16 aprile 2018 |
Una condanna della Corte d'assise di Milano svela gli orrori dei "centri di raccolta e transito" dei migranti in Libia
Corte d’assise di Milano, sent. 10 ottobre 2017 (dep. 1 dicembre 2017), Pres. Ichino, Est. Simi, Imp. Matammud
Contributo pubblicato nel Fascicolo 4/2018
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1. La disumana realtà dei numerosi centri di raccolta migranti in Libia, già da tempo denunciata da organizzazioni umanitarie[1] e osservatori delle Nazioni Unite[2], è al centro della sentenza con cui lo scorso 10 ottobre la Corte d’assise di Milano ha condannato un cittadino somalo − di soli ventiquattro anni − alla pena dell’ergastolo con tre anni di isolamento diurno, oltre che alle pene accessorie e al risarcimento dei danni nei confronti delle undici parti civili costituitesi nel giudizio, tra cui l’Associazione Studi Giuridici per l’Immigrazione (ASGI).
Sequestro di persona a scopo d’estorsione aggravato dalla morte di alcuni sequestrati, violenza sessuale, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina: questi sono i gravi delitti che si assumono commessi in danno di centinaia di vittime dal giovane imputato, il quale, in qualità di membro di un’organizzazione criminale dedita al traffico di migranti avente carattere transnazionale, tra il 2015 e il 2016 avrebbe concorso a gestire almeno due “campi di transito” situati in Libia, in cui i migranti (in questo caso tutti cittadini somali) venivano imprigionati, torturati e minacciati in attesa del pagamento del prezzo necessario per raggiungere l’Europa.
La sentenza emessa in primo grado è attualmente oggetto d’impugnazione in sede d’appello; la pronuncia di condanna che ci accingiamo a commentare è pertanto ancora suscettibile di riforma.
2. Estremamente significative sono le circostanze che hanno dato origine al procedimento in parola: l’imputato, giunto in Italia via mare nell’agosto 2016, era stato infatti riconosciuto presso un Centro di accoglienza del milanese da alcune delle persone offese, le quali spontaneamente decidevano di denunciarlo alle autorità italiane, che sopraggiungevano sul luogo e procedevano a sottoporlo a fermo di polizia senza che nessun gesto di violenza fosse stato compiuto nei suoi confronti.
La casualità di tale incontro iniziale è per i giudici milanesi un primo elemento di attendibilità delle accuse rivolte contro l’uomo dai suoi stessi connazionali; nei giorni immediatamente successivi, inoltre, la autorità procedenti si attivavano prontamente per rintracciare eventuali ulteriori persone offese, mentre diversi cittadini somali che avevano appreso la notizia volontariamente si presentavano presso gli uffici di polizia per rendere denuncia.
A seguito dell’interrogatorio di garanzia, l’indagato veniva sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere per il delitto di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina di cui all’art. 12 t.u. imm.; successivamente il Ministro della Giustizia presentava richiesta ex art. 10 c.p. perché si procedesse anche in relazione ai delitti pluriaggravati di sequestro di persona a scopo d’estorsione, violenza sessuale e omicidio.
3. Il compendio probatorio che sorregge la sentenza di condanna, dunque, è per la quasi totalità costituito dalle dichiarazioni delle diciassette persone offese così individuate, la maggior parte delle quali veniva sentita in sede di incidente probatorio, stante la necessità di preservare la genuinità della prova (alcune di loro, infatti, avevano addirittura ricevuto minacce tramite facebook, verosimilmente da persone vicine all’organizzazione criminale cui aderiva l’imputato).
Tali dichiarazioni, sottoposte all’attento vaglio del giudice di merito, sono risultate spontanee, autonome, disinteressate, logicamente coerenti e, in definitiva, altamente credibili.
4. Tutte le persone offese hanno raccontato di aver lasciato la Somalia spinte dal desiderio di abbandonare la grave situazione di degrado del Paese, segnato da lunghi anni di guerra civile e dalle azioni terroristiche dell’organizzazione Al Shabaab.
Fin dall’inizio del loro “viaggio della speranza” erano state prese in carico da un’organizzazione che aveva gestito i loro trasferimenti dall’Etiopia o dal Sudan fino alla Libia. Durante gli spostamenti, che avvenivano per mezzo di autobus o pick-up, i migranti erano scortati da uomini armati con fucili AK: è pertanto emerso che fin da questa fase l’organizzazione criminale esercitava il proprio controllo sui migranti in maniera violenta, abbandonando nel deserto chi si fosse sentito male o fosse caduto dai furgoni gremiti di persone.
Nessun compenso veniva richiesto nello stadio iniziale del viaggio; solo una volta giunti in Libia i membri dell’organizzazione comunicavano loro la somma che avrebbero dovuto pagare per proseguire, la quale complessivamente ammontava a 7.000 dollari. Il pagamento doveva avvenire mediante un sistema chiamato Hawala, che comportava il versamento da parte dei famigliari dei migranti − rimasti nel Paese d’origine − nelle mani di alcuni soggetti fiduciari prescelti dall’organizzazione.
5. In attesa del pagamento e del successivo imbarco, i migranti giunti in Libia venivano trattenuti presso dei campi di transito. Tutte le persone offese raccontano di essere state trasferite in almeno due campi, siti rispettivamente a Bani Walid (città a sud-est di Tripoli) e a Sabrata (in prossimità della costa).
Il campo di Bani Walid è il principale luogo di consumazione dei delitti oggetto d’imputazione davanti alla Corte d’assise milanese; secondo i giudici di merito, infatti, il centro era direttamente gestito dall’imputato (quantomeno nel periodo in cui vi transitarono le persone sentite come testi nel procedimento in esame) e costituiva un vero e proprio campo di detenzione, ove i migranti trascorrevano la giornata rinchiusi in un capannone – al cui interno, secondo le testimonianze, si trovavano almeno cinquecento persone − sorvegliato da uomini libici armati di fucili e circondato da un muro di cinta. Lì, in condizioni igieniche assolutamente precarie (due soli erano i bagni, ai quali era negato l’accesso in orario notturno), donne e uomini erano ammassati insieme, in stato di totale privazione della libertà, costretti all’immobilità e al silenzio attraverso continue percosse.
L’imputato aveva il compito di assicurare il pagamento del prezzo del viaggio da parte dei prigionieri; per ottenere ciò, costoro venivano ripetutamente percossi, torturati e minacciati di morte mentre si trovavano al telefono con le proprie famiglie, così da indurle al pagamento. Le violenze si prolungavano però ben oltre il tempo delle telefonate: fintanto che i versamenti non venivano effettuati, i maltrattamenti fisici e psicologici, posti in essere direttamente dall’imputato o su suo ordine dalle guardie armate, erano continui, così come le sanguinose punizioni.
Percosse con bastoni, tubi di ferro e spranghe, torture mediante plastica fusa o scariche elettriche erano strumento di controllo e sadico divertimento per il carceriere, che in alcuni casi giungeva a tormentare le proprie vittime trascinandole in una vera e propria “stanza delle torture” sita in prossimità del capannone ove erano rinchiuse; di tali violenze le persone offese sentite nel procedimento portavano ancora i segni evidenti, come attestato dal consulente medico-legale del pubblico ministero, chiamato a deporre in dibattimento.
A ciò si aggiungevano le ripetute violenze sessuali che l’imputato avrebbe commesso nei confronti di numerose prigioniere, alcune delle quali − costituitesi parti civili nel giudizio – minorenni al tempo dei fatti. Violenze, come raccontato dalle stesse parti offese, particolarmente traumatizzanti e dolorose, anche a causa della precedente infibulazione delle donne, la cui rottura aveva provocato loro serie lesioni.
Conseguenza della segregazione e delle violenze era, in alcuni casi, la morte dei sequestrati. Sono almeno tredici i decessi che secondo la Corte, sulla base delle dichiarazioni testimoniali, possono essere addebitati all’imputato: nella maggior parte dei casi la morte della vittima era diretta conseguenza delle torture subite nel campo di Bani Walid, in altri delle gravi condizioni di privazione e sofferenza in cui i migranti erano trattenuti (il riferimento è, in particolare, al decesso di una donna lasciata in assenza di cure dopo un parto, a seguito del quale anche il neonato era deceduto).
Tali fatti erano stati contestati dal pubblico ministero sia nella forma di autonomi delitti di omicidio volontario, sia nell’ambito della circostanza aggravante del delitto di sequestro di persona a scopo d’estorsione di cui al terzo comma dell’art. 630 c.p.; secondo i giudici milanesi, tuttavia, è possibile ritenere sussistente il solo reato di sequestro di persona nella forma aggravata, fattispecie considerata in giurisprudenza quale forma di reato complesso, di cui l’evento morte dei sequestrati costituisce elemento costitutivo[3]. La Corte si premura d’altra parte di sottolineare che, nel caso di specie, la morte delle vittime era stata una conseguenza prevista e voluta dall’imputato, quantomeno a titolo di dolo eventuale.
Una volta effettuato il pagamento, i migranti venivano trasferiti da Bani Walid al campo di Sabrata, all’interno del quale le loro condizioni di vita erano nettamente migliori, avendo l’organizzazione criminale già ottenuto i profitti perseguiti. Da qui periodicamente partivano le imbarcazioni sulle quali i migranti avrebbero attraversato il Mediterraneo, ancora una volta in bilico tra la vita e la morte, stipati su precarie “carrette del mare” a continuo rischio di naufragio.
6. Per l’intera durata del procedimento l’imputato ha fermamente negato di aver commesso i fatti contestatigli, asserendo di essere stato, al pari dei suoi connazionali, una semplice vittima dei gestori del campo di Bani Walid.
Nel corso del lungo esame dibattimentale egli ha in effetti riportato esperienze del tutto simili a quelle narrate dalle persone offese in relazione al viaggio compiuto e alle condizioni di detenzione all’interno del campo, attribuendo però ai soli carcerieri libici la responsabilità delle vessazioni subite dai migranti (peraltro notevolmente ridimensionate rispetto a quanto descritto dalle parti lese). La sua versione dei fatti, tuttavia, non è stata ritenuta credibile dai giudici d’assise, non solo in ragione di alcuni elementi di contraddizione interni alle sue dichiarazioni, ma soprattutto alla luce della schiacciante coerenza e attendibilità delle prove testimoniali desunte dall’esame delle numerose persone offese, che tutte, senza dubbio alcuno, lo avevano espressamente riconosciuto quale il persecutore dei loro racconti.
I giudici però non escludono la possibilità che l’imputato si fosse risolto a collaborare all’attività dell’organizzazione criminale impegnata nel traffico dei migranti al solo fine di imbarcarsi gratuitamente alla volta dell’Europa, come egli stesso avrebbe confidato a una delle testimoni sentite in dibattimento.
Questo a loro giudizio non significa, come invece sostenuto dalla difesa, che l’imputato abbia posto in essere le contestate condotte perché costretto dalla necessità di sottrarsi a morte certa, non avendo la possibilità di pagare altrimenti il viaggio: secondo la Corte d’assise, infatti, “anche ad accedere alla tesi della difesa sui motivi per cui [l’imputato] avrebbe accettato il ruolo di co-gestore dei migranti, le condotte che le parti lese gli hanno attribuito risultano così gravi, così arbitrarie, così diversificate e reiterate da rivelare che [egli] le aveva poste in essere esorbitando volutamente dal compito di mantenere l’ordine nel campo e di assicurare il pagamento della somma richiesta dall’organizzazione”[4]. Le stesse, pertanto, non possono in nessun modo considerarsi scusate ai sensi dell’art. 54 c.p.
7. Neppure può essere d’ostacolo alla decisione, sostengono i giudici di merito, la circostanza che le condotte contestate all’imputato riguardino un numero elevato di vittime non concretamente identificate: in particolare, centinaia di persone con riferimento al delitto di sequestro di persona a scopo estorsivo, aggravato dalla morte di almeno tredici prigionieri, e decine di donne in relazione alla violenza sessuale.
Alla luce dei risultati istruttori, invero, i fatti di reato attribuiti all’imputato risulterebbero comunque definiti nella loro realtà storica, in relazione alle concrete circostanze di tempo e di luogo in cui si assumono commessi, in maniera sufficientemente chiara da consentire il rispetto dei diritti difensivi, tra cui quello al ne bis in idem[5]. Benché non precisamente individuate, dunque, le persone offese dai reati in questione sono secondo i giudici concretamente individuabili, anche ai fini di eventuali nuovi giudizi civili di risarcimento conseguenti alla condanna.
***
8. Quanto accertato dalla Corte d’assise di Milano nella pronuncia ora esaminata testimonia l’impossibilità di affrontare le problematiche connesse alla gestione dei flussi migratori continuamente in arrivo verso l’Europa senza tenere in considerazione le gravi violazioni dei diritti umani perpetrate in danno dei migranti nel corso del loro viaggio e, in particolare, su suolo libico.
La realtà del campo di Bani Walid, pur nella necessaria parzialità dello spaccato offerto dall’istruttoria dibattimentale, appare infatti ben lontana dall’essere un’eccezione: sono diversi i testimoni che riportano di aver conosciuto altri campi di detenzione in cui i migranti venivano sottoposti a simili trattamenti, o che persino raccontano di aver subito estorsioni e violenze da parte delle stesse autorità governative libiche[6].
Tutte le parti offese sentite nel procedimento in esame hanno fatto ingresso nel territorio italiano a seguito di interventi di soccorso in alto mare, e successivamente hanno ottenuto dalle nostre autorità il permesso di soggiorno per motivi umanitari. In un quadro in cui i temi del soccorso e dell’accoglienza dei migranti sono trattati con crescente insofferenza, mentre viene intensificata la collaborazione tra Governo italiano e autorità libiche finalizzata al contrasto del favoreggiamento dell’immigrazione clandestina[7], i terribili racconti delle violenze perpetrate in Libia ci impongono allora di tenere alta la soglia di attenzione, stante il concreto rischio di schiacciare i solenni principi della dignità e libertà di tutti gli esseri umani sotto il peso delle pressanti ragioni geo-politiche che ci spingono, in nome della stabilità interna, a rafforzare continuamente le frontiere esterne dell’Europa.
[1] Si può fare riferimento, per tutti, al rapporto pubblicato da Amnesty International, “Libya’s Dark Web of Collusion”, dicembre 2017, disponibile a questo link.
[2] Cfr. ad esempio le dichiarazioni rese dall’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani in data 14 novembre 2017, “UN Human rights chief: Suffering of migrants in Libya outrage to conscience of humanity”, disponibili a questo link.
[3] Cfr. p. 106 della sentenza in commento.
[4] Così a p. 97 della sentenza in commento.
[5] Per tali argomentazioni cfr. p. 98 ss. della sentenza in commento.
[6] Cfr. in particolare p. 62 della sentenza in commento. Che le autorità libiche partecipino dei gravi crimini commessi nel Paese in danno dei migranti, in alcuni casi finanziando direttamente i gruppi paramilitari e le organizzazioni criminali responsabili dei campi di detenzione, è altresì attestato da numerosi report di organizzazioni internazionali: si può rimandare a proposito al rapporto del Comitato delle NU contro la tortura, “Concluding observations on the combined fifth and sixth periodic reports of Italy”, CAT/C/ITA/CO/5-6, 18 dicembre 2017, disponibile a questo link.
[7] Su tale tema cfr. la ricostruzione operata da F. Pacella, Cooperazione Italia-Libia: profili di responsabilità per crimini di diritto internazionale, in questa Rivista, 6 aprile 2018.