ISSN 2039-1676


13 marzo 2018 |

Alla Consulta l'art. 576 c.p.p.: continuano le ostilità sul fronte tra azione civile e processo penale

C. App. Venezia, ord. 9 gennaio 2018, Pres. Est. Citterio, Imp. Zoppas

Contributo pubblicato nel Fascicolo 3/2018

Per leggere il testo dell'ordinanza in commento, clicca in alto su "visualizza allegato".

 

1. «A parere di questa Corte, attribuire oggi al giudice penale, ed in particolare alla Corte d’appello penale, anziché al giudice civile, la cognizione delle impugnazioni della sola parte civile avverso le sentenze di proscioglimento costituisce scelta in atto manifestamente irrazionale e oggi del tutto priva di alcuna giustificazione»: è questa, in estrema sintesi, la tesi veicolata dall’ordinanza che si segnala, con la quale la Corte d’appello di Venezia ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 576 c.p.p. nella parte in cui, per l’appunto, prevede che l’impugnazione della parte civile ai soli effetti risarcitori avverso la sentenza di proscioglimento debba essere proposta al giudice penale e non a quello civile.

Molteplici gli argomenti spesi a sostegno della posizione ivi espressa, la cui trattazione appare, per vero, sbilanciata rispetto a quella concernente le violazioni costituzionali in senso proprio (una certa sproporzione emerge, ictu oculi, anche solo sfogliando le pagine dell’ordinanza, composta di undici facciate, solo l’ultima delle quali dedicata alle invocate censure costituzionali della norma).

La vicenda processuale da cui trae origine il provvedimento che si discute è abbastanza ordinaria: dibattimento di primo grado, con parte civile costituita, che si conclude con un proscioglimento fondato sulle risultanze dichiarative acquisite; la parte civile propone appello, chiedendo il riconoscimento della responsabilità dell’imputato ai soli effetti civili (ex art. 576 c.p.p.) ritenendo erronee le valutazioni probatorie espresse in sentenza dal Tribunale di prime cure. La Corte d’appello, reputata rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della norma processuale invocata dall’appellante, sospende il giudizio e trasmette d’ufficio gli atti alla Corte Costituzionale perché valuti la conformità alla carta costituzionale della norma poc’anzi richiamata.

 

2. Primo, in ordine di trattazione, il rilievo concernente i carichi pendenti e gli arretrati: la Corte veneziana, richiamando alcune modifiche legislative intervenute in materia processuale (in particolare la riforma del giudice unico del 1998 che determinò il passaggio dal sistema pretorile a quello del tribunale in composizione monocratica) vi rinviene una delle cause dell’aumento delle pendenze in grado di appello. A fronte di un vistoso incremento dei processi definiti in primo grado, nessun adeguamento di rito o di struttura, cioè, avrebbe coinvolto nel tempo le corti d’appello, che si sono trovate così a gestire una sopravvenienza in costante e sensibile aumento. A ciò andrebbe aggiunto il naufragio dell’idea del legislatore del 1988 per la quale i riti alternativi avrebbero drenato una consistente parte del carico di lavoro dei tribunali di primo grado, riducendo, per l’effetto, anche i passaggi alle fasi di impugnazione: la vita giudiziaria quotidiana ha consolidato tendenze di segno opposto, che hanno contribuito – sempre nell’ottica della corte territoriale autrice dell’ordinanza in commento – all’ingolfamento progressivo dei ruoli in appello.

Simile quadro sarebbe poi aggravato, in termini di (non) speditezza dei processi, dall’evoluzione della giurisprudenza di legittimità, seguita a ruota dal legislatore (con la recentissima l. 103/2017, la c.d riforma Orlando), che hanno imposto la rinnovazione della prova dichiarativa in appello quando ciò sia funzionale a ribaltare una sentenza di proscioglimento di primo grado in una condanna in sede di gravame (vengono richiamate, all’uopo, le note sentenze della Cassazione a Sezioni Unite Dasgupta[1] e Patalano[2]).

Simili fattori, tutti di natura strutturale, restituirebbero ad oggi un contesto fattuale enormemente alterato rispetto a quello esistente al momento di entrata in vigore del “nuovo” codice di rito, ormai incompatibile con le scelte che in quel momento storico vennero trasfuse nell’art. 576 c.p.p.: «l’attribuzione discrezionale alla corte penale anche della competenza per la domanda di impugnazione ai soli effetti civili, rispetto all’alternativa possibile dell’attribuzione al giudice civile, supera, a convinto parere di questa Corte, gli ambiti della fisiologia tecnico/politica propria delle scelte del legislatore, assumendo connotati di palese e grave irrazionalità, oltretutto priva di alcuna giustificazione, determinando anzi direttamente ulteriori significativi ed emblematici contesti di denegata tempestiva giustizia» (così a pagina 5 dell’ordinanza veneta); si legge ancora oltre: «il giudice penale d’appello deve scegliere se trattare un processo con reato che altrimenti si prescrive ovvero dare spazio alla trattazione della pendenza ormai di mero interesse civile […] rinunciando alla propria essenziale funzione di di giudice che definisce pendenze penali».

 

3. Tertium comparationis, a giudizio della Corte territoriale veneta, sarebbe l’art. 622 c.p.p., norma che dimostra l’esistenza attuale di un passaggio «sistematicamente e normativamente fisiologico» dal settore penale al settore civile quando questo abbia per residuo oggetto la sola responsabilità a fini civilistici. La translatio judicii che in tal modo avverrebbe, peraltro, non eliminerebbe – ricorda la Corte rimettente - la piena utilizzabilità dell’intero materiale probatorio acquisito in sede penale né scalfirebbe l’uso degli stessi criteri di giudizio validi in sede penale, così come precisato dalla stessa Corte di Cassazione nelle sentenze citate nell’ordinanza di rimessione. Non essendovi ostacoli normativi sovranazionali ad una operazione di tal fatta, la Corte di appello di Venezia conclude per la manifesta irrazionalità della norma processuale contenuta nell’art. 576 c.p.p., ritenendola confliggente con l’art. 3 della Costituzione sotto il profilo della ragionevolezza (in quanto sottrarrebbe il giudice penale dello svolgimento della sua funzione tipica di vaglio della pretesa punitiva statale per applicarlo a deliberazioni di natura squisitamente risarcitoria) e con l’art. 111 della Costituzione rispetto alla irragionevole dilatazione che contribuirebbe a creare sui tempi di definizione dei processi penali, oltreché con il generale principio di efficienza ed efficacia del sistema giurisdizionale.

 

4. A fronte di simili doglianze, è certamente opportuno rispolverare sommariamente il senso che l’art. 576 c.p.p. riveste all’interno del nostro apparato processul-penalistico: in un sistema informato al principio della separazione e dell’autonomia dei giudizi, come è quello fuoriuscito dalla riforma del 1988, l’azione civile esercitata nel contesto del processo penale non può che rivestire carattere accessorio e subordinato rispetto all’azione penale, dovendo per ciò stesso subire tutti gli adattamenti derivanti dal suo innesto su una macchina procedimentale il cui scopo principale è quello di accertare i reati[3]. In questo quadro, le decisioni sulle questioni civili da parte del giudice penale non possono che essere indissolubilmente agganciate, proprio in chiave di accessorietà, alla condanna dell’imputato, come emerge inequivocabilmente dagli artt. 74 e 538 c.p.p. in combinato disposto con l’art. 185 c.p.Eccezione e deroga a questo asse portante è costituita proprio dall’art. 576 c.p.p. (unitamente all’art. 578 c.p.p.), il quale consente alla sola parte civile (e, dunque, in assenza di iniziativa analoga da parte del p.m.) di impugnare la sentenza di proscioglimento pronunciata all’esito del giudizio di primo grado che comprometta il suo interesse risarcitorio, anche e soprattutto tenuto conto degli effetti preclusivi della sentenza dibattimentale irrevocabile nel giudizio civile di danno, ex art. 652 c.p.p. L’art. 576 c.p.p., dunque, conferisce al giudice penale il potere di decidere sulla domanda risarcitoria pur in assenza di una precedente statuizione sul punto (la norma, infatti, non a caso, nel delimitare l’oggetto di impugnazione della parte civile, parla di “capi della sentenza di condanna” e di “sentenza di proscioglimento”, non essendovi, in questo secondo caso, capi civili in senso tecnico).Nel fare questa operazione, il Giudice dell’appello è chiamato a seguire un percorso di accertamento e valutazione strettamente connesso alla conformazione del reato avendo, «nei limiti del devoluto e agli effetti della devoluzione, i poteri che il giudice di primo grado avrebbe dovuto esercitare» (così, testualmente, Cass., SS. UU., 11.7.2006 – 19.7.2006, n. 25083, in C.E.D. rv. 233918). E, del resto, che il giudizio di impugnazione instaurato dalla parte civile debba seguire le regole valutative proprie del processo penale rappresenta affermazione ormai diffusa anche in giurisprudenza e fatta propria dalla stessa ordinanza qui segnalata[4].

 

5. È probabilmente quest’ultimo il vero anello debole nella catena argomentativa allestita all’interno dell’ordinanza di trasmissione alla Corte Costituzionale. Il giudice del gravame, infatti, pur non potendo modificare, in assenza di impugnazione da parte del p.m., la decisione penale di prime cure applicando una conseguente sanzione, è chiamato a verificare la responsabilità dell’imputato quale logico presupposto per la condanna al risarcimento ed alle restituzioni in favore della parte civile appellante. In questa operazione si annida tutta la delicatezza e la complessità del sindacato tipico dell’organo giudicante penale: è allora davvero priva di giustificazione razionale – come afferma la Corte d’appello veneziana - la designazione del giudice penale da parte dell’art. 576 c.p.p.? Si tratta, cioè, non di mera liquidazione di un danno il cui generico riconoscimento è già avvenuto in sede penale (secondo il meccanismo tipico dell’art. 539 c.p.p.), ma di verifica dell’an stesso della responsabilità, verifica che attinge alle corde più intime della responsabilità penale e che segue le regole proprie dell’accertamento penale (per quanto non seguita dalle classiche conseguenze sanzionatorie penali).

E allora, posto che si può essere più o meno d’accordo con l’opportunità e la “convenienza” della scelta discrezionalmente effettuata dal legislatore dell’88, evocare l’impegno che l’applicazione delle regole processuali penali richiede per l’accertamento della responsabilità (in primis rispetto alla rinnovazione dell’istruttoria) non pare poter determinare, di per sé, la manifesta irrazionalità della norma processuale oggetto di attenzione, quand’anche la stessa dovesse essere ritenuta poco performante dal punto di vista dei consequenziali carichi giudiziari (ammesso, poi, che la giustizia civile sia davvero in grado di smaltire in maniera più rapida le impugnazioni di cui si discute).

 


[1] Cass. SS. UU., 28.4.2016 – 6.7.2016, n. 27620, in C.E.D., rv. 267486. Si veda, sul tema, S. Tesoriero, Luci e ombre della rinnovazione dell'istruttoria in appello per il presunto innocente, in Giust, pen. 2017, f. 2, p. 65 e ss.

[2] Cass., SS. UU., 19.1.2017 – 14.4.2017, n. 18620, in C.E.D., rv. 269786. Cfr. S. Tesoriero, Una falsa garanzia: l'obbligatoria attuazione del contraddittorio nel giudizio abbreviato di appello, in Cass. Pen., 2017, p. 3668 e ss.; L. Luparia – H. Belluta, Ragionevole dubbio e prima condanna in appello: solo la rinnovazione ci salverà?, in questa Rivista, 8 maggio 2017; H. Belluta, La parabola acendente dell'istruttoria in appello nell'esegesi "formante" delle Sezioni Unite, in Dir. pen. cont. - Riv. trim., fasc. 3/2017, p. 151 e ss.

[3] Si veda, in questo contesto, l’interessante excursus svolto dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 12 del 12.1.2016.

[4] Cass.,sez. IV, 18.6.2015 – 26.10.2015, n. 42995 in C.E.D. rv. 264751; Cass., sez. IV, 4.2.2016 – 1.7.2016, n. 27045, in C.E.D. rv. 267730.