ISSN 2039-1676


19 luglio 2018 |

E. Fronza, Memory and punishment. Historical Denialism, Free Speech and the Limits of Criminal Law, Springer, 2018

Recensione

1. Se dovessi sintetizzare in poche battute la monografia di Emanuela Fronza, direi che è un libro sui limiti della politica criminale che parte dalla riflessione sul fenomeno del negazionismo e degli strumenti messi in campo, a livello nazionale e sovranazionale, per contrastarlo. Con uno stile chiaro, entro un lavoro di solida struttura, capace di valorizzare le complesse questioni che in questo settore sollevano le scelte di incriminazione, l’Autrice sviluppa i suoi argomenti critici rispetto alle opzioni di penalizzazione delle quali si è fatta interprete anche l’Unione europea con la decisione quadro 2008/913/GAI. Il lavoro è corredato da un’ampia bibliografia e da una utile tavola sinottica che mette a confronto le legislazioni dei Paesi dell’Unione europea sul tema del negazionismo, evidenziando modalità della condotta, elementi di delimitazione del fatto, oggetto della tutela e trattamento sanzionatorio.

Già dalle prime pagine della monografia, Emanuela Fronza pone il lettore di fronte alla difficoltà di definire il campo del possibile intervento penale attraverso la distinzione tra negazionismo e revisionismo, due concetti che, nello loro fluidità semantica, si prestano più alla riflessione storica che a costituire la base per tipizzare un illecito penale: se, infatti, la revisione, intesa in senso ampio, indica la tendenza a rivedere le ricostruzioni storiche, interpretandole alla luce della mutata sensibilità sociale (in questo senso il revisionismo può essere considerato parte della ricerca storica), il termine negazionismo ha sempre avuto un’accezione negativa, sin da quando, immediatamente dopo la seconda guerra mondiale, furono editi lavori che negavano o minimizzavano l’Olocausto. Se, dunque, il primo ha una dignità scientifica, perché utilizza gli strumenti della ricerca storica, il secondo costituisce una negazione stessa della storia e dei suoi metodi di indagine; in concreto, tuttavia, non è affatto agevole da tracciare il crinale che li separa.

In questo contesto, gli ordinamenti nazionali hanno iniziato a ricorrere allo strumento penale, inizialmente per riaffermare la verità storica dell’Olocausto, per poi ampliare l’ambito di applicazione delle fattispecie a fatti diversi, talvolta specifici della storia nazionale, non sempre espressivi di una memoria condivisa dalla comunità internazionale; in tal modo la tutela penale si è allontanata progressivamente dalla verità dei fatti storici occorsi durante le tragedie della seconda guerra mondiale verso una prospettiva più ampia rivolta alla tutela dei diritti umani. L’Autrice considera la decisione quadro del 1988 lo spartiacque sulle scelte di incriminazione.

Ed è proprio l’ampliamento del reato di negazionismo a fatti diversi dall’Olocausto ad amplificare i dubbi di legittimità del ricorso allo strumento penale, sebbene a livello sovranazionale persistano esigenze di incriminazione di cui la monografia non rinuncia ad evidenziare il lato debole.

L’analisi delle politiche criminali nazionali e sovranazionali è condotta attraverso due registri: da un lato, la verifica del rispetto dei criteri di politica criminale che dovrebbero governare le scelte di incriminazione; dall’altro lato, il significato che assume l’impatto delle legislazioni nazionale sulla prassi applicativa ed i limiti di tenuta dinanzi agli organi di giustizia costituzionale e sovranazionale.

 

2. Quanto al primo profilo, l’Autrice evidenzia due fronti di conflitto sui quali su muovono le scelte penali di contrasto al negazionismo: il rapporto tra pena e memoria; il rapporto con la libertà di manifestazione del pensiero.

In relazione al primo profilo, sono particolarmente illuminanti i rapporti tra sviluppo della disciplina penale del negazionismo e le leggi sulla memoria, ossia il complesso delle leggi con le quali lo Stato fa memoria (fissazione di giorni di commemorazione; istituzione di musei; intitolazione di strade), giungendo spesso ad una sorta di “ossessione della memoria”. Tali leggi fissano un rapporto tra avvenimenti del passato, riletti sulla base della sensibilità del presente al fine di costituire un monito per il futuro, in modo che il ricordo degli avvenimenti del passato rifletta i valori da tutelare (sono leggi che vanno, dunque, oltre la semplice protezione della memoria storica per attingere ai valori di cui i fatti sono espressione). Anche le leggi che introducono il reato di negazionismo, diversamente modulato a livello nazionale, riflettono la medesima esigenza, tanto che le prime possono talvolta offrire una base per la legittimazione delle seconde, anche se l’Autrice ne evidenzia il rapporto complesso e non di implicazione necessaria. Se, infatti, le leggi sulla memoria costituiscono esempi di soft law nel processo pubblico di costruzione della memoria, la norma penale si presenta sempre come uno strumento di hard law che, proprio perché tale, rischia di non essere lo strumento più adeguato alla costruzione e sedimentazione di una memoria condivisa.

 

3. Il rapporto tra leggi che incriminano il negazionismo e libertà di manifestazione del pensiero viene sviluppato attraverso un’attenta analisi condotta alla luce dei principi che devono regolare l’intervento penale. Sebbene, come ben evidenzia l’Autrice, il reato di negazionismo appartenga ai c.d. reati di opinione, ben diverso è il significato che questo assume rispetto alle tradizionali fattispecie che limitano la libertà di manifestazione del pensiero: se, infatti, i reati di opinione di matrice fascista intendevano colpire le forme di dissenso sociale e politico espresse dagli antagonisti del sistema e, in quanto tali, sono stati investiti dal processo di revisione critica alla luce delle libertà costituzionali, il negazionismo, specie quello riferito ai fatti dell’Olocausto, esprime una esigenza di repressione che trova un ampio consenso sociale, dal quali l’Autrice prende le distanze per sviluppare le proprie argomentazioni in base al vaglio rigoroso dello statuto proprio del diritto penale.

C’è, anzitutto, la difficoltà di costruire una fattispecie rispettosa del principio di determinatezza in modo da definire i limiti di compressione della libertà di manifestazione del pensiero che il reato inevitabilmente comporta: la condotta può essere diversamente declinata in termini di negazione della esistenza dei fatti storici, della loro minimizzazione o giustificazione; nella decisione quadro del 2008 sono previsti elementi che restringono la punibilità del negazionismo, pur lasciando al giudice un’ampia discrezionalità applicativa (come l’idoneità ad istigare alla violenza o all’odio contro un gruppo o un membro del gruppo, ovvero la possibilità per gli Stati di limitare la risposta penale solo in presenza del turbamento dell’ordine pubblico); la difficoltà di costruire una fattispecie tassativa si acuisce quanto più il reato di negazionismo si estende al di là della repressione dei fatti di negazioni dell’Olocausto (e qui il rinvio può essere ai fatti come definiti dallo Statuto della Corte penale internazionale, o ai fatti come accertati da un giudice internazionale o, ancora, individuati dal legislatore).

Particolarmente stringente è la verifica del rispetto del principio di extrema ratio del diritto penale: davvero la criminalizzazione del negazionismo costituisce uno strumento adeguato rispetto alle esigenze di tutela dei valori sottesi ai fatti storici? Il dubbio è più che fondato, in quanto emerge sin dalle prime riflessioni dell’Autrice il ruolo fortemente simbolico del diritto penale che rischia di essere “solo” simbolico e, semmai, controproducente rispetto alle stesse esigenze di tutela, in quanto fa apparire i negazionisti vittime di una persecuzione ideologica.

Altro profilo di particolare valore che emerge chiaramente dalle pagine della monografia è l’incompatibilità tra la rigidità dello strumento penale con le esigenze di fluidità della ricerca storica e delle domande che la società pone alla ricostruzione storica: quest’ultima è, infatti, aperta alla revisione della lettura dei fatti storici; il ricorso allo strumento penale, invece, irrigidisce la riflessione, in quanto il giudicato penale fissa la verità dei fatti. E qui si apre l’ulteriore versante problematico del rapporto complesso tra processo penale e storia: il processo è e deve rimanere il luogo di accertamento delle responsabilità individuali e , in quanto tale, non permette una riflessione più ampia degli avvenimenti occorsi che è, invece, propria della ricostruzione storica; così nei processo per negazionismo la storia entra nel processo in modo deformante, perché il giudice diventa “certificatore della verità” in ragione non solo della forza del giudicato, ma anche del carattere simbolico che riveste il processo penale.  

 

4. il secondo registro di lettura critica delle scelte di incriminazione del negazionismo è condotto attraverso una penetrante indagine dell’impatto che alcune legislazioni nazionali hanno avuto dinanzi agli organi di giustizia interna, anche costituzionale, e di giustizia sovranazionale. Il pregio di questa parte della monografia sta nell’aver sviluppato la riflessione comparata sul terreno delle sentenze pronunciate in Francia, Spagna e Germania e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, allo scopo di far emergere i nodi problematici che l’incriminazione del negazionismo comporta.

In Francia, la questione di legittimità costituzionale del negazionismo si è posta non in relazione alla fattispecie originaria, che puniva i fatti riferiti alle vicende storiche dell’Olocausto, ma alla legge che ha esteso l’incriminazione anche al negazionismo del genocidio armeno: a riguardo, il Conseil constitutionnel ha dichiarato l’incostituzionalità del reato di negazionismo non in relazione ai fatti accertati per via giudiziaria (il Tribunale di Norimberga), ma ai fatti individuati dal legislatore come meritevoli di tutela penale. Tuttavia, pur con questa limitazione dell’ambito della incriminazione, l’Autrice evidenzia che, sebbene la norma penale in questione sia finalizzata a tutelare la dignità umana, il ricorso al diritto penale rischia di introdurre all’interno del processo (come nel caso Theil del 2006) una riflessione sul corretto metodo storico quale criterio per valutare la rilevanza penale delle affermazioni negazioniste: di qui la critica ad un epilogo che “pone la storia sotto processo e mette in dubbio la validità del metodo storico” (p. 96).

Anche la Corte europea dei diritti dell’uomo legittima il reato di negazionismo, quando è riferito ai fatti dell’Olocausto, in ragione del grave turbamento dell’ordine pubblico che comporta la negazione di fatti giudizialmente accertati; diversamente, ravvisa la violazione dell’art. 10 CEDU, relativo ai limiti alla libertà di manifestazione del pensiero, quando si tratta della negazione di fatti sui quali è ancora aperto il dibattito storico. Così nel caso Perinçek, i giudici di Strasburgo, pronunciandosi per la prima volta sul negazionismo del genocidio armeno, hanno concluso per il carattere sproporzionato della condanna penale in violazione dell’art. 10 CEDU, perché il ricorrente non negò la verità dei fatti occorsi nel 1915, sui quali il dibattito storico è ancora aperto, ma propose una rilettura degli stessi in una chiave che ne negava il carattere di genocidio. La critica che l’Autrice rivolge alla posizione assunta dai giudici di Strasburgo sta nel fatto che, a supporto del giudizio di sproporzione della condanna, viene addotto anche il locus commissi delicti,  poiché le affermazioni, oggetto di incriminazione, erano state fatte in Svizzera, Paese lontano dal contesto in cui si svolsero i fatti: l’argomentazione svela l’attenzione alle esigenze di tutela dell’ordine pubblico, piuttosto che a quelle di tutela dei diritti umani, che dovrebbero prescindere dalla distanza rispetto al luogo dei fatti. 

Anche in Germania, dove la tutela penale è incentrata sui soli fatti dell’Olocausto, il Bundeverfassungsgericht nel 1994 ha sancito la legittimità costituzionale della incriminazione della negazione dei fatti storici, in quanto qui non c’è la copertura della libertà di manifestazione del pensiero: anche in tal caso però l’Autrice si chiede di quali strumenti possa disporre il giudice per accertare la verità dei fatti.

In termini differenti si è, invece, pronunciato il giudice costituzionale spagnolo sul reato di negazionismo (previsto allora dall’art. 607 c.p.), il cui ambito di applicazione è stato delimitato in forza di un altro parametro: la mera negazione dei fatti gode di tutela costituzionale, a meno che in concreto non integri una forma di istigazione indiretta a commettere violenze contro un gruppo sociale; è punibile, invece, la giustificazione dei fatti storici, in quanto tale condotta esprime un disvalore che la rende assimilabile ad una istigazione alla violenza.

Gli organi nazionali di giustizia costituzionale e la Corte europea dei diritti dell’uomo hanno, dunque, con argomentazioni differenti delimitato le scelte di incriminazione fatte dai legislatori nazionali in tema di negazionismo, ma manca una chiara ed unitaria linea di interpretazione.

È pienamente condivisibile il legame che l’Autrice traccia tra la scelta (nazionale e sovranazionale) di ricorrere al diritto penale e l’esigenza di rispondere alla insicurezza della società attraverso decisioni giudiziali alle quali si attribuisce la capacità “magica” di rafforzare la memoria collettiva intorno a comuni valori fondativi. Attraverso questa funzione fortemente simbolica il diritto penale ed il processo penale distinguono i consociati tra amici e nemici. I processi penale diventano “arene della memoria” (p. 161) e si muovono “su un terreno che è emozionale e diretto dai valori” (p. 162), il che complica il rapporto tra legge, soprattutto se legge penale, e dimensione valoriale della quale si vuole garantire la tutela. La conclusione di Emanuela Fronza è che su questa china il diritto penale perde la sua tradizionale impronta liberale; l’incriminazione del negazionismo, senza riuscire a garantire la tutela dei diritti umani, entra invece in conflitto con la libertà di manifestazione del pensiero e di ricerca scientifica. Pur nella chiarissima consapevolezza dell’Autrice che i negazionisti usano la libertà di espressione per attaccare i valori vilipesi da alcuni fatti storici, il dubbio è se il diritto penale costituisca lo strumento più adeguato per riaffermare la tutela effettiva di quei valori, mentre è concreto il rischio di dare maggiore visibilità alle tesi negazioniste, come hanno dimostrato i (pochi) casi giudiziari.

Se è giustificato reprimere penalmente le condotte che istigano alla violenza contro un gruppo o contro individui che appartengono ad un gruppo, il diritto penale rischia di essere una “falsa soluzione” (p. 170) ed il processo penale, da luogo deputato all’accertamento di responsabilità individuali, si trasforma impropriamente in “spazio della memoria”. Il monito, dunque, è rivolto ad evitare gli effetti distorti dell’uso puramente simbolico del diritto penale, nella consapevolezza che la risposta al negazionismo debba essere condotta sul piano politico attraverso interventi purtroppo meno visibili rispetto al clamore anche mediatico delle norme e dei processi penali: la lucida conclusione di Emanuela Fronza è che debba essere percorsa “la lunga strada delle scelte politiche e dell’educazione”.