ISSN 2039-1676


01 luglio 2013

Caso Aldrovandi: no all'esecuzione domiciliare della pena detentiva per uno dei condannati

Trib. Sorveglianza di Bologna, ord. 21 maggio 2013, (dep. 27 maggio 2013), n. 2013/1281, Pres. ed est. Maisto.

 

1. L'ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Bologna del 21 maggio 2013 - che può essere scaricata cliccando in fondo alla pagina su "download documento" - ha confermato il provvedimento con il quale il Magistrato di Sorveglianza della stessa città aveva rigettato un'istanza di "esecuzione presso il domicilio della pena detentiva" (si tratta dell'istituto introdotto dall'art. 1 della legge 199/2010, cd. legge "svuota carceri": clicca qui per una breve scheda illustrativa a suo tempo pubblicata in questa Rivista)

Il caso si colloca all'interno in una vicenda giudiziaria tristemente nota alle cronache: nella notte del 25 settembre 2005 il giovane studente ferrarese Federico Aldrovandi veniva picchiato a morte da quattro poliziotti, successivamente condannati per omicidio colposo a tre anni e sei mesi di reclusione (la sentenza della Cassazione è del 21 giugno 2012), tre dei quali indultati.

L'istanza di "esecuzione presso il domicilio della pena detentiva", presentata da uno degli imputati tramite il proprio difensore, veniva respinta dal Magistrato di Sorveglianza felsineo il 29 marzo 2013: il giudice - dopo aver ribadito la natura di misura alternativa alla detenzione del beneficio richiesto, ed averne tratto coerenti conseguenze in punto di non automatismo della sua applicazione, pur sempre subordinata al riscontro di una positiva evoluzione della personalità del soggetto - aveva negato che sussistessero le condizioni per un utile percorso extramurario di rieducazione, «considerato, in particolare, che la già evidenziata mancanza di comprensione della gravità della condotta [...] e la totale assenza di segnali atti ad indicare una presa di distanza critica dalla stessa, appaiono elementi rilevanti di valutazione, ora come allora, trattandosi di una vicenda [...] che sottende una sorta di cultura della violenza, tanto più grave ed inescusabile, in quanto da parte di appartenenti alla Polizia di Stato, organo preposto in prima battuta alla tutela dei cittadini».

L'ordinanza del 21 maggio 2013 che qui si pubblica rigetta il reclamo presentato dal difensore dell'imputato, e per l'effetto conferma il precedente diniego alla concessione del beneficio "svuota carceri". Nel prosieguo verranno illustrati i passaggi chiave della motivazione.

2. Dopo una ampia disamina delle ragioni a sostegno della qualificazione del beneficio in esame come misura alternativa alla detenzione (cfr. pp. da 2 a 5 dell'ordinanza), il Tribunale illustra le ragioni che ostano alla sua concessione nel caso di specie. In primo luogo i giudici soffermano l'attenzione, quale «punto di partenza dell'analisi della personalità del soggetto», sulla «natura e gravità dei reati». Affermano, a tale proposito, che «i fatti di cui alla sentenza di condanna assumono carattere di estrema gravità, oggettiva e soggettiva, essendo stati commessi in violazione di diritti fondamentali da parte di rappresentanti dello Stato. Il quadro normativo applicabile impone quindi al Giudice di tenere in prioritaria considerazione, secondo la doverosa interpretazione costituzionalmente orientata, i principi e gli obblighi conseguenti, stabiliti dalla Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, come elaborati dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo».

Tanto premesso, l'ordinanza rievoca - citando i rilevanti passaggi di precedenti pronunce intervenute nel corso della vicenda giudiziaria - alcuni frangenti dei fatti accaduti in quella tragica notte: la vittima «trovandosi la mattina del 25.9.2005, da solo, all'alba, in stato di agitazione psicofisica, probabilmente conseguito all'uso di sostanze [...] avendo accennato all'indirizzo dei quattro poliziotti una mossa di karate (sforbiciata andata a vuoto), veniva affrontato dai quattro odierni condannati, insieme, armati di manganelli [...], mediante pesantissimo uso di violenza personale. Il giovane veniva, in definitiva, percosso in diverse parti del corpo, proseguendo i quattro agenti la loro azione congiunta, anche quando il ragazzo (appena diciottenne) era ormai a terra, e nonostante le sue invocazioni di aiuto ("...basta...aiutatemi..."); fino a sovrastarlo letteralmente di botte (ed anche a calci) e con il peso del proprio corpo, ed in definitiva esercitando materialmente una tale pressione sul tronco del ragazzo [...] da provocarne uno stato prolungato di ipossia posizionale e lo schiacciamento del cuore [...] fino a provocarne in definitiva la morte». «...l'abbiamo bastonato di brutto per mezz'ora», comunicava infine alla Centrale di polizia proprio il condannato che richiede la concessione del beneficio penitenziario.

Alla luce di tale ricostruzione, il collegio di sorveglianza ritiene che «sebbene tecnicamente l'imputazione relativa a questi atti violenti sia stata formulata sotto lo specie del delitto di cui agli artt. 589, 51, 55, 113 c.p. - ossia concorso in eccesso colposo nella scriminante dell'adempimento di un dovere - tuttavia essa è qualificabile come fatto integrante gli estremi del crimine (e non con la meno grave denominazione di delitto, secondo la distinzione di gravità propria di altri ordinamenti [...]) di tortura, secondo la definizione recepita nel diritto consuetudinario e in Convenzioni cui l'Italia ha aderito, pur essendo rimasta inadempiente rispetto agli obblighi di adattamento interno». Ancora, la gravità del reato viene argomentata sulla scorta degli elementi di fatto che hanno determinato il diniego delle attenuanti generiche, ed in particolare sul «comportamento processuale degli imputati, attesa la distorsione, sin dalle prime ore successive al delitto di rilevanti dati probatori» poi concretizzatisi anche in «palesi menzogne ed in ostacoli frapposti all'accertamento della verità».

In conclusione, rileva l'ordinanza, «la personalità del condannato, dunque, si presenta negativamente connotata da quanto fin qui esposto, evidenziandosi dal tutto inaffidabilità, difetto di autocontrollo, assenza della capacità di gestire adeguatamente una situazione, quale quella in oggetto, che sia pure delicata non era certo così eccezionale e tale da richiedere un'attività di contenimento di siffatte caratteristiche, addirittura rivelatasi letale [...]».

3. L'apparato argomentativo viene poi integrato con alcune ulteriori considerazioni - caratterizzate, a dire il vero, da un incedere non sempre scorrevole - relative agli obblighi a carico dello Stato discendenti dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo.

«Secondo un principio interpretativo affatto consolidato della Corte di Strasburgo - recita l'ordinanza - la funzione della Corte stessa è quella di verificare se gli Stati membri rispettino la Convenzione di guisa che la nozione di effettività della tutela implica l'obbligo per questi di sanzionare le condotte penalmente rilevanti che violano i diritti dell'uomo, non solo con l'assunzione dell'obbligo di punire e reprimere nel momento astratto e statico dell'incriminazione, ma anche in quello dell'effettiva applicazione delle sanzioni concretamente irrogate a coloro che siano accertati come i responsabili delle azioni illegittime, quindi assicurando anzitutto l'esecuzione della pena criminale».

Prosegue poi il collegio: «La pretesa della Corte [di Strasburgo] si precisa maggiormente con riferimento alla funzione riparatoria delle sanzioni a favore delle vittime dei crimini commessi, le quali hanno, nel sistema complessivo degli obblighi di tutela penale a carico degli Stati, una vera e propria pretesa di ricevere tutela dalle aggressioni subite ai loro diritti fondamentali, proprio attraverso la repressione effettiva dei terzi responsabili».

«Da qui - concludono allora i giudici bolognesi, citando alcuni precedenti tratti dal case-law di Strasburgo (v. p. 10 dell'ordinanza) - la pretesa della CEDU di sindacare la qualità della sanzione financo nell'esecuzione della pena, secondo congruità e proporzionalità, ma soprattutto tale da non essere simbolica o senza pratiche conseguenze, cioè effettiva».

4. Infine, dopo la valutazione dei fatti commessi dal condannato, l'ordinanza si sofferma anche sulle sue condotte post factum, rinvenendo anche in esse ulteriori argomenti a sostegno del diniego del beneficio, attesa la comprovata assenza di un «processo critico avviato»: «non un atto concreto, atto ad indicare l'effettiva comprensione della vicenda delittuosa, connotata come sopra, e presa di distanza dalla stessa; non un gesto, anche solo simbolico, nei confronti della vittima o dei suoi famigliari, cui peraltro il risarcimento è stato pagato solo dallo Stato; non un gesto di riparazione sociale [...]; bensì le ormai note e pessime esternazioni su facebook, all'indirizzo della madre dell'Aldrovandi [...] a denotare la riottosità del predetto ad accettare la pronuncia giudiziale [...]».