrenti come tortura ai sensi dell'art. 3 Cedu sulla base dei seguenti elementi: la sofferenza dovuta alla ripetuta violenza fisica inflitta a qualsiasi ora del giorno e della notte e per molti giorni consecutivi; i sentimenti di paura, angoscia e sofferenza mentale determinati dalla situazione di vulnerabilità durante la custodia; la sensazione d'impotenza acuita dal regime di isolamento detentivo; il fatto che l'abuso fisico fosse stato accompagnato da privazioni materiali estremamente gravi, quali la mancanza di cibo, acqua, adeguati servizi sanitari, biancheria per il letto e riscaldamento; l'umiliazione derivata dall'essere stati costretti a rimanere nudi per diversi giorni. I giudici di Strasburgo hanno inoltre evidenziato il fatto che i maltrattamenti in questione si sono svolti in modo premeditato e organizzato nel contesto di un più ampio modello di abuso riservato ai detenuti "problematici", circostanza quest’ultima che, secondo la Corte, ha dimostrato l'intenzionalità delle condotte poste in essere (§ 80-85).

Sul versante procedurale, la Camera ha ritenuto che l’estinzione per prescrizione dei reati contestati agli agenti penitenziari non potesse essere imputata al ritardo o alla negligenza delle autorità giudiziarie nazionali, le quali, al contrario, avevano compiuto uno sforzo effettivo per accertare tempestivamente i fatti ed identificare i responsabili dei maltrattamenti subìti dai ricorrenti. Secondo la Corte il cuore del problema consisteva piuttosto in una carenza sistemica del diritto nazionale  che –  come già rilevato il 7 aprile 2015 nel noto precedente Cestaro c. Italia (cfr. Viganò F., La difficile battaglia contro l'impunità dei responsabili di tortura: la sentenza della Corte di Strasburgo sui fatti della scuola Diaz e i tormenti del legislatore italiano; Cassibba F.S., Violato il divieto di tortura: condannata l'Italia per i fatti della scuola Diaz-Pertini) – risultava inadeguato sia sul versante punitivo che su quello dissuasivo rispetto a tali forme di maltrattamenti, in ragione dell’assenza di una fattispecie incriminatrice della tortura (§ 111-112). Inoltre, il procedimento disciplinare a cui erano stati sottoposti gli agenti penitenziari è stato considerato, coerentemente al case-law della Corte, da solo insufficiente a fronteggiare la violazione di uno dei diritti fondamentali tutelati dalla Convenzione (§ 114). A tal proposito, la Camera ha altresì rilevato che gli ufficiali non erano stati sospesi durante l'inchiesta ed il processo: tale misura, ha osservato la Corte, sarebbe stata di particolare importanza al fine di non scoraggiare l’emergere di episodi analoghi nello stesso penitenziario (§ 115). Sulla scorta di queste valutazioni i giudici di Strasburgo hanno concluso che vi fosse stata violazione dell'art. 3 Cedu anche nel suo aspetto procedurale. Quanto ai risarcimenti, i giudici di Strasburgo hanno riconosciuto a ciascun ricorrente un risarcimento pari alla somma di 80.000 euro, oltre le spese, per il danno non patrimoniale patito.

 

5. Passando alle pronunce sui fatti di Bolzaneto, i ricorsi Azzolina ed altri c. Italia e Blair e altri c. Italia riguardavano cinquantanove ricorrenti di varie nazionalità, che erano stati arrestati a Genova nel luglio del 2001 nell’ambito delle manifestazioni anti-G8 (alcuni all'esito dell'irruzione nella scuola Diaz-Pertini) e successivamente erano stati tradotti presso la caserma di Bolzaneto, struttura temporanea di detenzione che fungeva da centro di raggruppamento e smistamento prima del trasferimento verso le carceri di Alessandria, Pavia, Vercelli e Voghera.

A Bolzaneto i ricorrenti erano stati sottoposti ad una serie di abusi e violenze, di durata variabile e non sempre precisata (molti erano stati trasferiti altrove dopo una notte trascorsa nella caserma). All’esito del procedimento penale italiano erano emerse, in particolare, le seguenti circostanze di fatto: all’arrivo a Bolzaneto veniva impedito ai ricorrenti di sollevare la testa e guardare in viso gli agenti presenti; coloro che erano stati arrestati nel corso dell’irruzione alla scuola Diaz-Pertini venivano marchiati con una croce sulla guancia; tutti venivano obbligati a restare immobili con gambe e braccia aperte, e la stessa posizione veniva loro imposta, successivamente, anche nelle celle; venivano inoltre costretti ad attraversare, sempre con la testa abbassata, il “tunnel degli agenti”, i quali, collocati su entrambi i lati del corridoio della caserma, li minacciavano, li colpivano e rivolgevano loro insulti a sfondo politico e sessuale; nel corso della detenzione venivano ripetutamente picchiati in diverse parti del corpo; durante le visite mediche erano sottoposti a umiliazioni, e talvolta anche a minacce, da parte del personale medico o degli agenti di polizia; i loro effetti personali venivano requisiti o distrutti arbitrariamente; soffrivano per l'assenza di cibo, il razionamento dell'acqua e per il freddo; l'accesso ai servizi igienici veniva negato o comunque i ricorrenti erano fortemente dissuasi a richiederlo in ragione degli insulti, delle violenze e delle umiliazioni che avevano visto subire da chi ne aveva fatto richiesta in precedenza; infine, i ricorrenti non avevano potuto contattare i parenti, gli avvocati e tantomeno i propri rappresentanti consolari. Questi episodi si svolgevano in un contesto teso, confuso e rumoroso, nel quale gli agenti si rivolgevano agli arrestati urlando e cantavano motivi evocanti il fascismo (per l’esame analitico delle violazioni, cfr. Azzolina § 128-137).

I giudici italiani hanno accertato “al di là di ogni ragionevole dubbio” tali violenze sistematiche, riconoscendo che esse hanno prodotto sulle vittime conseguenze persistenti anche molto dopo la fine della detenzione a Bolzaneto. Nonostante l'accertamento giudiziale abbia confermato gli abusi sopra elencati (cfr. Colella A., La sentenza della Cassazione su Bolzaneto chiude il sipario sulle vicende del G8 (in attesa del giudizio della Corte di Strasburgo)), la quasi totalità dei reati contestati agli imputati sono stati dichiarati prescritti, alcuni condannati hanno beneficiato dell'indulto e non vi sono state sanzioni disciplinari per i responsabili (dei quarantacinque imputati solo otto sono stati condannati in via definitiva per fattispecie di abuso d'autorità, falso e lesioni volontarie, quattro sono stati assolti e la prescrizione è stata applicata a tutti gli altri).

 

6. La Corte edu, dopo avere dato atto della cancellazione dal ruolo di alcune posizioni rispetto alle quali era nel frattempo intervenuta la composizione amichevole tra le parti (sulla base dell’impegno assunto dall’Italia di versare ai ricorrenti la somma di 45.000 euro ciascuno), ha anzitutto respinto le eccezioni preliminari sollevate dal Governo. Quest’ultimo, in primo luogo, aveva sostenuto che a seguito del giudizio penale i ricorrenti avessero già ottenuto almeno un parziale riconoscimento delle violazioni lamentate ed un risarcimento per i danni patiti, così perdendo il loro victim status. In secondo luogo, poiché i procedimenti penali interni erano ancora pendenti al momento della presentazione dei ricorsi e comunque residuava la possibilità di proporre un'azione civile, ad avviso del Governo i ricorrenti non avevano rispettato il principio del previo esaurimento delle vie di ricorso interne.

Entrambe le eccezioni sono state respinte dalla Corte, la quale anzitutto ha ritenuto che i ricorrenti, i quali avevano presentato i loro ricorsi più di otto anni dopo i fatti, non potessero essere criticati per non aver atteso il giudizio della Corte di Cassazione, soprattutto in vista dell’oramai certa prescrizione e dell’operare dell’indulto. Per quanto riguarda l’azione civile, la Corte ha ricordato che, per consolidata giurisprudenza, essa non può definirsi una via di ricorso interna adeguata ed effettiva a fronte della violazione dell'art. 3 Cedu (Azzolina, § 113-117).

 

7. Nel merito la Corte ha riconosciuto la violazione sostanziale dell’art. 3 Cedu, richiamando espressamente i principi già espressi nei precedenti Bouyid c. Belgio del 2015 (cfr. Cancellaro F., Tolleranza zero contro gli abusi delle forze di polizia: per la grande camera anche uno schiaffo può integrare la violazione del divieto di trattamenti degradanti ex art. 3 cedu) e Bartesaghi Gallo et altri c. Italia del 29.6.2017 (cfr. Id., Tortura: nuova condanna dell'italia a strasburgo, mentre prosegue l'iter parlamentare per l'introduzione del reato).

Dal punto di vista probatorio i giudici di Strasburgo hanno rilevato che i maltrattamenti lamentati dai ricorrenti erano stati ricostruiti dai giudici nazionali in modo dettagliato e accurato: in particolare, le testimonianze delle vittime risultavano corroborate dalle dichiarazioni di agenti di polizia e di funzionari pubblici, dalle confessioni parziali degli imputati, nonché dai rapporti dei medici e dalle relazioni degli esperti nominati dal tribunale.

La Corte, inoltre, ha rilevato che gli abusi si erano protratti per un lasso di tempo significativo senza che l'intensità della violenza diminuisse, in un contesto generale d’uso eccessivo e indiscriminato di una forza manifestamente sproporzionata da parte delle autorità (Azzolina § 129).

Ancora, la Corte ha evidenziato la grave violazione da parte dei membri delle forze dell’ordine, compresa la catena di comando, del dovere di proteggere le persone sottoposte a custodia, le quali come noto si trovano in una condizione di particolare vulnerabilità (Azzolina §131). Né si poteva trascurare, hanno rilevato ancora i giudici di Strasburgo, la dimensione simbolica di questi atti, ed il fatto che i ricorrenti non fossero stati solo vittime dirette degli abusi, ma anche testimoni impotenti dell’uso incontrollato di violenza contro gli altri arrestati. La combinazione di tali fattori, ha concluso la Corte richiamando i giudizi delle corti nazionali, ha reso la caserma di Bolzaneto un “luogo di illegalità”, dove le garanzie più elementari erano state di fatto sospese  (Azzolina § 133-134). Sulla scorta di queste valutazioni, i ripetuti atti di violenza, espressione di volontà punitiva e ritorsione, sono stati qualificati come atti di tortura.

Per quanto concerne le ulteriori violazioni, lamentate soltanto nel ricorso Blair e altri (artt. 5.2, 8, 9, 10, 11 Cedu), la Camera ha ricondotto la mancanza di informazioni rispetto alle ragioni dell’arresto, l’assenza di un interprete e la privazione degli effetti personali dei ricorrenti alla violazione dell’art. 3 Cedu, qualificando tali abusi come comportamenti volti a piegare la resistenza psicologica dei ricorrenti e dunque come forme ulteriori di maltrattamento.

Sotto il profilo delle violazioni procedurali la Corte ha richiamato espressamente il già ricordato precedente Cestaro c. Italia, nella parte in cui aveva messo in luce l’inadeguatezza, anche sotto il profilo preventivo, della legislazione penale nazionale, ed aveva conseguentemente imposto all'Italia di dotarsi di strumenti giuridici in grado d’imporre sanzioni appropriate agli autori di atti di tortura o di maltrattamenti, assicurando che agli stessi non fossero applicabili nè la prescrizione, nè l’indulto.

Con riferimento al caso di specie, la Corte ha sostenuto che, nonostante gli sforzi compiuti dall’autorità giudiziaria italiana, la mancata cooperazione da parte delle forze dell’ordine nel corso delle indagini, associata al fatto che ai ricorrenti non era stato consentito guardare in faccia gli agenti di polizia –  i quali non avevano segni distintivi sulla divisa – aveva reso difficile se non impossibile l’identificazione della maggior parte degli autori delle violenze (Azzolina §151-152). I giudici europei hanno inoltre osservato che a fronte delle quarantacinque persone identificate e portate a giudizio, la Corte di Cassazione ha confermato la condanna di solo otto esponenti tra i membri delle forze dell’ordine e alti funzionari e che a tutti i condannati è stato applicato lo sconto di pena dell'indulto, con il risultato che nessuno ha mai trascorso un solo giorno di carcere per i maltrattamenti inferti ai ricorrenti (Azzolina §153).

La Corte ha comunque “preso atto” dell'entrata in vigore il 18 luglio 2017 della legge n. 110 che introduce il delitto di tortura nel codice penale italiano (Azzolina §162).

Per quanto riguarda le misure disciplinari adottate nei confronti dei responsabili degli atti di tortura, la Corte ha richiamato la propria giurisprudenza in base alla quale, qualora esponenti delle forze dell’ordine siano stati accusati di maltrattamenti, è necessario che essi siano sospesi durante le indagini ed il processo, e successivamente siano licenziati se condannati (Azzolina §§163-164). Nel caso delle violenze di Bolzaneto, hanno rilevato i giudici,  gli agenti di polizia in questione non sono stati sospesi durante il processo, né è stato chiarito dal Governo se gli stessi sono stati destinatari di azioni disciplinari. Sulla scorta di questi elementi i giudici europei hanno riconosciuto anche la violazione procedurale dell’art. 3 Cedu.

Quanto ai risarcimenti, nel caso Blair e altri c. Italia la Corte ha riconosciuto risarcimenti compresi tra 10.000 e 70.000 euro; nel caso Azzolina e altri c. Italia, tra 80.000 e 85.000 euro.

 

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8. Le tre sentenze esaminate hanno ad oggetto fatti che, con ogni probabilità, se commessi oggi sarebbero riconducibili alla fattispecie di tortura, nel frattempo introdotta all’art. 613-bis c.p. Risulta dunque evidente l’impulso impresso dal diritto sovranazionale – e in particolare dalla stessa giurisprudenza di Strasburgo – sul lungo e tortuoso cammino che ha condotto all’approvazione della legge n. 110/2017. Peraltro, sebbene la lacuna risulti ora formalmente colmata, l’effettivo adempimento dell’obbligo di incriminazione dovrà essere vagliato prendendo in considerazione le molteplici criticità della nuova figura di reato (cfr. Lobba P., Punire la tortura in Italia. spunti ricostruttivi a cavallo tra diritti umani e diritto penale internazionale), la quale è tra l’altro proprio in questi giorni oggetto di valutazione da parte del Comitato Onu contro la Tortura riunito a Ginevra.

Peraltro, i profili problematici strettamente inerenti alla formulazione ed all’interpretazione della nuova norma incriminatrice, seppure di cruciale importanza, non devono distogliere l’attenzione da almeno altre tre questioni di non trascurabile rilievo nella materia qui in esame; questioni che le sentenze della Corte sui casi di Bolzaneto ed Asti portano con estrema chiarezza all’attenzione dell’interprete.

La prima è quella relativa all’identificazione dei singoli responsabili di abusi e violenze tra gli appartenenti alle forze dell’ordine. A tal proposito non possono ignorarsi i passaggi motivazionali delle sentenze Azzolina e Blari che censurano nei casi di specie la mancanza di collaborazione da parte delle forze dell'ordine ai fini dell’accertamento dei fatti e pongono l’accento sul problema dell'assenza del numero identificativo sulle uniformi degli agenti (Azzolina §151-152). La seconda questione, ancora a monte dell’identificazione, è quella relativa  all’emersione dei maltrattamenti posti in essere in contesti “chiusi” come quello carcerario. Vale la pena ricordare, sul punto, che nel caso dei detenuti di Asti gli abusi degli agenti erano emersi solo incidentalmente, grazie alle intercettazioni telefoniche volte ad accertare l’esistenza di un traffico di stupefacenti nell’istituto (Cirino e Renne § 21). La terza questione, parimenti centrale nei casi esaminati, è che spesso neppure i procedimenti disciplinari si dimostrano all’altezza degli standard richiesti dalla giurisprudenza di Strasburgo in materia di art. 3 Cedu, o perché non sanzionano i responsabili, o perché privi del fondamentale effetto sospensivo dall’esercizio delle funzioni nel corso dell’accertamento penale.

In conclusione pare evidente come la modifica introdotta nel codice penale non potrà da sola assolvere alla funzione di prevenire e reprimere gli atti di tortura, se non sarà accompagnata da un’incisiva e più ampia azione a livello di sistema, oltre che sul piano culturale. A tal proposito, pare significativo richiamare il comunicato stampa del Garante nazionale delle persone private della libertà personale a margine delle sentenze della Corte Edu, nel quale si ribadisce che “i messaggi, anche impliciti, di impunità non possono essere tollerati e l'azione preventiva deve essere significativamente rafforzata”; ricordando al riguardo che “la prima forma di prevenzione consiste nell'inviare inequivoci messaggi che maltrattamenti e tortura non sono minimamente tollerati o coperti, bensì perseguiti penalmente e disciplinarmente”.