21 marzo 2012 |
Sulla dichiarazione di illegittimità costituzionale della legge francese che incrimina la contestazione dell'esistenza dei genocidi "riconosciuti come tali dalla legge francese"
Conseil constitutionnel, 28 febbraio 2012, Décision n° 2012-647 DC
1. Non passa indenne al vaglio di costituzionalità la legge francese che reprime le condotte di contestazione e di minimizzazione dei genocidi "riconosciuti come tali dalla legge francese", che aveva suscitato le proteste, in particolare, della Turchia nei confronti della Francia. Il Conseil contitutionnel, con una pronuncia del 28 febbraio 2012, pur non pronunciandosi sulla legittimità del cd. reato di negazionismo condanna la violazione della libertà di espressione e di comunicazione, .
La Loi visant à réprimer la contestation de l'existence des génocides reconnus par la loi è intervenuta a modificare, in parte, la legge del 29 luglio 1881 sulla libertà di stampa. L'art. 1 della nuova legge aggiunge, infatti, un articolo 24ter al precedente testo, estendendo le pene a un anno d'emprisonnement e a 45.000 euro di amende previste all'art. 24bis (disposizione inserita nella legge sulla stampa dalla loi Gayssot nel 1990) alle condotte di contestazione e di minimizzazione dell'esistenza dei crimini di genocidio, così come definiti all'art. 211-1 del codice penale e "riconosciuti come tali dalla legge francese". Inoltre, l'art. 2, modificando la disposizione dell'art. 48-2 della stessa legge sulla stampa, amplia la cerchia di soggetti che possono costituirsi parte civile nel processo per ottenere il risarcimento dei danni derivanti dalle nuove fattispecie penali.
La legge dichiarata incostituzionale si inserisce nel contesto delle cd. lois mémorielles, che mirano a commemorare e riconoscere un evento storico particolarmente drammatico, evitandone la caduta nell'oblio. Tra tra esse si annoverano: la legge Gayssot del 13 luglio 1990 (che prevede l'incriminazione degli atti razzisti, antisemiti e xenofobi); la legge del 29 gennaio 2001 sul "riconoscimento del genocidio armeno del 1915"; la legge Taubira del 21 maggio 2001 sul riconoscimento della "tratta e della schiavitù quali crimini contro l'umanità" e la legge del 23 febbraio 2005 sul riconoscimento della "Nazione e contribuzione nazionale in favore dei francesi rimpatriati". Sino ad ora, l'unica delle lois mémorielles a non presentare un carattere puramente dichiarativo era la legge Gayssot. Quest'ultima, per l'appunto, ha introdotto nell'ordinamento francese una nuova fattispecie criminosa: il reato di negazionismo dei crimini contro l'umanità. Ebbene, anche la legge oggetto del vaglio del Conseil condivide con la Gayssot questa particolarità, inserendo nell'ordinamento una nuova incriminazione, tendente a punire anch'essa gli "assassins de la mémoire" (P. Vidal-Naquet, Les assassins de la mémoire: "Un Eichmann de papier" et d'autres essais sur le révisionnisme, Parigi, 1987).
è quindi necessario chiedersi perché, data questa affinità fra le due leggi, solo la più recente sia stata oggetto di giudizio costituzionalità (non avendo, al contrario, il Conseil mai avuto l'occasione di valutare la Gayssot) e non ne sia passata indenne.
2. La somiglianza fra i due testi legislativi è solo superficiale: le leggi circoscrivono le fattispecie penalmente rilevanti in modo completamente differente.
La legge Gayssot, introducendo nel sistema il reato di contestazione dell'esistenza di uno o più crimini contro l'umanità, al fine di individuare questi ultimi, fa espressamente rinvio all'art. 6 dell'Accordo di Londra dell'8 agosto 1945 (istitutivo del Tribunale di Norimberga) e ai crimini perpetrati da una delle organizzazioni dichiarate criminali ai sensi dell'art. 9 del suddetto Statuto, nonché da una persona ritenuta colpevole di tali crimini da una giurisdizione francese o internazionale. Il rinvio è, dunque, specifico; i crimini individuati dalla legge sono una "verità storica notoria" (J.F. Flauss, La Cour Européenne des droits de l'homme et la liberté d'expression in La liberté d'esxpression aux Etats-Unis et en Europe, 2008, p. 125.): realtà giuridica incontrovertibile, "catégorie des faits historiques claraiment établis" (dunque, fatti storici ormai acclarati; ed in tal senso si è più volte pronunciata la stessa giurisprudenza di Strasburgo nel confermare la compatibilità della Gayssot con l'articolo 10 della CEDU: Marais c. France, Comm. EDU, 24 giugno 1996, req. n° 31159/96 n°1; nonché Garaudy c. France, Corte EDU, 24 giugno 2003, req. n°65831/01 n°2 e Chauvy et autres c. France, Corte EDU, 29 giugno 2004, req. n° 6491/01 n°69) (J. Bossan, La loi Gayssot in La mémoire et le crime, Parigi, 2010, p.131 e ss ; nonché M. Lombard, Négationnisme in Dictionnaire des Droits de l'Homme, Parigi, p. 554 e ss. e S. Garibian, Pour une lecture juridique des quatre lois « mémorielles » in Esprit, février 2006, p. 158 e ss.).
Al contrario, la legge de quo, pur introducendo anch'essa una nuova fattispecie criminosa e condividendo con la precedente normativa la ratio di un generale "dovere di ricordo", nel definire quali siano i "genocidi" oggetto della "contestazione" ovvero della "minimizzazione", opera un rinvio 'a maglia larga'. Infatti, i crimini genocidiari su cui verte l'incriminazione sono da considerarsi quelli "riconosciuti come tali dalla legge francese". Il rinvio, anche se ad oggi è limitato all'unica loi che, espressamente "riconosce" un genocidio, ossia quella del 29 gennaio 2001 relativa alla "riconoscimento del genocidio armeno del 1915", è, a differenza di quanto accade nella Gayssot, aperto e mobile.
Ebbene, proprio questa diversa latitudine di rinvio differenzia le due leggi, determinando per la più recente la dichiarazione di incostituzionalità.
3. Nonostante i numerosi motivi di censura sollevati dai Parlamentari, per iniziativa dei quali si è attivato il giudizio di costituzionalità, il Conseil ha ritenuto sufficiente cassare la legge in quanto in contrasto con la libertà di espressione e comunicazione. Tuttavia, la violazione censurata non è affatto connessa all'incriminazione oggetto del testo legislativo. Le nuove fattispecie criminose, che restringono ancor di più i confini della liceità dell'opinione negazionista, non sarebbero di per sé in contrasto con l'art. 11 della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino che, definendo la libertà di espressione in tutte le sue forme quale "diritto più prezioso", ne ammette, ad ogni modo, delle restrizioni, fissate rigorosamente dalla legge, destinate ad evitare un illecito abuso di diritto (ciò che dispone, infatti, lo stesso art. 34 della Costituzione).
Ben lontano, dunque, dal cassare direttamente una scelta di politica criminale comunque spesso oggetto di critiche, il Conseil imputa alla legge una violazione della libertà di espressione puramente "mediata". Ciò che viene, infatti, censurata è, a monte, la mancanza di "portata normativa" della legge oggetto del rinvio, in violazione dunque dell'art. 6 della Dichiarazione dei diritti dell'uomo che fa parte, notoriamente del blocco di costituzionalità. Il Conseil, interpretando in via sistematica quest'ultima disposizione - statuente nello specifico che "[l]a Legge è espressione della volontà generale [...]"- con le norme costituzionali che definiscono l'oggetto e le finalità della legge, afferma che quest'ultima ha quale principale vocazione quella di enunciare norme e che deve, dunque, esser rigorosamente caratterizzata da portata normativa; la legge deve cioè cristallizzare precetti che siano precisi, accessibili e sufficientemente comprensibili (si veda, inoltre, motivata in tal senso anche la decisione del Conseil n. 2005-512 DC del 21 aprile 2005 sulla "Loi d'orientation et de programme pour l'avenir de l'école"). La "sécurité juridique", e la correlativa messa al bando dell'indeterminatezza normativa, garantisce, infatti, la difesa dei diritti e delle libertà fondamentali (B. Mathieu, La normativité de la loi : une exigence démocratique in Les Cahiers du Conseil constitutionnel n.21 2006, Dalloz, p.69 e ss. ; nonché V. Champeil-Desplats, N'est pas normatif qui peut. L'exigence de normativité dans la jurisprudence du Conseil constitutionnel in Les Cahiers du Conseil constitutionnel n.21 2006, Dalloz, p.63 e ss.). Le eventuali restrizioni di queste ultime (quelle libertà, dunque, "relativamente intangibili" e, tra le tante, proprio la liberté d'expression) possono essere previste solo da una legge che rispetti i canoni montesquiani di chiarezza, determinatezza e comprensibilità e che abbia, dunque, portata normativa sostanziale.
Ciò spiega, d'altronde, la ragione per cui la Gayssot non è stata mai sottoposta al vaglio di legittimità costituzionale. La Cour de Cassation, infatti, operando quale rigoroso "filtro" dei rinvii di costituzionalità che le sono sottoposti ai sensi dell'art. 61-1 Cost., ha negato, nel 2010, che tale legge potesse esser in contrasto con la Costituzione, ritenendo la relativa questione priva di "caractère sérieux" (Arrêt n. 12008 del 7 maggio 2010). Ciò perché la legge Gayssot, incriminando la contestazione dei crimini contro l'umanità, impone delle restrizioni legittime alla libertà d'espressione, in quanto, il rinvio da essa operata per definire suddetti crimini e, dunque, per delimitare il "penalmente rilevante", non è affatto generico: ci si riferisce, infatti, ad un testo specifico (l'Accordo di Londra) regolarmente introdotto nell'ordinamento francese.
Al contrario, i canoni di normatività, di intelligibilità e chiarezza non sono affatto rispettati dalla legge censurata, la quale, al fine di definire quali siano i "genocidi", la cui contestazione è penalmente perseguibile, opera un generico rinvio ai crimini "riconosciuti come tali dalla legge francese". Il legislatore subordina, infatti, le limitazioni della libertà di espressione ad un suo vago e libero apprezzamento.
Il Conseil ritiene, infatti, che una disposizione legislativa che abbia per oggetto puramente di "riconoscere" un crimine di genocidio non sarebbe rivestita della portata normativa che, al contrario, dovrebbe necessariamente caratterizzare la legge; cassa, dunque, la loi in esame, in quanto in contrasto con l'art. 6 della Dichiarazione e di rimando in contrasto con la libertà di espressione e comunicazione. Inoltre, si ritengono assorbiti in questa violazione 'a catena' tutti i motivi di censura che erano stati rilevati dai Parlamentari nella saisine: in primis, la violazione del principio di legalità della legge penale (cosi come espresso dall'art. 8 della Dichiarazione); poi, il conseguente principio di necessità delle pene (art. 9); la separazione dei poteri (art. 16); la libertà di ricerca quale ulteriore aspetto della stessa libertà di espressione; il principio di uguaglianza (in quanto la legge, nel connettere ad un rinvio arbitrario e generico la definizione di "genocidi", comporterebbe un'ingiustificata differenza di trattamento delle stesse vittime); ed infine, il libero esercizio dell'attività dei partiti politici (art. 4 Cost.).
4. Lungi dall'esprimersi sul "merito" di leggi penali che incidono sulla libertà di espressione e di opinione, il Conseil constitutionnel si preoccupa dunque di evitare che il legislatore possa, con modalità assolutamente incostituzionali, limitare l'esercizio di tali libertà, sino ad intaccarne il "nucleo duro", tuttavia non pronunciandosi sulla legittimità del reato di negazionismo, che passa oggi indenne al vaglio di costituzionalità.
La giurisprudenza francese continua, dunque, a custodire gelosamente quelle restrizioni della libertà d'espressione (ben coordinandosi, inoltre, con la relativa giurisprudenza di Strasburgo), la cui legittimità sembra ancora fondarsi nel canone della "necessità in una società democratica" (Marais c. France, Comm. EDU, 24 giugno 1996, req. n° 31159/96 n°1; nonché v. Garaudy c. France, Corte EDU, 24 giugno 2003, req. n°65831/01 n°2.) (P. Wachsmann, Liberté d'expression et négationnisme in Revue Trimestrielle de Droits de l'Homme, 1 Avril 2002, p. 585 e ss. ; nonché G. Cohen-Jonathan, Négationnisme et droits de l'homme in Revue Trimestrielle de Droits de l'Homme,1 Octobre 1997,p.571 e ss.).
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