ISSN 2039-1676


18 febbraio 2014 |

L'attuazione italiana della decisione quadro 2008/913/GAI in materia di negazionismo, nel rapporto della Commissione europea

Il Rapporto della Commissione europea sull'attuazione della decisione quadro 2008/913/GAI, sulla lotta contro talune forme ed espressioni di razzismo e xenofobia mediante il diritto penale

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1. Il 27 gennaio 2014 è stato pubblicato il Rapporto della Commissione europea sull'attuazione della decisione quadro 2008/913/GAI, sulla lotta contro talune forme ed espressioni di razzismo e xenofobia mediante il diritto penale. Il rapporto analizza sinteticamente il livello di attuazione di ognuno degli articoli della decisione quadro, evidenziando le lacune che ancora caratterizzano le varie legislazioni nazionali, nonostante il termine per l'adozione delle misure necessarie per conformarsi allo strumento del diritto dell'Unione europea sia decorso il 28 novembre 2010.

Dal punto di vista del lettore italiano, risulta naturalmente di particolare interesse l'analisi che la Commissione riserva all'ordinamento italiano, nel quale sono state analizzate le fonti seguenti: il codice penale; la  l. 9 ottobre 1967, n. 962 (Prevenzione e repressione del delitto di genocidio); la l. 13 ottobre 1975, n. 654 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione internazionale sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale); e il d. l. 26 aprile 1993, n. 122 (Misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa).

 

2. L'art. 1 della decisione quadro impone una serie di obblighi di criminalizzazione in capo agli Stati membri.

In particolare, l'art. 1 par. 1 lett. a) impone a ciascuno Stato membro di adottare le misure necessarie affinché sia resa punibile "l'istigazione pubblica alla violenza o all'odio nei confronti di un gruppo di persone, o di un suo membro, definito in riferimento alla razza, al colore, alla religione, all'ascendenza o all'origine nazionale o etnica". La normativa italiana, nonostante sanzioni correttamente sia la condotta di "istigazione alla violenza", che quella di "istigazione all'odio", non fa alcun riferimento ai requisiti del "colore" e dell'"ascendenza".

L'art. 1 par. 1 lett. b) impone a ciascuno Stato membro di adottare le misure necessarie affinché sia resa punibile "la perpetrazione di uno degli atti di cui alla lettera a) mediante la diffusione e la distribuzione pubblica di scritti, immagini o altro materiale". La normativa italiana fa esclusivo riferimento alla divulgazione di idee.

L'art. 1 par. 1 lett. c) impone a ciascuno Stato membro di adottare le misure necessarie affinché sia resa punibile "l'apologia, la negazione o la minimizzazione grossolana dei crimini di genocidio, dei crimini contro l'umanità e dei crimini di guerra, quali definiti agli articoli 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale, dirette pubblicamente contro un gruppo di persone, o un membro di tale gruppo, definito in riferimento alla razza, al colore, alla religione, all'ascendenza o all'origine nazionale o etnica, quando i comportamenti siano posti in essere in modo atto a istigare alla violenza o all'odio nei confronti di tale gruppo o di un suo membro". Due lacune sono individuate nella normativa italiana in riferimento a questa disposizione: nel nostro Paese è punita solo l'apologia (non la negazione e la minimizzazione grossolana) e, inoltre, non è richiesto che questa condotta sia posta in essere "in modo atto a istigare alla violenza o all'odio".

L'art. 1 par. 1 lett. d), infine, impone a ciascuno Stato membro di adottare le misure necessarie affinché sia resa punibile "l'apologia, la negazione o la minimizzazione grossolana dei crimini definiti all'articolo 6 dello statuto del Tribunale militare internazionale, allegato all'accordo di Londra dell'8 agosto 1945, dirette pubblicamente contro un gruppo di persone, o un membro di tale gruppo, definito in riferimento alla razza, al colore, alla religione, all'ascendenza o all'origine nazionale o etnica, quando i comportamenti siano posti in essere in modo atto a istigare alla violenza o all'odio nei confronti di tale gruppo o di un suo membro". Questa disposizione - che si riferisce all'apologia, negazione o minimizzazione grossolana dei crimini contro la pace, dei crimini di guerra e dei crimini contro l'umanità commessi dai principali criminali di guerra delle potenze europee dell'Asse - non trova alcun riscontro nella normativa italiana.

 

3. L'art. 2 impone di punire le condotte di istigazione e complicità nei reati di cui all'art. 1. Praticamente nessuno Stato europeo ha dedicato specifiche norme incriminatrici alle condotte di istigazione e complicità nei reati di cui all'art. 1, limitandosi a fare affidamento sulle corrispondenti norme di parte generale, che si applicano peraltro pacificamente anche alle condotte di cui all'art. 1, in quanto specificamente incriminate.

 

4. Correttamente adempiuta è la trasposizione dell'art. 4, il quale dispone che "per i reati diversi da quelli di cui agli articoli 1 e 2, gli Stati membri adottano le misure necessarie affinché la motivazione razzista e xenofoba sia considerata una circostanza aggravante o, in alternativa, affinché tale motivazione possa essere presa in considerazione dal giudice all'atto della determinazione della pena". Il nostro Paese ha infatti introdotto tale circostanza aggravante, valida, tra l'altro, per qualsiasi tipologia di reati.

 

5. Insufficiente risulta invece secondo la Commissione l'attuazione degli artt. 5 e 6, i quali fanno riferimento alla responsabilità delle persone giuridiche per i reati commessi dai soggetti ricoprenti una posizione direttiva (oppure perpetrati a causa di una omessa vigilanza) al loro interno, oltre che alle corrispondenti sanzioni (che devono essere - anche se non necessariamente di natura penale - efficaci, proporzionate e dissuasive).

 

6. Infine, l'art. 9 dispone che "ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie per stabilire la propria competenza giurisdizionale in relazione ai comportamenti di cui agli articoli 1 e 2 qualora essi siano stati posti in essere: a) interamente o in parte sul suo territorio; o b) da uno dei suoi cittadini; o c) a vantaggio di una persona giuridica avente la sede sociale sul suo territorio". Nella nostra normativa, se risulta soddisfatto il requisito di cui alla lettera a), altrettanto non può dirsi, con riferimento a questa tipologia di reati, per quello di cui alla lettera b). Allo stesso modo, la Commissione non ha ritenuto convincenti le informazioni messe a sua disposizione in relazione all'attuazione del requisito di cui alla lettera c).

 

7. In conclusione, i principali problemi che riguardano la normativa italiana - e che potrebbero, in parte, essere superati dal nuovo ddl. S. 54-A, attualmente all'esame del Senato (per consultare la scheda relativa al ddl, clicca qui) - si riferiscono all'incriminazione - oltre che dell'apologia - della negazione e della minimizzazione grossolana dei crimini di genocidio, crimini contro l'umanità e crimini di guerra. Allo stesso modo, deficitaria risulta l'attuazione della direttiva in relazione alla responsabilità e alle sanzioni delle persone giuridiche.

Si tratta, del resto, di difetti comuni a buona parte degli altri Stati membri, così come risulta chiaramente dalle conclusioni cui è giunta la Commissione: "A quanto consta attualmente, diversi Stati membri non hanno recepito in pieno o correttamente tutte le disposizioni della decisione quadro, in particolare quelle sui reati di negazione, apologia o minimizzazione grossolana di determinati crimini. Le disposizioni sull'istigazione all'odio o alla violenza di stampo razzista e xenofoba vigenti nella maggior parte degli Stati membri non sempre inglobano pienamente i reati previsti dalla decisione quadro. Si riscontrano inoltre alcune lacune anche per quanto riguarda la motivazione razzista e xenofoba dei reati, la responsabilità delle persone giuridiche e la giurisdizione".