ISSN 2039-1676


23 marzo 2011 |

Alle Sezioni Unite la questione della perdurante responsabilità  dell'ente ex d.lgs. n. 231/2001 per falsità  nelle relazioni delle società  di revisione: era proprio necessario?

Nota a Cass. pen., sez. V, 21.2.2011 (dep. 8.3.2011), n. 9027 (ord.), Pres. Rotella, Rel. Vessichelli

Con l’ordinanza n. 9027, depositata lo scorso 8 marzo 2011 – che può leggersi in allegato –, la V sezione della Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi sul ricorso del Procuratore della Repubblica di Milano avverso la sentenza del G.u.p. di Milano del 3 novembre 2010 (già pubblicata in questa Rivista) – che aveva dichiarato il non luogo a procedere nei confronti di una persona giuridica imputata ex art. 25-ter lett. g) d.lgs. n. 231 del 2001 in relazione alla fattispecie di falsità nelle relazioni delle società di revisione di cui all’abrogato art. 174-bis del T.u.f. – ha rimesso il giudizio alla valutazione delle Sezioni Unite.
 
Il G.u.p. di Milano aveva pronunciato la sentenza assolutoria rilevando sostanzialmente che, a seguito degli interventi legislativi del 2005 e del 2010 (l. n. 262 del 2005 e d.lgs. n. 39 del 2010)  il reato di falsità nelle relazioni delle società di revisione non rientra più nel novero dei reati-presupposto della responsabilità ex crimine degli enti. Ciò in quanto dette novelle legislative hanno, prima, collocato nell’art. 174-bis del T.u.f. alcune sottofattispecie (specificamente oggetto di imputazione nel caso de quo) originariamente tipizzate dall’art. 2624 c.c. e, poi, abrogato entrambe le disposizioni facendo confluire la figura criminosa nel nuovo art. 27 d.lgs. n. 39 del 2010 (l’unica disposizione vigente al momento del giudizio), che non figura tra i reati-presupposto della responsabilità degli enti.
 
L’art. 25-ter lett. g) del d.lgs. n. 231 del 2001, infatti, fa espresso ed esclusivo riferimento all’abrogato art. 2624 c.c. e – secondo la sentenza impugnata – il primo comma dell’art. 3 del d.lgs. n. 231 del 2001 equipara, in ragione del venir meno del giudizio di disvalore da parte dell'ordinamento, la ipotesi di abolitio criminis del delitto presupposto a quella di abrogazione della disposizione che ricollega ad un reato la responsabilità dell'ente. In tale ultima ipotesi, infatti, la norma che contempla il reato presupposto permane (anche nella forma della continuità nel tipo di illecito ai sensi dell'art. 2, comma terzo, c.p.) ma l'ente non è più tenuto a rispondere dell'illecito amministrativo che accedeva alla pregressa fattispecie incriminatrice, in quanto il legislatore non ricollega più alla fattispecie criminosa alcuna responsabilità da reato per l'ente”. In questa prospettiva, a nulla varrebbe invocare il rapporto di continuità normativa che indubbiamente sussiste tra le norme penali in successione temporale, posto che tale profilo attiene esclusivamente al reato-presupposto, che costituisce solo un tassello della struttura complessa dell’illecito proprio dell’ente.
 
D’altra parte – argomentava ancora il giudice milanese - l’art. 2 del d.lgs. n. 231 del 2001, sancendo il principio di stretta legalità della responsabilità degli enti, cristallizza il catalogo dei reati-presupposto a quelli tassativamente richiamati dal decreto, senza possibilità di una “integrazione a mezzo della contestazione di delitti equipollenti o della artificiosa frammentazione di elementi costitutivi del delitto composto” (in questi termini Cass. 29.9.2009, n. 41488, Rimoldi ed altri, CED Cassazione m. 245001).
 
Ebbene, anche a fronte di queste stringenti argomentazioni, la V sezione della Cassazione non ritiene di avallare e suggellare la conclusione del giudice meneghino. Benché nella stessa ordinanza di remissione si riconosca che in tal senso militi la dottrina “in grande maggioranza” e che tale tesi trovi vieppiù conferma sistematica in pregressi orientamenti giurisprudenziali (che hanno consolidato “principi analoghi affermati tanto nella materia de qua quanto in materie nelle quali si riscontra lo stesso meccanismo del richiamo ad una fattispecie integratrice”), la Suprema Corte accorda comunque credito a “possibili ulteriori diverse interpretazioni” che potrebbero ingenerare, in futuro, contrasti giurisprudenziali sulla fattispecie specifica.
 
La decisione di rimettere in via preventiva il giudizio alle Sezioni Unite può forse apparire in questo caso un po' precipitosa: le argomentazioni utilizzabili per sostenere la diversa tesi del rinvio “mobile” (e non “fisso”) dell’art. 25-ter d.lgs. n. 231 del 2001 all’art. 2624 c.c. non sembrano idonee a superare il valore decisivo del “formalismo” del dato letterale, che, in una materia informata al principio di stretta legalità, difficilmente può prestarsi alle interpretazioni “sostanzialistiche” invocate dalla Cassazione.
 
Appare poco conferente, in particolare, il richiamo alla questione ancora incerta – nonostante i numerosi interventi delle stesse Sezioni Unite – della successione di norme integratrici della legge penale; né appare persuasivo il riferimento agli effetti paradossali che possono derivare dall’adesione all’orientamento patrocinato dalla sentenza impugnata (per cui la responsabilità dell’ente sarebbe attualmente configurabile per fatti meno gravi rispetto a quelli espunti in base all’interpretazione criticata): non solo perché, metodologicamente, non è (solo) sulla base della valutazione degli effetti che è possibile giudicare la correttezza dell’esegesi giuridica, ma soprattutto perché, nella vicenda sub iudice, gli effetti stigmatizzati possono essere letti, al contrario, come il risultato di una precisa (per quanto criticabile) opzione politico-criminale del legislatore (come sottolinea un filone dottrinale al quale la stessa Corte fa riferimento).