ISSN 2039-1676


27 settembre 2017 |

La prima applicazione dei principi della sentenza "Scurato" nella giurisprudenza di legittimità

Nota a Cass., sez. VI, sent. 13 giugno 2017 (dep. 25 luglio 2017), n. 36874, Pres. Paoloni, Rel. De Amicis, Imp. Romeo

Contributo pubblicato nel Fascicolo 9/2017

Per leggere il testo della sentenza in commento, clicca in alto su "visualizza allegato".

 

1. Con sentenza del 13 giugno 2017, depositata il 25 luglio 2017, la Sesta sezione della Corte di Cassazione ha affrontato il tema dell’impiego nel corso delle indagini, al fine di compiere intercettazioni ambientali, del cd. “captatore informatico”. Com’è ormai noto, si tratta di un programma del tipo definito simbolicamente “trojan horse”, inoculato in genere da remoto in uno smartphone, in un tablet o in un computer. La decisione, che ha avuto un notevole risalto mediatico[1], si segnala perché costituisce la prima significativa applicazione da parte di una Sezione della Suprema Corte dei principi elaborati dalla sentenza “Scurato” dell’aprile del 2016[2], oggetto di una notevole attenzione della dottrina[3].

Il giudizio riguarda l’impugnazione dell’ordinanza con la quale il Tribunale di Roma, sezione riesame, aveva confermato l’ordinanza applicativa della custodia cautelare in carcere nei confronti di un imprenditore per il reato di corruzione propria. Secondo la prospettazione accusatoria, detto imprenditore ha corrotto un dirigente della società Consip S.p.a., il quale avrebbe ricevuto, dal 2014 al 2016, somme di denaro, con cadenze mensili e importo variabile, per il complessivo ammontare di euro 100.000,00, in cambio informazioni riservate e di consigli utili a favorire l'assegnazione di appalti pubblici nel settore del cd. facility management e, successivamente, a evitare l’irrogazione di penali o la risoluzione dei rapporti contrattuali.

La difesa ha proposto un complesso ricorso per cassazione, sviluppato in ben 450 pagine, articolando sei motivi di doglianza.

Per quello che qui interessa, con il terzo motivo, nel dedurre l’inutilizzabilità di tutte le intercettazioni telefoniche ed ambientali compiute nel corso delle indagini, i difensori hanno contestato specificamente l’uso del mezzo tecnologico dapprima indicato per svolgere investigazioni in merito ad un’ipotesi delittuosa che non permetteva il suo impiego. Al riguardo, hanno rilevato che “la maggior parte delle operazioni di intercettazione, …, è stata eseguita attraverso l'utilizzo di captatori informatici (cd. "software spia") all'interno di luoghi di privata dimora e al di là dell'effettivo svolgimento in essi di un'attività delittuosa …”. Hanno poi aggiunto che “la contestazione cautelare è stata formulata con riferimento ad un'ipotesi di corruzione semplice ed il P.M., …, ha avanzato in data 20 novembre 2015 una richiesta di intercettazioni, poi autorizzata dal G.i.p. presso il Tribunale di Napoli il 24 novembre 2015 limitatamente agli uffici personali in uso al Romeo …, senza che fossero emersi elementi indiziari circa l'esistenza di eventuali rapporti dell'indagato con la criminalità organizzata, in quanto tali propedeutici alla captazione delle conversazioni a mezzo dei cd. "virus spia". A sostegno della rilevanza della questione proposta nel giudizio cautelare hanno sostenuto che i principali riscontri alle dichiarazioni rese, nel corso di due interrogatori, dal dirigente pubblico che ha dichiarato di essere stato corrotto emergerebbero proprio dalle intercettazioni realizzate con il suddetto captatore.

Sulla base di questi rilievi, il ricorrente, depositando una memoria, aveva chiesto al Tribunale del riesame di verificare i presupposti di utilizzabilità degli esiti delle operazioni di intercettazione ambientale con riferimento alle modalità di autorizzazione e all’equiparabilità degli uffici dell’imprenditore alla nozione di luogo di privata dimora.

Con nuovi motivi, inoltre, i difensori hanno lamentato violazioni di legge in ordine all’iscrizione dell’indagato nel registro delle notizie di reato, tema reputato strettamente connesso a quello dell’utilizzabilità del virus informatico per compiere intercettazioni ambientali.

Sul punto hanno osservato che le iscrizioni operate con riferimento all’art. 7 della legge n. 203 del 1991 e all’art. 416-bis cod. pen, “che hanno determinato la concessione di autorizzazioni all'esecuzione di attività di intercettazione con mezzi particolarmente invasivi (ad es., con l'utilizzo del sistema cd. "trojan")”, non sarebbero state supportate da nuovi fatti emersi dalle attività d’indagine, né da precisi elementi di collegamento con vicende inerenti a fatti di criminalità organizzata.

 

2. La Corte ha ritenuto fondato il motivo di ricorso illustrato, ritenendo che nessun controllo fosse stato effettuato dal Tribunalepur a fronte di eccezioni gravi e puntualmente formulate in sede di gravame cautelare, sulla sussistenza dei presupposti di legittimità delle operazioni di intercettazione ambientale, il cui esito documentava, come precisato nell'ordinanza genetica, l'esistenza di tredici incontri avvenuti tra il Gasparri (il dirigente pubblico, n.d.r.) ed il Romeo a partire dall'attivazione del su indicato mezzo di ricerca della prova …”.

La premessa da cui si è sviluppato il ragionamento della Suprema Corte è costituita dal principale approdo interpretativo della giurisprudenza di legittimità sul tema della motivazione dei provvedimenti che autorizzano il compimento di intercettazioni. Secondo questo indirizzo, il decreto del Gip deve chiarire le ragioni della compressione della libertà di comunicare di cui all’art. 15 Cost. e della riservatezza della persona, in ordine sia al profilo dell’indispensabilità del mezzo probatorio ai fini della prosecuzione delle indagini, che a quello della sussistenza dei gravi indizi di un reato che rientra nel catalogo degli illeciti per i quali la legge consente l’impiego del mezzo di ricerca della prova. Ciò comporta la necessità di dare conto delle ragioni che impongono l’intercettazione di una determinata persona, indicando “il collegamento tra l’indagine in corso e la medesima, affinché possa esserne verificata, alla luce del complessivo contenuto informativo e argomentativo del provvedimento, l'adeguatezza rispetto alla funzione di garanzia prescritta dall'art. 15, comma 2, Cost.”.

Nel caso di specie, l’applicazione di questo orientamento giurisprudenziale è complicata dal fatto che le intercettazioni sono state autorizzate in un procedimento diverso, per giunta trattato da altra Autorità Giudiziaria, rispetto a quello nel quale sono state utilizzate ai fini dell’applicazione della misura cautelare.

Secondo la decisione in esame, tuttavia, l’uso delle intercettazioni in un procedimento diverso in forza delle previsioni dell’art. 270 cod. proc. pen., non può comportare una limitazione della tutela delle prerogative individuali. Le valutazioni circa l’utilizzabilità del materiale proveniente da intercettazioni effettuate nel procedimento in cui sono state disposte le relative operazioni, infatti, non vincolano il giudice del diverso procedimento, che deve procedere ad autonomo apprezzamento. Nel secondo procedimento penale, quando viene sollecitato ad operare il suo vaglio delibativo, il giudice deve rivendicare la propria autonomia di valutazione, essendo diversa la res iudicanda rappresentata dal diverso fatto di reato. Le risultanze delle attività d’intercettazione poste a base di una misura cautelare, pertanto, devono essere sottoposte ad uno specifico controllo, anche in sede di riesame, nel caso in cui sia eccepita l’insussistenza dei presupposti e delle condizioni di legittimità della loro autorizzazione.

Queste affermazioni, sebbene possano apparire per certi versi scontate, hanno imposto un ulteriore passaggio interpretativo.

La Corte, infatti, ha rilevato che, ai fini dell’utilizzazione delle captazioni realizzate aliunde, l’art. 270, comma 2, cod. proc. pen. non impone il deposito dei relativi decreti autorizzativi, né detto adempimento è richiesto dalla giurisprudenza[4]. Ciò nonostante la parte può chiedere l’espletamento di una verifica sull’utilizzabilità delle captazioni, cioè sulla legittimità dei decreti autorizzativi, i quali, peraltro, potrebbero non essere depositati. Il giudice di merito, in tale caso, “è tenuto ad effettuarla in via incidentale”[5]. Anzi egli non può esimersi dal compiere un autonomo apprezzamento sulla legittimità delle captazioniove la consistenza della stessa base indiziaria sulla quale si fonda il provvedimento impugnato, come avvenuto nel caso di specie, venga radicalmente posta in discussione attraverso la formulazione di eccezioni non pretestuose e seriamente prospettate”.

 

3. Affermati i principi in tema di motivazione del decreto che dispone intercettazioni e compiute le precisazioni illustrate sul controllo da parte del giudice ad quem delle captazioni realizzate in un diverso procedimento, la decisione in esame è passata ad analizzare lo specifico profilo relativo all’impiego del cd. captatore informatico.

Al riguardo, la Corte ha richiamato i principi delineati dalle Sezioni Unite nella sentenza “Scurato”, in base alla quale: a) l’intercettazione di comunicazioni tra presenti mediante l’installazione di un captatore informatico in un dispositivo elettronico è consentita nei soli procedimenti per delitti di criminalità organizzata per i quali trova applicazione la disciplina di cui all’art. 13 del decreto legge n. 151 del 1991, convertito dalla legge n. 203 del 1991, che consente la captazione anche nei luoghi di privata dimora, senza necessità di preventiva individuazione ed indicazione di tali luoghi e prescindendo dalla dimostrazione che siano sedi di attività criminosa in atto; b) ai fini dell’applicazione della disciplina derogatoria delle norme codicistiche prevista dall'art. 13 del predetto decreto legge, per procedimenti relativi a delitti di criminalità organizzata devono intendersi quelli elencati nell'art. 51, commi 3-bis e 3-quater, cod. proc. pen. nonché quelli comunque facenti capo ad un’associazione per delinquere, con esclusione del mero concorso di persone nel reato.

In particolare, nella sentenza in esame è stato rimarcato un punto della motivazione delle Sezioni Unite, evidentemente ritenuto fondamentale: “In considerazione della forza intrusiva del mezzo usato, la qualificazione del fatto reato, ricompreso nella nozione di criminalità organizzata, deve risultare ancorata a sufficienti, sicuri e obiettivi elementi indiziari, evidenziati nella motivazione del provvedimento di autorizzazione in modo rigoroso”.

Nel caso di specie, secondo la decisione in commento, l’ordinanza impugnata ha affermato solo in modo apodittico il collegamento tra la genesi dell’attività d’indagine e l’acquisizione di elementi in merito ad un’ipotizzata infiltrazione camorristica nelle attività dei servizi di pulizia svolti dall’impresa del ricorrente presso un ospedale napoletano. Sebbene detti elementi siano decisivi ai fini della valutazione di utilizzabilità delle captazioni, essi non sono stati esplicitamente indicati, né posti in relazione con il compendio indiziario individuato a sostegno dell'imputazione provvisoriamente enucleata in sede cautelare.

Il provvedimento impugnato, inoltre, è stato ritenuto viziato nella parte in cui ha affermato che gli uffici dell’imprenditore non potevano essere considerarsi luogo di privata dimora, “poiché l'indagato vi si recava "per svolgere i propri, non sempre leciti, affari una volta la settimana, senza neanche trascorrervi la notte”. In tema di intercettazioni ambientali, ai fini della verifica del presupposto dello svolgimento di attività criminosa in atto, infatti, la nozione di privata dimora non ricomprende solo i luoghi ove si svolge la vita domestica, e cioè la casa di abitazione, ma anche ogni altro luogo in cui il soggetto che ne dispone abbia la titolarità dello jus excludendi alios a tutela della riservatezza della vita privata. Anche l’ufficio privato, pertanto, è luogo di privata dimora poiché chi ne dispone svolge in esso la sua attività lavorativa, potendo inibire l’accesso ad altri[6].

Sulla base di tali coordinate ermeneutiche, pertanto, la Corte ha devoluto al Tribunale del riesame nel giudizio di rinvio una prima verifica sul materiale indiziario emerso dalle operazioni di intercettazione ambientale, che consiste nell’individuazione degli elementi di collegamento della condotta delittuosa oggetto del tema d’accusa cautelare con l’esistenza di associazioni criminali. Solo l’esistenza di detto collegamento, infatti, potrebbe giustificare l'utilizzazione del captatore informatico che è stato inserito in dispositivi elettronici portatili.

 

4. La Corte di Cassazione, inoltre, ha aggiunto un secondo accertamento a quello appena descritto. Il Tribunale, in particolare, dovrà verificare “la coincidenza tra le ipotesi delittuose oggetto delle iscrizioni effettuate nel registro delle notizie di reato ex art. 335 cod. proc. pen. e quelle poi indicate nelle richieste e nei correlativi decreti di autorizzazione e proroga delle intercettazioni utilizzate nel presente procedimento che si riferiscono alla configurazione dell'ipotesi delittuosa ivi provvisoriamente contestata (ex artt. 81 cpv., 110, 318, 319, 321 cod. pen.)”.

Al riguardo, la sentenza in commento ha rilevato che nella provvisoria formulazione dell’accusa, in base alla quale è stata emessa la misura cautelare, manca un riferimento alla previsione di cui all’art. 7 della legge n. 203 del 1991, pur inizialmente prefigurata nel corso della prima parte delle indagini che è stata svolta dall’Autorità Giudiziaria di Napoli per un diverso reato (art. 353-bis cod. pen.); successivamente, come evidenziato dalla difesa, nel periodo antecedente alla formulazione della richiesta cautelare, sono stati compiuti due aggiornamenti delle iscrizioni disposte a carico del ricorrente dal P.M. presso il Tribunale di Napoli, rispettivamente per il reato di cui all’art. 416 cod. pen. finalizzato a commettere una serie indeterminata di reati contro la pubblica amministrazione aggravati anche dall’art. 7 della legge n. 203 del 1991, e per il reato di cui all’art. 416-bis, commi 1 e 3, cod. pen., con riferimento all'aggiudicazione del solo appalto avente ad oggetto il servizio di pulizia presso un ospedale napoletano.

Tale accertamento è evidentemente finalizzato a verificare la sussistenza dei presupposti per l’utilizzazione del cd. captatore informatico al fine di compiere intercettazioni ambientali, dal momento che, come è stato evidenziato in precedenza, secondo la sentenza “Scurato”, in ragione della portata invasiva dello strumento tecnologico, esso deve essere riservato alle indagini relative ai soli reati di criminalità organizzata.

Questo secondo profilo, invero, presenta implicazioni molto delicate, come peraltro rilevato nella stessa sentenza in esame.

Per un verso, infatti, è stato precisato che la legittimità di un’intercettazione deve essere verificata al momento in cui la captazione è richiesta ed autorizzata, “non potendosi procedere ad una sorta di controllo diacronico della sua ritualità sulla base delle risultanze derivanti dal prosieguo delle captazioni e dalle altre acquisizioni[7], con l’importante conseguenza che “nel caso in cui un'intercettazione di comunicazione sia disposta applicando la disciplina prevista dall'art. 13, comma 1, del decreto legge 13 maggio 1991, n. 152 … con riguardo ad una originaria prospettazione di reati di criminalità organizzata, le relative risultanze possono essere utilizzate anche quando il prosieguo delle indagini impone di qualificare i fatti come non ascrivibili alla suddetta area”.

Per altro verso, la stessa decisione ha evidenziato che, in considerazione del mezzo tecnologico impiegato, occorre rispettare un onere motivazionale particolarmente intenso ai fini dell’emissione del provvedimento autorizzativo, “poiché la forza intrusiva del mezzo usato ed il potenziale vulnus all'esercizio delle libertà costituzionalmente tutelate devono essere prudentemente bilanciati con il rispetto dei canoni di proporzione e ragionevolezza, cosicché la qualificazione, pure provvisoria, del fatto come inquadrabile in un contesto di criminalità organizzata risulti ancorata a sufficienti, sicuri ed obiettivi elementi indiziari …”.

 

5. L’ultima considerazione illustrata ha portato la Corte a sviluppare quella che appare l’affermazione più rilevante della decisione in commento. Essa consiste nel dare risalto alla funzione di garanzia della motivazione del decreto autorizzativo delle intercettazioni: “Il bilanciamento tra i diritti costituzionali confliggenti, individuali e collettivi, deve intervenire proprio nella motivazione del provvedimento autorizzativo, che in tal senso viene ad assumere una fondamentale funzione di garanzia, spiegando le ragioni dell'assoluta indispensabilità dell'atto investigativo e indicando con precisione quale sia il criterio di collegamento tra l'indagine in corso e la persona da intercettare”.

Il presupposto dei “gravi indizi di reato”, infatti, non ha una connotazione “probatoria”, in chiave di valutazione prognostica della colpevolezza, ma esige un vaglio di particolare serietà delle esigenze investigative, che vanno riferite ad uno specifico fatto costituente reato, in modo da circoscrivere l'ambito di possibile incidenza dell'interferenza nelle altrui comunicazioni private.

In tale contesto, la funzione del giudice, cui è demandato lo scrutinio dei presupposti che permettono di ricorrere alle intercettazioni, è quella di affermare in ogni momento il rispetto della legalità del procedimento e non quella di prestarsi a “facili aggiramenti delle norme di legge per compiacere alle richieste del pubblico ministero o di chicchessia[8].

In particolare, nel caso di richiesta di captazioni che contempli l’uso del programma del tipo “trojan horse”, l’invasività dello strumento tecnologico ha condotto le Sezioni Unite della Corte a riservarne l’impiego alle sole indagini di criminalità organizzata, potendo contare per tale genere di investigazioni sulla base normativa integrata dall’art. 13 del decreto legge citato. Questa disposizione, infatti, deroga al rigido presupposto per lo svolgimento di intercettazioni tra presenti in un domicilio di cui all’art. 268, comma 2, cod. proc. pen. S’impone, pertanto, il rigoroso apprezzamento, già nella fase della richiesta, ma soprattutto in quella della successiva autorizzazione giudiziale, della solidità della qualificazione dell’ipotesi associativa, dovendo verificarsi che non si risolva in una sorta di illecito “contenitore”, privo, ad esempio, della specifica individuazione delle condotte relative ai delitti scopo dell'associazione ipotizzata. Il reato associativo, dunque, non deve essere strumentalizzato al fine di ottenere l’autorizzazione di intercettazioni per mezzo del captatore informatico.

 

*******

 

6. Gli spunti offerti dalla sentenza in esame, ancorché la sua analisi sia stata limitata al solo motivo concernente l’utilizzabilità delle intercettazioni e l’impiego del cd. captatore informatico, sono molteplici. All’esito della sua prima lettura appare interessante soffermarsi su due aspetti che appaiono di peculiare rilievo.

In primo luogo traspare dalla decisione in esame la consapevolezza che la forza intrusiva sulle prerogative individuali del mezzo tecnologico usato per compiere le intercettazioni riproponga con forza il tema fondamentale del recupero della funzione di garanzia del decreto che autorizza le intercettazioni[9]. L’uso di uno strumento sofisticato, infatti, non vale a mutare il problema principale della disciplina delle intercettazioni, semmai ne accentua il rilievo. Il bilanciamento tra i diritti costituzionali confliggenti, individuali e collettivi, deve essere compiuto dal giudice che ne deve dare atto nella motivazione del provvedimento autorizzativo. Sovente, invece, si lamenta il ricorso, da parte dei giudici delle indagini preliminari, a mere clausole di stile, se non a modelli o a stereotipi. Al riguardo, non assume alcun rilievo la considerazione delle “dimensioni” del provvedimento, che necessariamente devono essere minime e sobrie dal momento che l’atto interviene nel corso delle indagini; occorre invece che il supporto motivazionale abbia effettiva capacità di chiarire, anche in poche battute, anzi proprio in poche righe, il collegamento tra la persona intercettata e l’indagine in corso in modo da evidenziare l’assoluta indispensabilità (o la necessità nei casi previsti dall’art. 13 del decreto legge n. 151 del 1991) del mezzo di ricerca della prova.

Quando poi la captazione è compiuta per mezzo del “trojan horse”, occorre che sia sufficientemente dimostrato che l’inchiesta verte in tema di criminalità organizzata o associativa e che la persona intercettata sia collegata ad un’ipotesi delittuosa di tale natura. Questo profilo è determinante perché consente di riportare il nuovo strumento tecnologico nell’ambito della disciplina normativa dell’art. 13 del decreto legge citato, rendendone legittimo l’impiego nelle indagini. La sentenza “Scurato”, infatti, ha voluto evitare alla radice il rischio di intercettazioni tra presenti in luoghi di privata dimora, dove di norma sono condotti gli strumenti tecnologici in cui può essere inserito il programma informatico in esame. In questa prospettiva, in particolare, le Sezioni unite hanno reputato insoddisfacente la tutela “postuma” delle prerogative individuali che sarebbe potuta derivare dall’applicazione della sanzione dell’inutilizzabilità eventualmente inflitta alle sole intercettazioni avvenute in luoghi di privata dimora.

 

7. La sentenza in esame, poi, ha riaffermato che, nel caso di utilizzo in un diverso procedimento di intercettazioni compiute aliunde, dinanzi alle eccezioni formulate dall’imputato o dall’indagato, il giudice è tenuto ad effettuare in via incidentale il controllo sulla legittimità delle captazioni[10]. Al riguardo, la Suprema Corte ha rilevato che l’art. 270, comma 2, cod. proc. pen. non impone il deposito dei decreti autorizzativi delle intercettazioni compiute aliunde ai fini della loro utilizzazione. Nondimeno, secondo la decisione in esame, tale previsione normativa non può determinare una limitazione della tutela delle prerogative fondamentali e, quindi, non impedisce di sollecitare l’espletamento di una verifica sull’utilizzabilità delle captazioni. Anzi, il giudice di merito non può esimersi dal compiere un autonomo apprezzamento sulla legittimità delle captazioni quando la base indiziaria sulla quale si fonda il provvedimento impugnato è rappresentata da captazioni di questo genere che siano poste in discussione dall’imputato.

Nell’affermare questi principi, tuttavia, la Corte non ha esplicitamente ribadito che sulla parte interessata grava l’onere di acquisire nel diverso procedimento i decreti autorizzativi, qualora essi non fossero stati depositati in precedenza, producendoli a sostegno dell’eccezione formulata[11].

Secondo l’indirizzo giurisprudenziale consolidato, infatti, l’inutilizzabilità dei risultati di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni per violazione degli artt. 267 e 268, commi 1 e 3, cod. proc. pen., è rilevata dal giudice del procedimento diverso da quello nel quale sono state autorizzate solo quando essa risulti dagli atti di tale procedimento, non essendo tenuto detto giudice a ricercarne d'ufficio la prova. Grava sulla parte interessata a farla valere l’onere di allegare e provare il fatto dal quale dipende l'eccepita inutilizzabilità, sulla base di copia degli atti rilevanti del procedimento originario che la parte stessa ha diritto di ottenere, a tal fine, in applicazione dell'art. 116 cod. proc. pen.[12].

Il mancato deposito dei provvedimenti, consentito dall’art. 270 cod. proc. pen.[13], pertanto, non mette il giudicante nella condizione di compiere quell’apprezzamento sull’utilizzabilità delle intercettazioni che, secondo la decisione in esame, deve essere compiuto anche autonomamente qualora le eccezioni sollevate investono proprio vizi dei decreti autorizzativi. Si tratta di un profilo che può apparire eminentemente pratico, ma che incide sul controllo che il giudice ad quem può compiere sull’utilizzabilità delle intercettazioni realizzate in un diverso procedimento, a meno che non voglia sostenere che egli debba ricorrere all’esercizio di poteri di acquisizione officiosa. Si tratterebbe, in quest’ultimo caso, di estendere alla fattispecie in esame l’orientamento secondo cui la mancata allegazione, da parte del pubblico ministero, dei relativi decreti autorizzativi a corredo della richiesta di l’applicazione di misure cautelari e la successiva omessa trasmissione degli stessi al Tribunale del riesame a seguito di impugnazione del provvedimento coercitivo, non determina né l'inefficacia della misura né l'inutilizzabilità delle intercettazioni, ma obbliga il Tribunale ad acquisire d’ufficio tali decreti ove la parte ne faccia richiesta[14].

 

8. Con riferimento all’ultimo aspetto analizzato, appare opportuno aggiungere che non è affatto agevole definire quando si è dinanzi ad un diverso procedimento penale.

Secondo un orientamento giurisprudenziale, infatti, l’art. 270 cod. proc. pen. intende impedire soltanto il trasferimento dei risultati delle operazioni tecniche da uno ad un altro procedimento che abbiano avuto un’autonoma e distinta origine. I risultati delle intercettazioni legittimamente acquisiti nell’ambito di un procedimento penale inizialmente unitario, invece, sono sempre utilizzabili, ancorché lo stesso sia stato successivamente frazionato a causa della eterogeneità delle ipotesi di reato e dei soggetti indagati, poiché in tal caso non trova applicazione l’art. 270 cod. proc. pen. che postula l’esistenza di più procedimenti ab origine distinti tra loro[15]. Il fatto che sia intervenuta una separazione perché le ipotesi di reato erano eterogenee e diversi erano i soggetti indagati (quindi, perché le ipotesi di reato non erano connesse, né collegate sul piano probatorio), in altri termini, non esclude l’utilizzo delle intercettazioni in ragione dell’origine unitaria. Alla stregua di quest’impostazione, l’equivoco in cui sarebbe incorsa anche parte della giurisprudenza di legittimità, “è stato quello di attribuire rilevanza preminente al dato formale della diversità dei procedimenti nella loro fase statica, senza invece considerarne la genesi”[16]. La disciplina di cui all’art. 270 cod. proc. pen., in conclusione, si applicherebbe solo nel caso in cui i risultati delle intercettazioni transitano tra procedimenti ab origine distinti e non quando il secondo procedimento costituisce una gemmazione del primo[17].

Seguendo questo indirizzo, potrebbe anche dubitarsi che nel caso di specie ci si trovi dinanzi ad un procedimento diverso nel senso indicato nell’art. 270 cod. proc. pen., con la conseguenza dell’inapplicabilità della relativa disciplina.

 


[1] Tra gli articoli dedicati alla sentenza in esame sui principali giornali italiano si vedano Consip: Cassazione, nessuna certezza sul "sistema" Romeo”, in La Repubblica - Napoli, 25 luglio 2017; Consip, la Cassazione: “Nessuna chiarezza sul metodo corruttivo di Alfredo Romeo. Verificare legittimità delle intercettazioni”, in Il Fatto Quotidiano 25 luglio 2017; Consip, la sentenza della Cassazione: «Nessuna chiarezza sul metodo Romeo», in Il Mattino, 25 luglio 2017, tutti pubblicati sulla versione on line dei quotidiani.

[2] Cass., Sez. un. 28 aprile 2016, n. 26889 (dep. 1 luglio 2016), Scurato, in CED Cass. n. 266905-266906. Dopo questa sentenza, invero, il tema è stato affrontato in altre pronunce di legittimità. Alcune sentenze della Sezione sesta, tutte nondimeno concernenti la medesima vicenda cautelare che ha dato l’occasione per l’intervento delle Sezioni unite, hanno ribadito che è ammissibile l’utilizzo del captatore informatico limitatamente ai procedimenti relativi a delitti di criminalità organizzata, anche terroristica, a norma dell’art. 13 del decreto legge n. 152 del 1991, intendendosi per tali quelli elencati nell’art. 51, comma 3-bis e 3-quater, cod. proc. pen. (Cass., Sez. VI, 3 maggio 2016, n. 27404, Marino; Cass., Sez. VI, 3 maggio 2016, n. 26054, Di Cara; Cass., Sez. VI,  3 maggio 2016, n. 26055, Bronte; Cass., Sez. VI, 3 maggio 2016, n. 26058, Lo Iacono). L’eccezione di inutilizzabilità delle intercettazioni compiute per mezzo del software , inoltre, è stata formulata in un giudizio avente ad oggetto reati di corruzione, falso, turbativa d’asta, truffa ed altro (Cass., Sez. V, 4 marzo 2016, n. 26817, Iodice ed altri). In questo caso, la Corte ha rigettato l’eccezione ritenendo inadempiuto l’onere di indicare con precisione l’atto asseritamente affetto dal vizio denunciato, provvedendo anche a produrlo in copia nel giudizio di cassazione. Cass., Sez. IV, 28 giugno 2016, n. 40903, Grassi ed altri, in CED Cass. n. 268228, infine, ha reputato legittimo l’uso di programma informatico del tipo indicato per acquisire le credenziali di accesso ad una casella di posta elettronica

[3] La sentenza delle Sezioni unite, in particolare, è stata commentata in Arch. nuova proc. pen. 2017, 76 e ss. da A. Camon, Cavalli di troia in Cassazione; in Cass. pen. 2016, p. 2274-2288, da A. Balsamo, Le intercettazioni mediante virus informatico tra processo penale italiano e Corte europea; in Il Diritto dell'informazione e dell'informatica, 2016, 88, da Corasaniti, Le intercettazioni "ubiquitarie" e digitali tra garanzia di riservatezza, esigenze di sicurezza collettiva e di funzionalità del sistema delle prove digitali; in Proc. pen. giust., 2016, fasc. 5, 21, da Felicioni, L'acquisizione da remoto di dati digitali nel procedimento penale: evoluzione giurisprudenziale e prospettive di riforma. Sulla sentenza si veda anche Gaito – Fùrfaro, Le nuove intercettazioni “ambulanti”: tra diritto dei cittadini alla riservatezza ed esigenze di sicurezza per la collettività, in Arch. pen. 2016, II, 309; Cisterna, Spazio ed intercettazioni, una liaison tormentata. Note ipogarantistiche a margine della sentenza Scurato delle Sezioni unite, in Arch. pen. 2016, II, 331; Filippi, L’ispe-perqui-intercettazione “itinerante”: le Sezioni unite azzeccano la diagnosi, ma sbagliano la terapia (a proposito del captatore informatico), in Arch. pen. 2016, II, 348; Picotti, Spunti di riflessione per il penalista dalla sentenza delle Sezioni unite relativa alle intercettazioni mediante captatore informatico, in Arch. pen. 2016, II, 354; Lasagni, L’uso di captatori informatici (trojans) nelle intercettazioni “fra presenti”, in questa Rivista, 7 ottobre 2016.

[4] Cass., Sez. V, 10 luglio 2015, n. 4758, dep. 2016, Bagnato, in CED Cass. n. 265992.

[5] Cass., Sez. II, 26 aprile 2012, n. 30815, Parise, in CED Cass. n. 253415.

[6] Cass., Sez. VI, 29 settembre 2003, n. 49533, Giliberti, in CED Cass. n. 227835.

[7] Cass., Sez. VI, 1 marzo 2016, n. 21740, Masciotta, in CED Cass. n. 266921.

[8] Le espressioni citate sono tratte da Cass., Sez. VI, 20 ottobre 2009, n. 50072, Bassi, in CED Cass., n. 245699.

[9] Su questo tema sia consentito il rinvio a L. Giordano, Dopo le Sezioni Unite sul "captatore informatico": avanzano nuove questioni, ritorna il tema della funzione di garanzia del decreto autorizzativo, in questa Rivista, 20 marzo 2017.

[10] Cass., Sez. II, 26 aprile 2012, n. 30815, cit. Le valutazioni circa l’utilizzabilità delle intercettazioni effettuate nel procedimento in cui sono state disposte le relative operazioni non vincolano il giudice del diverso procedimento, che conserva piena autonomia decisoria e deve procedere ad autonomo apprezzamento. Così, tra le altre Cass., Sez. I, 28 ottobre 2010, n. 42006, in CED Cass. n. 249109.

[11] Cass., Sez. VI, 18 settembre 2015, n. 41515, in CED Cass. n. 264741; Cass., Sez. VI, 15 gennaio 2009, n. 6875, in CED Cass. n. 243671.

[12] Cass., Sez. U, 17 novembre 2004, n. 45189, in CED Cass. n. 229245. In sostanza, è devoluto alla parte interessata il compito non solo di dedurre il vizio, ma anche di allegare la documentazione necessaria per permettere al giudice di accertare se vi sia stato l'esercizio del potere di controllo giurisdizionale richiesto dall’art. 15 Cost. e riconoscere la sussistenza di una eventuale causa di illegittimità. Il giudizio sulla legalità del mezzo di prova, in altri termini, è subordinato ad un’eccezione ed ad una produzione documentale della parte. In dottrina (C. Conti, Intercettazioni ed inutilizzabilità: la giurisprudenza aspira al sistema, in Cass. pen. 2011, 3638 e ss.) è stato sottolineato come la giurisprudenza della Corte di Cassazione, in forza di orientamenti come quello illustrato, abbia costruito una sorta di “inutilizzabilità ad ampiezza variabile” la cui portata dipende dal comportamento delle parti. Da un lato, gli attori del processo sono responsabilizzati nel senso che gravano sugli stessi oneri al fine di far valere l’invalidità della prova. Dall’altra, proprio detto onere, di fatto, rimette alla disponibilità dell’interessato l’allegazione dei fatti costitutivi dell’invalidità, determinando finanche, nel caso di inerzia dell’interessato, una sorta di quiescenza del vizio.

[13] Ai fini dell'utilizzabilità dei risultati di intercettazioni legittimamente eseguite in altro procedimento non è richiesto il deposito dei decreti autorizzativi di esse nel procedimento originario, ma solo quello dei relativi verbali e registrazioni. Cfr., tra le altre, Cass., Sez.  F, 31 luglio 2003, n. 38291, in CED Cass. n. 226166.

[14] Cass., Sez. I, 11 ottobre 2016, n. 823, dep. 2017, in CED Cass. n. 269291. Secondo l’indirizzo giurisprudenziale consolidato, la mancata allegazione, da parte del P.M., dei relativi decreti autorizzativi a corredo della richiesta di l'applicazione di misure cautelari e la successiva omessa trasmissione degli stessi al Tribunale del riesame a seguito di impugnazione del provvedimento coercitivo, non determina né l'inefficacia della misura né l'inutilizzabilità delle intercettazioni. Cfr. Cass., Sez. III, 12 ottobre 2007, n. 42371, Gulisano, in CED Cass. n. 238059; Cass., Sez. I, 15 febbraio 2005, n. 8806, Ferrini, in CED Cass. n. 231083; Cass., Sez. IV, 1 dicembre 2004, n. 4631, dep. 2005, in CED Cass. n. 230685. 

[15] Cass., Sez. VI, 16 dicembre 2014 n. 6702 (dep. 16 febbraio 2015), La Volla, in CED Cass. n. 262496.

[16] Cass., Sez. VI, 16 dicembre 2014 n. 6702, cit.

[17] Cass., Sez. IV, 8 aprile 2015, n. 29907, Bono, in CED Cass. n. 244382.