ISSN 2039-1676


6 novembre 2017 |

La Corte costituzionale salva la pena minima (di 8 anni di reclusione) per il traffico di droghe 'pesanti' ma invia un severo monito al legislatore

Corte cost., sent. 6 giugno 2017 (dep. 13 luglio 2017), n. 179, Pres. Grossi, Red. Cartabia; Corte cost., ord. 6 giugno 2017 (dep. 13 luglio 2017), n. 184, Pres. Grossi, Red. Cartabia

Contributo pubblicato nel Fascicolo 11/2017

Per leggere il testo delle pronunce in commento, clicca sui link seguenti: C. cost., sent. 179/2017 - C. cost., ord. 184/2017

 

1. In questo nuovo episodio della giurisprudenza costituzionale sulle disposizioni che puniscono i delitti aventi ad oggetto sostanze stupefacenti, la Corte ha ritenuto che il trattamento sanzionatorio previsto dall’art. 73 d.P.R. 309/1990 non violi i principi di ragionevolezza-uguaglianza, di offensività, e di proporzionalità della pena rispetto alla gravità del reato, sanciti dalla nostra Carta costituzionale e dalle fonti europee sui diritti fondamentali. Giudicate pertanto inammissibili tutte le questioni di legittimità sollevate, la Consulta ha – almeno per il momento – evitato il ‘battito d’ali’ che avrebbe provocato ‘tornado giuridici’ di vaste e non del tutto prevedibili proporzioni in ogni singolo tribunale della Penisola; ciononostante, il monito inviato al legislatore è dei più seri: si auspica un intervento legislativo che sopraggiunga prima di una (futura ma possibile) pronuncia di illegittimità costituzionale e che sia volto a ridefinire i parametri edittali di pena delle varie fattispecie previste dall’art. 73 t.u. stup., risanando la frattura che separa le pene previste per i fatti lievi e per i fatti non lievi dai commi 5 e 1 dell’art. 73, del d.P.R. n. 309 del 1990[1].

 

2. Procediamo però con ordine, ricapitolando in breve i tre casi di specie che hanno dato l’avvio agli incidenti di costituzionalità in esame[2].

I tribunali di Ferrara e di Rovereto erano chiamati a giudicare fatti di detenzione di stupefacente che ritenevano sussumibili nel primo comma dell’art. 73 t.u. stup., in considerazione della quantità e qualità della sostanza, nonché del contestuale possesso di elevate somme di denaro in contante da parte dell’agente e di altri indicatori fattuali. Tuttavia entrambi i giudici di merito, rilevata l’elevata pena minima prevista dal primo comma dell’art. 73 t.u. stup. (pari a 8 anni di reclusione) anche per fatti di gravità modesta (nello specifico, detenzione di circa 100 grammi di cocaina nel primo caso di specie e di circa 60 grammi di eroina nel secondo) ancorché non integranti ipotesi di “lieve entità” ai sensi del quinto comma, sospettavano di illegittimità costituzionale tale disposizione in riferimento agli artt. 3, 25, 27 terzo comma, Cost. (il Tribunale di Ferrara) e in riferimento agli artt. 3, 11, 27 terzo comma, e 117 primo comma Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 4 e 49 § 3 della CDFUE e in relazione all’art. 3 della CEDU (il Tribunale di Rovereto).

La sesta sezione della Corte di cassazione, invece, rilevava l’errore commesso dal Tribunale di Imperia nel sussumere nella fattispecie di ‘lieve entità’ ex quinto comma un fatto di spaccio continuato, alla luce delle modalità di organizzazione e dell’elevato numero di clienti cui l’agente forniva la sostanza stupefacente. In conseguenza della ritenuta necessità di annullare la sentenza del giudice di prime cure e di riqualificare il fatto nella fattispecie di cui al primo comma dell’art. 73 t.u. stup., la Cassazione sollevava questione di legittimità costituzionale di tale disposizione non solo in relazione alla presunta violazione dei principi di ragionevolezza e proporzione della pena (artt. 3 e 27 Cost.), ma anche – e anzi in via principale – in riferimento al principio di riserva di legge in materia penale sancito dall’art. 25, secondo comma Cost., vulnerato secondo la Cassazione dalla sentenza n. 32/2014 della Corte costituzionale che – reintroducendo nell’ordinamento il trattamento sanzionatorio previsto dalla legge Iervolino-Vassalli – avrebbe modificato in malam partem la legislazione vigente in materia di sostanze stupefacenti.

 

3. Conviene dunque iniziare la ricostruzione delle pronunce della Consulta dall’analisi dell’ordinanza n. 184/2017, la quale ha dato risposta proprio ai dubbi prospettati dalla Cassazione. In verità, la Corte non ha affrontato nel merito la questione della ragionevolezza e proporzionalità del trattamento sanzionatorio previsto dal primo comma dell’art. 73 t.u. stup. perché ha ritenuto le questioni sollevate manifestamente inammissibili. Nel motivare tale inammissibilità, la Corte ha però fornito importanti indicazioni su vari aspetti del giudizio incidentale di costituzionalità delle leggi.

I giudici costituzionali hanno innanzitutto statuito che le “questioni sollevate non sono rilevanti nel giudizio davanti alla Corte di cassazione, in quanto la suprema Corte non deve fare applicazione della norma sanzionatoria censurata, la quale verrà in rilievo nella successiva fase del giudizio di rinvio davanti al giudice di merito, alla cui cognizione dovrà essere eventualmente rimessa la determinazione della pena a seguito dell’annullamento della sentenza impugnata”. Difatti, l’accoglimento da parte della Consulta della questione di costituzionalità prospettata non era in alcun modo pregiudiziale alla decisione della Cassazione, la quale avrebbe già potuto annullare la sentenza impugnata per erronea applicazione della legge penale, sub specie di erronea qualificazione del fatto concreto nella fattispecie di cui al quinto comma anziché in quella prevista dal primo comma. Il problema della legittimità costituzionale della misura della pena per i fatti di cui al primo comma si sarebbe al più potuto prospettare nell’ambito del giudizio di rinvio, quando il giudice del merito sarebbe stato chiamato a rideterminare la pena sulla base del primo e non del quinto comma[3].

Così decidendo, la Corte costituzionale ha definitivamente chiarito che l’art. 23, secondo comma, della legge n. 87 del 1953, a tenore del quale può proporsi un controllo di costituzionalità delle leggi soltanto “qualora il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione”, fa riferimento non al giudizio a quo nel suo complesso, bensì alla fase del giudizio in cui la norma risultante dal sindacato della Consulta deve essere applicata.

 

4. La Corte ha poi dichiarato inammissibile la questione sollevata in relazione all’art. 25 Cost. per contraddittorietà della motivazione, “in quanto da un lato il rimettente afferma la tesi secondo cui le sentenze della Corte costituzionale costituirebbero fonti del diritto equiparate alla legge – e, dall’altro, assume che, in quanto non equiparabile alla legge, la sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale violi la riserva di legge di cui all’art. 25 Cost.”.

 

5. Sempre con riferimento alla prospettata lesione dell’art. 25 Cost., la Corte ha altresì dichiarato inammissibile la questione sollevata dalla Cassazione, rilevando come essa si fosse tradotta in un improprio tentativo di impugnazione” della sentenza n. 32/2014 della Corte costituzionale, in violazione del disposto di cui all’art. 137, terzo comma, Cost., secondo cui “contro le decisioni della Corte costituzionale non è ammessa alcuna impugnazione”. Sulla base di tale assorbente argomento, la Corte non ha pertanto ritenuto di esaminare i motivi della Cassazione relativi ai limiti del sindacato di legittimità costituzionale di una legge penale di favore, asseritamente violati dalla sentenza n. 32/2014[4].

 

6. La Corte costituzionale ha infine dichiarato inammissibile, “per incompleta ed erronea ricostruzione del quadro normativo, anche la questione sollevata dalla Cassazione nella parte in cui prospettava dubbi di costituzionalità del trattamento sanzionatorio previsto dall’art. 73, comma primo, t.u. stup., in relazione ai principi di ragionevolezza e proporzione della pena ex artt. 3 e 27 Cost. La Cassazione proponeva di ridurre il minimo edittale di pena stabilito dall’art. 73, primo comma, t.u. stup. alla misura di sei anni, già stabilita dalla legge Fini-Giovanardi (dichiarata incostituzionale ad opera della sentenza n. 32/2014). Una tale soluzione si sarebbe posta però in contrasto con il dettato degli articoli 136, primo comma, Cost. e 30, terzo comma, della legge n. 87/1953[5], nella misura in cui essa avrebbe comportato “un inammissibile ripristino di una disciplina sanzionatoria contenuta in una disposizione dichiarata costituzionalmente illegittima per vizi procedurali di tale gravità da determinare l’inidoneità della stessa a innovare l’ordinamento”.

 

7. La questione relativa alla presunta illegittimità del trattamento sanzionatorio previsto dall’art. 73, primo comma, t.u. stup. per violazione dei principi di ragionevolezza-uguaglianza e di proporzionalità della pena, è stata invece approfondita dalla Corte costituzionale nella simultanea sentenza n. 179/2017, che ha definito i giudizi di legittimità sollevati dai Tribunali di Ferrara e di Rovereto.

In particolare, i giudici di merito ritenevano problematico il trattamento sanzionatorio previsto per punire i delitti aventi ad oggetto stupefacenti nella parte in cui stabilisce una differenza pari a quattro anni di reclusione tra il minimo di pena per le ipotesi più gravi di cui al comma primo e il massimo di pena per quelle di ‘lieve entità’ di cui al quinto comma dell’art. 73 d.P.R. 309/1990, a fronte di una minima differenza di disvalore del fatto tra le due fattispecie. Seppur facendo riferimento a parametri costituzionali in parte diversi (v. supra, § 2), il petitum delle due ordinanze di rimessione risultava identico: la riduzione del minimo edittale di pena di cui all’art. 73, c. 1, t.u. stup. da otto a quattro anni di reclusione, corrispondente al massimo edittale di pena previsto dal quinto comma del medesimo articolo per i fatti di lieve entità aventi ad oggetto le c.d. droghe pesanti.

La Corte si è qui occupata funditus della questione, a differenza di quanto accaduto in passato in relazione a ordinanze di rimessione che avevano prospettato la medesima questione senza però individuare una soluzione costituzionalmente obbligata[6].

 

8. Il puntuale apparato motivazionale della sentenza muove innanzitutto da una ricostruzione della giurisprudenza della Consulta “sull’ampiezza e i limiti del sindacato di legittimità costituzionale in materia penale, in riferimento alle norme sanzionatorie”. L’analisi di questa evoluzione giurisprudenziale permette di rilevare:

i) che il principio di legalità sancito dall’art. 25 Cost. affida le scelte sulla misura della pena alla discrezionalità politica del legislatore, ma che il risultato dell’esercizio di tale discrezionalità non è esente dal sindacato fondato sugli altri parametri costituzionali, tra cui quelli previsti dagli articoli 3 e 27 Cost.;

ii) che, nel rispetto delle valutazioni di politica criminale spettanti al legislatore, la Corte costituzionale “ha ritenuto di poter incidere sulla misura della pena solo rintracciando all’interno dell’ordinamento vigente una adeguata disposizione sanzionatoria sostitutiva di quella dichiarata costituzionalmente illegittima” (§ 4.3);

iii) che, di recente, gli interventi della Corte costituzionale “sulle disposizioni sanzionatorie sono divenuti più frequenti, con una serie di decisioni ispirate a una sempre maggiore garanzia della libertà personale e dei principi costituzionali che delineano il ‘volto costituzionale del sistema penale’” (§ 4.4), rintracciabili non solo nelle disposizioni della nostra carta fondamentale ma anche nel principio di proporzionalità della pena codificato nell’art. 49, paragrafo 3, della CDFUE;

iv) che, nella recentissima sentenza n. 236 del 2016, la Corte costituzionale “è giunta alla declaratoria di illegittimità costituzionale in seguito a un controllo di proporzionalità sulla cornice edittale stabilita dalla norma censurata e non già in forza di una verifica sull’asserito diverso trattamento sanzionatorio di condotte simili o identiche”, e ha individuato una nuova misura sanzionatoria – parificandola a quella di altra fattispecie prevista dall’ordinamento – perché ritenuta l’“unica soluzione praticabile” (§ 4.5).

Alla luce di questa ricostruzione, con esplicito riferimento all’art. 73 t.u. stup., la Corte dichiara di non potersi sottrarre alla verifica sulla ragionevolezza e proporzionalità della misura della pena, ma – allo stesso tempo – di non poter decidere arbitrariamente quale sia quella preferibile tra le tante soluzioni costituzionalmente accettabili. Al tempo stesso i giudici inviano però un chiaro monito al legislatore: “in assenza di una univoca indicazione legislativa già disponibile nel sistema giuridico, questa Corte reputa necessario, nel rispetto delle reciproche competenze istituzionali, richiamare prioritariamente il legislatore alla propria responsabilità, affinché la misura della pena sia riportata in armonia con i principi costituzionali per via legislativa, scegliendo una tra le molteplici opzioni sanzionatorie tutte ugualmente legittime e alternative a quella censurata. In mancanza di un intervento del legislatore, la Corte sarebbe però successivamente obbligata a intervenire, non mai in malam partem, e comunque nei limiti già tracciati dalla sua giurisprudenza”.

 

9. Delineati i poteri della Consulta sul sindacato delle norme penali che stabiliscono il trattamento sanzionatorio, la sentenza in esame opera infine una ricostruzione della tormentata evoluzione legislativa e giurisprudenziale che ha condotto all’attuale problematico assetto di pene ora in discussione[7]. Giunta al cuore della questione, la Corte riconosce che la differenza di quattro anni di reclusione tra il massimo di pena per i fatti di lieve entità di cui al quinto comma (4 anni) e il minimo per i fatti ‘non lievi’ di cui al primo comma dell’art. 73 t.u. stup. (8 anni) costituisce l’esito di una evoluzione normativa non organica, che ha determinato un saltum sanzionatorio non giustificato dalle differenze strutturali tra i due reati. Del resto, l’unico elemento di disomogeneità tra le due fattispecie si rinviene nel fatto che il reato di cui al primo comma riguarda le sole droghe “pesanti”, mentre invece il reato di non lieve entità ex quinto comma non opera distinzioni tra le diverse tipologie di stupefacenti (§ 7).

Tuttavia, la Corte ritiene che i parametri costituzionali non impongono “che a continuità dell’offesa debba necessariamente corrispondere una continuità della risposta sanzionatoria” e, soprattutto, che alla pur riconosciuta “anomalia sanzionatoria” può porre rimedio soltanto il legislatore, operando una scelta tra una “pluralità di soluzioni tutte costituzionalmente legittime(§ 7).

Sulla base di quest’ultimo motivo, la pronuncia culmina dunque con un “pressante auspicio affinché il legislatore proceda rapidamente a soddisfare il principio di necessaria proporzionalità del trattamento sanzionatorio, risanando la frattura che separa le pene previste per i fatti lievi e per i fatti non lievi(§ 8).

 

***

 

10. La ragione dell’inammissiblità della questione è, quindi, l’impossibilità per la Corte di individuare un’unica soluzione costituzionalmente obbligata cui ricondurre la pena minima prevista dal delitto di cui all’art. 73, co. 1, l. stup., pure riconosciuta come sproporzionata. La Corte riafferma così la propria giurisprudenza, che esclude che la giurisdizione costituzionale possa sostituire il quadro edittale previsto dal legislatore, a meno che le scelte sanzionatorie del legislatore medesimo possano essere rettificate “in riferimento a grandezze già rinvenibili nell’ordinamento”. Nella recente sentenza n. 236/2016, la Consulta aveva per l’appunto individuato nel trattamento sanzionatorio previsto dal primo comma dell’art. 567 c.p. una grandezza già rinvenibile nell’ordinamento cui ricondurre la pena, riconosciuta come irragionevole e sproporzionata, originariamente prevista dal secondo comma della stessa disposizione[8].

A nostro avviso però, una volta riconosciuta l’irragionevolezza e la non proporzionalità dell’attuale minimo di pena previsto dall’art. 73 primo comma t.u. stup., la Corte avrebbe ora ben potuto ricondurre il minimo edittale – come suggerito dalle ordinanze di rimessione – al massimo previsto dal quinto comma. Tale soluzione non si sarebbe certo presentata come una “soluzione costituzionalmente obbligata in assoluto[9], bensì come una semplice soluzione pre-data nell’ordinamento, essa stessa esente dai vizi di incostituzionalità che affliggono la norma impugnata, e alla quale la Corte avrebbe potuto ricorrere per colmare la lacuna creata dalla dichiarazione di illegittimità del minimo previsto dal primo comma: restando poi libero il legislatore di intervenire a individuare altre possibili soluzioni costituzionalmente conformi, eventualmente introducendo ‘spazi di discontinuità’ che, seppur discrezionali, siano giustificati da ragionevolezza e proporzionalità[10].

D’altra parte, la soluzione prospettata dai giudici a quibus era al tempo stesso l’unica soluzione possibile che si spalancava alla Corte, a differenza di quanto accadeva nelle vicende oggetto delle sentenze numero 279 del 2013 (in relazione al problema del sovraffollamento carcerario)[11] e numero 23/2013 (in relazione al diritto di difesa dell’incapace “eternamente giudicabile”)[12]; tant’è che la Corte non si spinge qui neppure ad ipotizzare una soluzione alternativa rispetto a quella prospettata dalle ordinanze di rimessione.

 

11. In definitiva, come nei due precedenti appena ricordati, la Consulta riconosce qui la sussistenza di un vulnus ai principi costituzionali, ma si limita a esortare il legislatore a intervenire per prevenire una futura dichiarazione di illegittimità costituzionale. Seppur la Corte agisca nell’ottica di una leale dialettica istituzionale tra organi costituzionali, una tale prospettiva non è del tutto convincente perché – in attesa dell’intervento del legislatore – il vulnus, pur già riconosciuto dalla Corte, continua a perpetrarsi.

Sinora d’altra parte, gli inviti all’organo legislativo a farsi carico di necessarie modifiche normative già in passato non hanno sortito effetto; ed è facile prevedere che non troveranno riscontro neppure in questa occasione, a maggior ragione dal momento che si tratterebbe di legiferare sulla (politicamente) delicata materia del trattamento sanzionatorio di reati in materia di stupefacenti, e per di più a fine legislatura. La stessa Corte ricorda come in materia di “revisione europea” – nonostante il “pressante invito” inserito nella sentenza numero 129/2008 – il legislatore non sia intervenuto, e i giudici costituzionali abbiano alla fine dovuto risolvere il problema relativo all’individuazione dello strumento processuale da utilizzare per conformarsi a una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo tre anni dopo rispetto al momento in cui avevano rilevato l’illegittimità [13].

Infine, la linea adottata dalla Corte non appare la soluzione più razionale neppure alla luce di una analisi di efficienza del sistema (carcerario e) giudiziario: protrarre l’accoglimento della questione per lasciare spazio a un (ipotetico) intervento del legislatore non solo prolunga il vulnus al diritto a una pena proporzionata, ma aumenta altresì il numero di sentenze passate in giudicato che saranno (rectius dovranno essere) revocate al momento della (eventuale futura) dichiarazione di incostituzionalità[14].

 

12. A fronte del momentaneo self restraint della Consulta e del contestuale monito al legislatore, non resta dunque che attendere una futura nuova ordinanza di rimessione che, verosimilmente, solleverà la questione negli stessi termini posti dai Tribunale di Rovereto e di Ferrara.

Peraltro, come già accennato in altre sedi, il principio di proporzionalità della pena è espressamente enunciato dall’articolo 49 § 3 della CDFUE, dal quale deriva il divieto per lo Stato italiano di applicare pene sproporzionate, quanto meno nell’ambito di applicazione del diritto UE[15]. Come ricorda la Corte di giustizia già nella sentenza Åkerberg Franssonn, infatti, “l’ambito di applicazione della Carta, per quanto riguarda l’operato degli Stati membri, è definito all’articolo 51, paragrafo 1, della medesima, ai sensi del quale le disposizioni della Carta si applicano agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione”. Ebbene, la materia degli stupefacenti rientra senz’altro nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione, come dimostra la decisione quadro 2004/757/GAI del Consiglio, che fissa le norme minime relative agli elementi costitutivi dei reati e alle sanzioni applicabili in materia di traffico illecito di stupefacenti.

Se, allora, si dovesse ritenere che l’articolo 49 § 3 della Carta sia – in quanto disposizione di diritto primario dell’Unione – direttamente applicabile nel nostro ordinamento, nell’ambito di applicazione del diritto UE, senza necessità di adire la Corte costituzionale[16], qualsiasi giudice comune potrebbe legittimamente dichiarare l’inapplicabilità nel caso concreto della pena minima di 8 anni di reclusione attualmente prevista dall’art. 73, primo comma, del d.P.R. 309/1990.

La necessità di rilevare la violazione del principio di proporzionalità della pena in relazione alla sanzione attualmente prevista dal primo comma dell’art. 73 t.u. stup. potrebbe allora emergere a breve: e in particolare, nel giudizio di rinvio che seguirà all’annullamento da parte della Cassazione della sentenza del Tribunale di Imperia, nel medesimo procedimento nell’ambito del quale è stata formulata la questione decisa con l’ordinanza n. 184/2017. Il Collegio d’appello, chiamato a stabilire la pena in misura non inferiore al minimo edittale di 8 anni di reclusione, potrebbe infatti rilevare – in una con la stessa Corte costituzionale – l’irragionevolezza e la sproporzione e, pertanto, l’illegittimità della pena da infliggere in concreto al condannato.

Per evitare di infliggere una tale pena, il giudice del rinvio avrebbe due possibili strade avanti a sé: potrebbe sollevare una nuova questione di legittimità costituzionale riproponendo la stessa argomentazione e lo stesso petitum delle ordinanze dei Tribunale di Rovereto e di Ferrara, sperando che la Corte questa volta prenda atto dell’inazione del legislatore e si risolva a dichiarare incostituzionale la disposizione in questione; oppure potrebbe fare diretta applicazione dell’art. 49 § 3 CDFUE, disapplicando conseguentemente il minimo edittale previsto dall’art. 73 primo comma l. stup. Una tale disapplicazione non provocherebbe alcun vuoto normativo, dal momento che da un lato – in difetto di pena mimina applicabile – la misura della pena minima legale resterebbe quella fissata in linea generale dall’art. 23 c.p. (quindici giorni di reclusione); e che dall’altro, una volta riconosciuto che il fatto concreto è più grave rispetto ai fatti di “lieve entità” di cui al quinto comma, la pena da infliggere dovrebbe in concreto assestarsi al di sopra del massimo di quattro anni previsti per i fatti disciplinati da quest’ultima fattispecie, e dunque tra i quattro e gli otto anni di reclusione. Tutto ciò senza alcuna lesione del principio della legalità della pena, che resterebbe determinabile dal giudice in forza di precise indicazioni da parte del legislatore.

 


[1] Corte cost., sent. 13 luglio 2017, n. 179, § 8.

[2] Per un’approfondita analisi delle tre ordinanze di rimessione alla Corte costituzionale sulla legittimità dell’art. 73, primo comma, d.P.R. 309/1990, si rinvia a C. Bray, Illegittima la pena minima per il traffico di droghe ‘pesanti’? Tre questioni all’esame della Consulta, in Dir. pen. cont – Riv. Trim., n. 2/2017, pp. 67 ss.

[3] Cfr. C. Bray, Illegittima la pena minima per il traffico di droghe ‘pesanti’? Tre questioni all’esame della Consulta, cit., pp. 71-72.

[4] Per un approfondimento sul tema, si consenta ancora una volta di rinviare a C. Bray, Illegittima la pena minima per il traffico di droghe ‘pesanti’? Tre questioni all’esame della Consulta, cit., pp. 77 ss. e, in particolare, tra i riferimenti ivi citati, sulla questione della reviviscenza di una norma abrogata da altra norma poi dichiarata costituzionalmente illegittima cfr. C. Pecorella, Pronunce in malam partem e riserva di legge in materia penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., parte I, 2007, p. 321; C. Cupelli, Incostituzionalità per vizio procedurale, reviviscenza della normativa abrogata e riserva di legge in materia penale, cit., pp. 509-510.

[5] Cfr. C. Bray, Illegittima la pena minima per il traffico di droghe ‘pesanti’? Tre questioni all’esame della Consulta, cit., p. 78.

[6] Il richiamo è a due precedenti sentenze di inammissibilità giustificate dalla mancata individuazione del tertium comparationis da parte del giudice remittente: Corte cost., sent. 16 giugno 2016, n. 148, Pres. Grossi, Red. Cartabia (con riferimento al trattamento sanzionatorio previsto dall’art. 73, comma primo, t.u. stup.); Corte cost., sent. 11 febbraio 2016, n. 23, Pres. Criscuolo, Red. Cartabia (con riferimento all’art. 73, quinto comma, t.u. stup., nella parte in cui non distingue il trattamento sanzionatorio previsto per i fatti di lieve entità aventi ad oggetto droghe “leggere” rispetto a quello relativo ai fatti di lieve entità aventi ad oggetto droghe “pesanti”), in questa Rivista, con nota di C. Bray, Legittima la nuova formulazione dell'art. 73 co. 5 t.u. stup.: insindacabile la scelta legislativa di equiparare droghe pesanti e leggere, 7 marzo 2016.

[7] Cfr., in proposito, il paragrafo 5 della sentenza n. 179/2017 in esame ovvero, per un’ulteriore approfondimento, C. Bray, Illegittima la pena minima per il traffico di droghe ‘pesanti’? Tre questioni all’esame della Consulta, cit., pp. 69-70.

[8] Corte cost., sent. 10 novembre 2016, n. 236, Pres. Grossi, Rel. Zanon, in Dir. pen. cont. – Riv. Trim. n. 2/2017, con nota di F. Viganò, Un’importante pronuncia della Consulta sulla proporzionalità della pena.

[9] D. Pulitanò, La misura delle pene, fra discrezionalità politica e vincoli costituzionali, in Dir. pen. cont. – Riv. Trim. n. 2/2017, p. 48.

[10] Cfr. C. Bray, Illegittima la pena minima per il traffico di droghe ‘pesanti’? Tre questioni all’esame della Consulta, cit., pp. 80 ss.; D. Pulitanò, La misura delle pene, fra discrezionalità politica e vincoli costituzionali, cit., pp. 56-58.

[11] Corte cost., 22 novembre 2013, n. 279, Pres. Silvestri, Red. Lattanzi, in questa Rivista, con commento a prima lettura di G. Leo, Sovraffollamento carcerario: dalla Corte costituzionale una decisione di inammissibilità con un severo monito per il legislatore, 25 novembre 2013; e nota di A. Pugiotto, L'urlo di Munch della magistratura di sorveglianza, in Dir. pen. cont. – Riv. Trim. n. 1/2014.

[12] Corte cost., 14 febbraio 2013, n. 23, Pres. Gallo, Red. Silvestri, in questa Rivista, con nota di G. Leo, Il problema dell'incapace "eternamente giudicabile": un severo monito della corte costituzionale al legislatore, 18 febbraio 2013.

[13] Corte cost., 7 aprile 2011, n. 113, Pres. De Siervo, Red. Frigo, in questa Rivista, con segnalazione di G. Leo, Un nuovo caso di revisione per la conformazione alle sentenze della Corte Edu, 8 aprile 2011.

[14] Cfr. C. Bray, Illegittima la pena minima per il traffico di droghe ‘pesanti’? Tre questioni all’esame della Consulta, cit., p. 82.

[15] Cfr. C. Bray, Legittima la nuova formulazione dell'art. 73 co. 5 t.u. stup.: insindacabile la scelta legislativa di equiparare droghe pesanti e leggere, cit.; e, con riferimento alla diretta applicabilità nel nostro ordinamento dell’art. 50 CDFUE, F. Viganò, Doppio binario sanzionatorio e ne bis in idem: verso una diretta applicazione dell'art. 50 della Carta? (a margine della sentenza Grande Stevens della Corte EDU), in Dir. pen. cont. – Riv. Trim. n. 3-4/2014, pp. 232 ss.

[16] Sulla diretta applicabilità degli articoli della Carta di Nizza cfr., da ultimo, le conclusioni dell'Avvocato Generale Yves Bot presentate il 18 luglio 2017 nella causa C‑42/17, proc. pen. a carico di M.A.S. e M.B., § 95-98, in questa Rivista, con nota di C. Cupelli, Le conclusioni dell'Avvocato Generale sul caso Taricco: aspettando la Corte di Giustizia…il dialogo (non) continua in cui l’Avvocato Generale afferma pacificamente la possibilità per i giudici nazionali di applicare l’art. 50 CDFUE.