19 dicembre 2013 |
Tutela della memoria e diritto penale: una riflessione sistematica e comparativa a partire dal reato di negazionismo
A proposito di Emanuela Fronza, "Il negazionismo come reato", Giuffrè 2012
Ha fatto bene Emanuela Fronza ad affrontare, in un lavoro monografico, il reato di negazionismo, sul quale da tempo ormai si svolge una polemica aperta, spesso confinata ad appelli mediatici. In Italia - dove manca una previsione specifica - sono stati coinvolti in particolare gli storici, mentre i giuristi sono stati per lo più assenti dal dibattito, che pur invoca in particolare l'attenzione di chi più conosce il ruolo delle norme penali e le conseguenze che derivano dalla loro introduzione.
Il pendolo che ha caratterizzato nel tempo la materia dei reati di opinione ha ormai da più di un decennio spinto ad un allargamento progressivo dell'area di rilevanza penale della materia, volto a compensare fenomeni di insicurezza sociale, fornendo forme di tutela simbolica a coloro che si sentono vittime (reali o potenziali) di violenze e discriminazioni.
Quello che, alla fine del secolo scorso, sembrava il lento prosciugarsi dell'eredità dei regimi autoritari del 900' - grazie all'intervento dei giudici costituzionali e del legislatore, in nome di una ritrovata ampiezza del diritto di libera manifestazione del pensiero, costitutiva di una società a democrazia liberale - non solo si è bruscamente interrotto, ma la minaccia di un diritto penale pervasivo delle opinioni si fa concreta e si allarga sempre più. Si pensi nell'ordinamento italiano alla ritrovata fortuna dell'art. 414 c.p. che punisce l'apologia di delitto, divenuto un contenitore di istanze repressive relative a vari settori dell'ordinamento valorizzati dalle novelle di diritto penale: con un parallelismo significativo rispetto all'introduzione di nuove fattispecie associative.
Sarebbe ingenuo non rilevare che oggi, in particolare in virtù della rete, gli strumenti di comunicazione del pensiero hanno una capacità di diffusione pressoché illimitata, e dunque le opinioni hanno una capacità di incidenza ben diversa da un passato anche prossimo, nel quale lo svolgersi sui media aveva pur sempre platee limitate e soprattutto maggiormente controllabili. Questo diritto che, astrattamente, trova il suo significato più profondo proprio nella pericolosità del suo svolgersi rispetto allo stato di cose presenti (sarebbe inutile una libertà dei pensieri innocui) rischia di spegnersi di fronte a forti istanze di protezione sociale e culturale sulle quali la risposta penale appare come una (fortunata) scorciatoia.
In realtà senza l'accettazione del rischio, coessenziale al diritto di manifestare liberamente le proprie opinioni, inevitabilmente si produce una sua progressiva atrofia.
Se il reato d'opinione si configura come un delit obstacle rispetto alla commissione di potenziali futuri reati secondo uno schema di pericolo presunto è del tutto evidente che non esiste un parametro certo per escludere che dallo svolgersi di un pensiero scaturisca un'azione nociva: anche il limite dell'istigazione funziona solo quando si collochi sul versante concreto di un'azione di cui costituisce la premessa ideativa e, in tali casi, perde ovviamente il suo carattere di opinione per saldarsi alla condotta materiale dell'autore.
Il reato di negazionismo, per sua natura, prescinde da ogni valutazione di pericolo: sanziona l'esternazione del pensiero del Male, invocando la tutela della memoria delle gravissime violazioni di diritti umani, avvenute in un passato più o meno prossimo, dalla negazione (o minimizzazione) della Shoa fino alla negazione di altre stragi e altri genocidi, che hanno affaticato in questi anni i tanti Tribunali internazionali istituiti per perseguirne i responsabili.
Quanti guasti possa potenzialmente produrre un modello siffatto di normazione penale lo si può notare, anche solo verificando quanto è accaduto nell'ordinamento italiano in materia di disciplina penale della pedofilia e dei fenomeni di violenza sessuale coinvolgenti minori d'età.
In applicazione della Convenzione di Lanzarote si è punita con una nuova fattispecie all'art. 414 bis c.p. (introdotta dalla legge 1 ottobre 2012 n. 172) l'apologia di numerosi delitti nella materia specificamente indicati dalla indicata novella - fatti che peraltro già rientravano nell'area di punibilità della norma di cui all'art. 414 c.p. volta a punire in generale l'apologia di delitti - specificando nell'ultimo comma che "non possono essere invocate a propria scusa ragioni o finalità di carattere artistico, letterario, storico o di costume". Il Male, dunque, non può essere descritto e reso pubblico, sia pure per dare conto di accadimenti culturalmente significativi, perché dietro l'angolo si nasconde il pericolo che la narrazione storica o la fantasia letteraria assurga, per il censore penale, ad un elogio improprio e per ciò stesso criminoso.
La monografia di Emanuela Fronza si presenta dunque come una riflessione di grande significato e attualità.
Lo sguardo dell'Autrice si volge in primo luogo ai fenomeni di negazionismo della Shoa e le modalità del loro manifestarsi: una forma particolare di revisionismo storico che risale agli anni immediatamente posteriori alla seconda guerra mondiale, volta a contestarne l'esistenza , negando lo sterminio del popolo ebraico nella sua specificità rispetto agli avvenimenti bellici e all'inevitabile seguito di lutti e di perdite di vite umane.
Ma l'attenzione si allarga poi , alle polemiche insorte, più recentemente, all'esistenza di altri genocidi: quello della popolazione armena da parte del governo turco durante la prima guerra mondiale, allo sterminio nazista della popolazione zingara europea , allo sterminio della popolazione ucraina da parte di Stalin (l'Holomodor) durante la carestia del 1933-34 fino, in un passato prossimo, a quello avvenuto in Ruanda nel 1994.
La fattispecie di negazionismo si impone allora al diritto penale come un "crimine della memoria".
La memoria diviene "un bene da difendere" e al contempo "un luogo di commissione del crimine": il processo penale un "teatro nel quale rimettere pedagogicamente in scena la storia". La sua funzione, in primo luogo, quella di ribadire una verità storica: il giudicato penale diviene lo strumento privilegiato sul quale contare, ignorando" la profonda diversità degli statuti epistemologici che afferiscono alle due materie".
La tutela penale del patto fondante la Carta costituzionale arretra e coinvolge il patrimonio di esperienze che si iscrivono nella memoria condivisa, finendo per "perdere i suoi connotati formali e confondersi con un'attività sociale in continua e necessaria evoluzione" (quest'ultima si cristallizza nei Giorni della Memoria, che fisiologicamente richiamano l'attenzione sugli avvenimenti del passato, introdotte da numerosi leggi che hanno interessato vari Paesi europei, in particolare Italia, Francia e Spagna tra il 2000 e il 2006).
La tendenza a utilizzare gli strumenti penalistici in questa direzione non vede isolati i Paesi europei.
L'Autrice ricorda l'esperienza argentina successiva alla dittatura che, dapprima, ha sperimentato un processo penale senza pena per dare seguito alla verità sul passato, in presenza di leggi di amnistia che coprivano i delitti commessi dalla Giunta militare; salvo ribadire poi, con la Corte Suprema di quel Paese, la necessità della sanzione rispetto a gravissime violazioni di diritti umani, perchè le leggi di amnistia si orientano "al olvido" di questi gravissimi delitti.
Del resto - è sempre Emanuela Fronza che ce lo ricorda - un documento del ICTY sottolinea la necessità di "imporre la verità giudiziaria per impedire il revisionismo, per contribuire alla restaurazione della pace e per favorire la riconciliazione" (corsivo nostro).
Così come ricorda, ma in una chiave del tutto diversa, volta alla formazione di valori condivisi, in sostituzione della pena irrogata in sede penale, l'istituzione della Truth and Reconciliation Commission sudafricana.
Il riconoscimento di un diritto alla memoria - in particolare la protezione anche delle vittime e dei loro discendenti - sembra dunque in molte delle esperienze citate rendere necessario l'intervento della sanzione penale e conseguentemente del processo: la contaminazione tra storia e diritto penale sottende quella tra etica e diritto.
La penalizzazione del negazionismo si iscrive dunque in questo complesso percorso.
La monografia dà conto delle varie legislazioni nazionali (Germania, Francia, Spagna, Portogallo, Austria, Belgio, Svizzera, ma anche Repubblica Ceca e Ungheria, che estendono i crimini anche a chi nega i crimini commessi dal regime comunista, fino all'Ucraina nella quale il cambio di maggioranza di Governo ha trascinato con sé anche un diverso approccio al significato dell'Holodomor), anche per verificare la scarsa omogeneità delle discipline nei singoli Paesi, a conferma di un pluralismo strutturale non solo in senso orizzontale - tra Stato e Stato - ma in senso verticale tra i singoli Stati e i due sistemi di diritti fondamentali (Consiglio d'Europa e Unione europea), costitutivi di un ordine costituzionale europeo.
L'introduzione di tali norme non ha trovato ostacolo nella giurisprudenza della Corte EDU.
Per un verso infatti si sottolinea che la libertà di espressione deve coprire anche asserzioni sgradevoli che urtano lo Stato, o una parte anche significativa della popolazione e, in tal senso, si limita la possibilità di punire il discorso dell'odio al caso in cui comporti un'istigazione diretta alla violenza contro singoli cittadini o determinate razze o credenze, ed ancora si ribadisce che la ricerca della verità storica fa parte integrante della libertà di espressione; per altro verso si dà spazio a una disciplina penale del negazionismo, anche attraverso il riconoscimento del margine nazionale di apprezzamento dei singoli Stati (art. 17 CEDU).
Si segnala in particolare la decisione Garaudy c. Francia (24 giugno 2003). Nel dichiarare irricevibile la richiesta del ricorrente contro la condanna inflittagli per le affermazioni negazioniste di un suo libro, la Corte EDU ribadisce che di fronte a fatti storici indiscussi come la Shoa, le affermazioni del testo "mettono in discussione i valori che fondano la lotta contro il razzismo e l'antisemitismo, e sono tali da turbare l'ordine pubblico", "non meritando pertanto di essere tutelate dall'art. 10 CEDU".
D'altro lato occorre dar conto che l'Unione Europea è intervenuta con la decisione quadro del novembre 2008 con una richiesta di criminalizzazione, che lascia peraltro agli Stati membri la possibilità di orientare diversamente la loro disciplina interna, vuoi ancorandola al giudicato dei Tribunali internazionali o nazionali, vuoi limitandone l'applicazione ad una valutazione della capacità istigatoria delle condotte punite rispetto al pericolo per l'ordine pubblico.
Un intervento quest'ultimo che, nota ancora Emanuela Fronza, lascia agli Stati un margine di autonomia tale da creare una geometria normativa variabile, con conseguenze di notevole significato, perché un fatto storico potrebbe essere considerato un crimine contro l'umanità in uno Stato membro a differenza di altri.
Lo stesso richiamo "all'ordine pubblico" invoca una insussistente nozione unitaria della categoria, e dunque è destinato a rendere magmatico il terreno sul quale si vorrebbe misurare il delicato limite alla libertà di espressione, lasciando incerto il bene giuridico (tutela della memoria, protezione dell'identità, garanzia rispetto a possibili condotte discriminatorie).
Particolare attenzione l'Autrice dedica alle disposizioni normative vigenti in Germania, in Francia e in Spagna.
Di grande interesse l'esame del dibattito interpretativo che si è aperto in Germania sulla fattispecie del § 6 comma 1 VstGB, che punisce non solo l'approvazione, ma anche la negazione e la minimizzazione del genocidio degli ebrei durante il nazismo, punendo anche crimini che abbiano riguardo a singole vittime, se e in quanto aggredite per la loro appartenenza al gruppo nazionale, razziale, religioso o etnico.
I requisiti della pubblicità della condotta e dell'idoneità a mettere in pericolo la pace pubblica ne condizionano l'applicazione. Molti dubitano della capacità di questa clausola di arginare le capacità espansiva dell'incriminazione e la pretesa che il fondamento risieda nella capacità delle espressioni negazioniste di "avvelenare il clima politico" rende anche in questo caso particolarmente inquietante il significato sistemico della disposizione. L'evanescenza del bene giuridico condiziona infatti ogni valutazione del pericolo finendo per ricollegarla a "momenti di insicurezza sociale del tutto trascurabili".
In Germania del resto, come ricorda l'Autrice, esiste una pronuncia fondamentale della Corte Costituzionale tedesca (Bundesverfassungsgericht, BVG) del 13 aprile 1994, che ha dichiarato compatibile la punibilità della "Auschwitzlüge" con la libertà di manifestazione del pensiero, affermando che la negazione dello sterminio degli ebrei durante la dittatura nazional-socialista non rientra nella tutela costituzionale del diritto di opinione: l'affermazione di fatti dimostrati falsi non vale a fondare una libertà di opinione sugli stessi, ciò che legittima un intervento penale proporzionale. È una pronuncia sulla quale l'Autrice si interroga ponendo molti interrogativi. Il primo dei quali è quello del rapporto tra verità giudiziale e verità storica, anche per il diverso statuto epistemologico che le caratterizza. A differenza della verità processuale, strumentale alla decisione sulla responsabilità di un imputato la verità storica non è mai definitiva, si forma con una dinamica necessariamente plurale e la cui complessità non può soffrire le restrizioni delle regole altamente formalizzate del processo penale .
In Francia con l'espressione "lois memorielles" viene designato un insieme di disposizioni normative eterogenee ( emesse nell'ultimo ventennio) accomunate dalla scelta di intervenire a tutela della intangibilità della raffigurazione di avvenimenti del passato, norme che, quando anche non abbiano un contenuto penalistico, sacralizzano un dovere della memoria, secondo uno schema valutativo irrigidito dalla tipizzazione legale. Fin dalla Loi Gayssot (1990) viene introdotta una norma apposita di punizione del negazionismo di crimini contro l'umanità (art. 24 bis, Contestation de crimes contre l'humanité), richiamando lo statuto del Tribunale di Norimberga, e gli accertamenti giurisdizionali conseguenti. Un ambito di applicazione dunque limitato ai crimini commessi dal regime nazista, in primo luogo alla Shoa, senza la possibilità di estendere la tutela a fatti pur aventi analoga qualificazione .
Non è invece entrata in vigore la legge (n. 647 del 23 gennaio 2012) che allargava la tutela ad altri genocidi, in particolare al genocidio degli armeni, riconosciuto come tale dalla legge 29 gennaio 2001, perché dichiarata incostituzionale dal Conseil Constitutionnel (con sentenza del 28 febbraio 2012), che ha riconosciuto la violazione della libertà di espressione e comunicazione sancita dall'art. 6 della Dichiarazione dei Diritti Umani, denunciando la circolarità inaccettabile della pretesa di sanzionare la contestazione dell'esistenza di crimini che lo stesso legislatore aveva qualificato come tali.
In Spagna la disciplina che punisce i fenomeni di negazionismo è prevista dall'art. 607 comma 2 del codice penale. La norma punisce la negazione e giustificazione del crimini di genocidio, mentre è stata espunta dall'ambito del penalmente rilevante la banalizzazione degli stessi, a prescindere da ogni idoneità istigatoria delle dette affermazioni. Il Tribunale Costituzionale spagnolo (con sentenza del 7 novembre 2007) ha dichiarato la parziale incostituzionalità della sopraindicata disciplina penale, (dichiarandola incostituzionale la parte in cui venivano punite le condotte di negazione dei crimini di genocidio e mantenendo invece la sanzione per le condotte di "giustificazione"). Con una pronuncia molto motivata si sottolinea come il puro negazionismo rimanga estraneo al "discorso dell'odio", perché "la mera diffusione di conclusioni sull'esistenza di vari fatti, senza emettere giudizi di valutazione sugli stessi o sulla loro antigiuridicità, rientra nell'ambito della libertà scientifica della ricerca storica", negando pertanto che l'intervento penale in questo caso si giustifichi con un pericolo per il bene giuridico tutelato, e che comunque la reazione penale appaia conforme al principio di proporzionalità.
Ancora va ricordato come in sede extraeuropea la Corte Suprema canadese si sia pronunciata il 27 agosto 1992 dichiarando l'incostituzionalità del reato di "diffusione di notizie false", con il quale era stato perseguito un libello inglese negazionista, sottolineando come l'ampiezza della disposizione abbia una portata invasiva e un effetto paralizzante sulla libertà di pensiero delle minoranze e degli individui, indicando come sproporzionata la reazione penale.
Di grande interesse è altresì l'esame che l'Autrice fa della giurisprudenza relativa al reato di negazionismo nei Paesi europei che lo hanno introdotto. Si tratta di processi che hanno un grande impatto mediatico, ben al di là della pubblicità che connota fisiologicamente il rito penale. Procedimenti che hanno avuto compiti marcatamente ricostruttivi dei fatti storici, con un ruolo di grande peso delle vittime, lasciando sullo sfondo lo scopo di dimostrare la responsabilità dell'imputato e di irrogargli una sanzione: "verità e pena si trovano così collocate nell'unico asse inclinato dell'aspettativa della sentenza", perché "si chiede al processo di consolidare o confermare una memoria, cui si attribuisce un particolare significato morale e fondativo".
La riflessione dell'Autrice si volge in particolare alla decisione del Tribunal de Grande Istance di Lione del 3 gennaio 2006, che ha condannato l'imputato per affermazioni negazioniste. In questo caso il Tribunale fa assurgere a elemento centrale della sua decisione l'esistenza di una "buona fede" del protagonista ricavabile dall'uso di un corretto metodo di ricerca storica: la constatazione dell'inesistenza di questi elementi fonda infatti la pronuncia di condanna. Anche in questo caso gli interrogativi che si pongono sono molteplici perché, come si legge nel testo, "cercando di sfuggire al paradosso del contenuto -sottraendo la verità al giudizio della storia- si rischia di cadere in un'aporia speculare, un paradosso del metodo" che delega al giudice di fissare i parametri scientifici della disciplina storica.
Oltre ai tradizionali problemi connessi ai limiti del diritto di manifestazione del pensiero, il reato di negazionismo presenta dunque una specificità che riguarda l'intersezione tra processo penale e ricostruzione storica e l'interferenza con la formazione di memorie condivise.
Come sottolinea Emanuela Fronza il carattere anche necessariamente simbolico del diritto penale diviene nel caso una fabbrica della memoria su eventi storici particolarmente significativi per la collettività.
Tutto ciò a scapito della stessa effettività dell'intervento penalistico, messa fortemente in discussione dall'inopportunità di veicolare risonanza mediatica a fenomeni che si presentano a tutt'oggi come socialmente marginali.