ISSN 2039-1676


07 gennaio 2014 |

La Corte europea dei diritti dell'uomo si pronuncia sul problematico bilanciamento tra il diritto alla libertà  di espressione e l'esigenza di reprimere il negazionismo del genocidio armeno

Corte eur. dir. uomo, Seconda sezione, sent. 17 dicembre 2013, Perinçek c. Svizzera, ric. n. 27510/08

 

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1. Con la sentenza Perinçek c. Svizzera, la Seconda sezione della Corte europea dei diritti dell'uomo torna ad occuparsi del problematico bilanciamento tra il diritto alla libertà di espressione e l'esigenza di reprimere il negazionismo di crimini di genocidio, in riferimento, in particolare, alle atrocità commesse dall'Impero ottomano ai danni del popolo armeno a partire dal 1915. In questa pronuncia, il giudice di Strasburgo ritiene che la condanna del ricorrente fondata sulla norma incriminatrice elvetica che punisce chi pubblicamente neghi, minimizzi grossolanamente o cerchi di giustificare un genocidio o altri crimini contro l'umanità, violi l'art. 10 Cedu, in quanto tale limitazione alla libertà di espressione non risulta "necessaria in una società democratica". La sentenza Perinçek c. Svizzera risulta allora di particolare interesse, in quanto la soluzione accolta si discosta da quella sviluppata nella decisione Garaudy c. Francia del 2003, nella quale la Corte europea - dichiarando irricevibile il ricorso per violazione dell'art. 17 Cedu - aveva affermato la legittimità dell'incriminazione della negazione dell'olocausto del popolo ebraico.

 

2. Non solo. Questa pronuncia è degna di considerazione anche perché si inserisce in un vivace dibattito che si sta sviluppando in questi mesi intorno all'opportunità di introdurre nel nostro ordinamento - in attuazione della decisione quadro dell'Unione europea 2008/913/GAI - una norma incriminatrice che reprima i fenomeni di negazionismo. Come noto, è attualmente all'esame del Senato un ddl di riforma che interviene, in particolare, sull'art. 414 c.p. (per accedere alla nostra scheda sul disegno di legge S. 54-A, clicca qui). La sentenza Perinçek c. Svizzera risulta dunque di particolare interesse, non solo perché affronta il difficile problema del contemperamento fra le contrapposte esigenze di tutelare la libertà di espressione e di sanzionare i comportamenti negazionisti, ma anche perché enuclea le principali fonti internazionali in materia e, soprattutto, perché sintetizza, in una prospettiva comparatistica, le soluzioni al problema adottate in vari Stati europei e nordamericani.

 

3. Procediamo però con ordine. Il ricorrente è un uomo politico turco, laureato in giurisprudenza, che - partecipando ad alcune conferenze in Svizzera - nega pubblicamente che il massacro e le deportazioni del popolo armeno, compiute dall'Impero ottomano a partire dal 1915, costituiscano un genocidio. In particolare, pur riconoscendo l'effettiva esistenza storica di questi avvenimenti, il signor Perinçek si scaglia contro la loro qualificazione come "genocidio", definita una "menzogna internazionale". Ovviamente, a queste dichiarazioni segue una denuncia da parte dell'associazione "Svizzera-Armenia". Si instaura così un procedimento penale a carico del ricorrente, che si conclude con una condanna definitiva ai sensi dell'art. 261-bis co. 4 del codice penale svizzero, il quale punisce "celui qui (...) publiquement (...) niera, minimisera grossièrement ou cherchera à justifier un génocide ou d'autres crimes contre l'humanité", per ragioni di discriminazione razziale, etnica o religiosa. Le autorità elvetiche giustificano la loro decisione sulla base del fatto che il genocidio armeno è un fatto storico riconosciuto come realmente accaduto, tanto dalla legislazione svizzera quanto dall'opinione pubblica nel suo complesso, al momento dell'entrata in vigore - oltre che dell'art. 264 c.p., che punisce e definisce il genocidio tout court - del ricordato art. 261-bis co. 4 c.p.. Il ricorrente, cui viene irrogata una sanzione pecuniaria, sostiene che questa decisione dei giudici svizzeri non abbia tenuto in adeguata considerazione il diritto alla libertà di espressione e, per tale motivo, ricorre alla Corte europea, lamentando la violazione dell'art. 10 Cedu.

 

4. Prima di procedere ad analizzare il merito della questione, la Corte europea enuclea i principali atti internazionali in materia di genocidio e negazionismo. Il lettore che desideri approfondire queste tematiche potrà facilmente consultare tali atti cliccando sui seguenti links:

Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio del 9 dicembre 1948 (artt. 1, 2, 3 e 5);

Statuto del Tribunale militare internazionale, annesso all'Accordo di Londra dell'8 agosto 1945 (art. 6 lett. c));

Statuto di Roma della Corte penale internazionale, adottato il 17 luglio 1998 (artt. 5, 6, 7 e 8);

Convenzione internazionale delle Nazioni Unite sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione raziale, adottata a New York il 21 dicembre 1965 (artt. 2 e 3);

Patto internazionale delle Nazioni Unite relativo ai diritti civili e politici, adottato a New York il 16 dicembre 1966 (artt. 19 e 20);

Osservazione generale n. 34 del Comitato dei Diritti dell'Uomo dell'ONU, relativa all'art. 19 del Patto internazionale delle Nazioni Unite relativo ai diritti civili e politici, adottata a Ginevra   nel 2011, durante la 102esima sessione del Comitato (parr. 9, 10, 11, 28 e, soprattutto, 49);

Raccomandazione 97/20 del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa sul "Discorso d'odio", adottata il 30 ottobre 1997;

Dichiarazione del 24 aprile 2013 (n° 542, Doc. 13192), con la quale una ventina di membri dell'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa riconoscono il genocidio armeno;

 

5. La Corte europea si preoccupa anche di fornire un sintetico quadro sul livello di repressione del negazionismo dei crimini contro l'umanità - ed in particolare del genocidio - in diversi Stati europei e nordamericani. Il quadro che ne emerge è piuttosto variegato.

In alcuni contesti il negazionismo o non è punito, o non è in nessun modo contemplato dal diritto nazionale, come avviene in Finlandia, Regno Unito ed Irlanda.

Nella maggior parte dei casi invece, pur con le peculiarità che contraddistinguono ogni ordinamento, il diritto nazionale non reprime direttamente i fatti di negazionismo, ma è lasciata all'interprete la possibilità (talvolta particolarmente problematica) di ricondurre queste fattispecie a norme incriminatrici più generali: così avviene, ad esempio, nei Paesi Bassi, Canada, Stati Uniti, Italia, Norvegia, Danimarca e Svezia.

La Germania, l'Austria ed il Belgio sanzionano esplicitamente i fatti di negazionismo che hanno per oggetto i soli crimini commessi durante la seconda guerra mondiale.

La Francia - che pur ha formalmente riconosciuto il genocidio armeno con la legge n. 70 del 29 gennaio 2001 - ha recentemente visto dichiarare l'illegittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge n. 647 del 23 gennaio 2012, i quali esplicitamente reprimevano la pubblica apologia, negazione o grossolana minimizzazione dei crimini di genocidio, dei crimini contro l'umanità e dei crimini di guerra (per visualizzare la sentenza del Conseil Constitutionnel n. 647 del 28 febbraio 20012, con un commento, clicca qui).

Particolarmente interessante è il caso della Spagna. Prima della pronuncia n. 235 del 7 novembre 2007 da parte del Tribunal Constitucional, in Spagna erano puniti sia il negazionismo che la giustificazione dei fenomeni di genocidio. Il Tribunal Constitucional ha ora espunto la mera "negazione" - da intendersi come semplice espressione di un punto di vista su certi fatti, che può concretizzarsi nell'affermazione che essi non hanno avuto luogo o che, pur avendo avuto luogo, non possono comunque essere qualificati come "genocidio" - dal novero delle condotte penalmente rilevanti. Tra queste rimane invece la "giustificazione" dei crimini di genocidio, che deve essere intesa non come negazione assoluta di tali crimini, ma come loro minimizzazione, relativizzazione o, addirittura, come negazione della loro illegalità (per visualizzare la sentenza del Tribunal Constitucional, clicca qui).

Infine, eccezion fatta per la Svizzera, l'unico Paese europeo - tra quelli considerati dalla Corte - che dispone di una vera e propria norma incriminatrice generale dei fenomeni di negazionismo dei fatti di genocidio, non limitata solo ai crimini compiuti durante la seconda guerra mondiale, è il Lussemburgo.

 

6. Svolta questa ricostruzione, la Corte europea - prima di passare ad esaminare il cuore della questione a lei sottoposta relativa alla lamenta violazione dell'art. 10 Cedu - si domanda se la condotta del ricorrente possa aver integrato un abuso del diritto che, ai sensi dell'art. 17 Cedu, potrebbe far dichiarare irricevibile il ricorso. In altri termini, poiché l'art. 17 Cedu statuisce che nessuna disposizione della Convenzione possa essere interpretata come contenente per un individuo un diritto a compiere un atto che miri a sospendere o limitare gli altri diritti riconosciuti dalla Convenzione stessa, il giudice di Strasburgo si chiede se i discorsi pronunciati dal ricorrente - chiaramente provocatori - possano costituire un abuso del diritto alla libertà di espressione e, dunque, in forza dell'art. 17 Cedu, essere sottratti alla protezione garantita dall'art. 10 Cedu.

La Corte europea ritiene il ricorso ricevibile. L'art. 10 Cedu, infatti, protegge anche (e soprattutto) la possibilità di manifestare liberamente le idee che colpiscano o siano sgradite alla maggior parte dell'opinione pubblica. Il ricorrente, nel caso di specie, non solo si è limitato a contestare unicamente la qualificazione giuridica dei crimini commessi dall'Impero ottomano - senza negare che essi siano realmente stati compiuti -, ma ha pronunciato discorsi che non erano né diretti, né idonei ad incitare all'odio nei confronti del popolo armeno, verso il quale, tra l'altro, il ricorrente non ha mai manifestato il proprio disprezzo (circostanza, quest'ultima, che ha consentito alla Corte europea di discostarsi dalla ricordata decisione Garaudy c. Francia, nella quale l'opera contestata al ricorrente era ricca di contenuti razzisti, non realmente finalizzati alla contribuzione del pubblico dibattito sulla Shoah). Basandosi su queste riflessioni, il giudice di Strasburgo ritiene che il ricorrente non abbia abusato del suo diritto a dibattere apertamente di qualsivoglia questione, anche se particolarmente delicata. Ed anzi, proprio il libero esercizio di questo diritto consente di distinguere una società democratica, tollerante e pluralista, da un regime totalitario o dittatoriale.

 

7. Proprio queste considerazioni costituiscono la base su cui si sviluppa il ragionamento della Corte europea in riferimento alla lamentata violazione dell'art. 10 Cedu. Tale norma, lo si ricorda, è suddivisa in due paragrafi: il primo sancisce il diritto alla libertà di espressione, mentre il secondo ne disciplina le eccezioni. In particolare, il diritto alla libertà di espressione può essere limitato solo qualora siano contemporaneamente soddisfatti i seguenti tre requisiti: a) la limitazione deve essere espressamente prevista dalla legge; b) la limitazione deve essere finalizzata a perseguire uno o più degli scopi indicati dall'art. 10 Cedu (sicurezza nazionale, integrità territoriale o sicurezza pubblica, difesa dell'ordine e prevenzione dei delitti, protezione della salute o della morale, protezione della reputazione o dei diritti di altri, impedimento della diffusione di informazioni riservate, garanzia della autorità ed imparzialità del potere giudiziario); c) la limitazione deve essere "necessaria in una società democratica". Nella sentenza in esame, la Corte europea analizza singolarmente la sussistenza di ognuno di questi requisiti.

 

8. Innanzitutto, il giudice di Strasburgo evidenzia come solamente una norma conoscibile e con effetti prevedibili possa soddisfare il disposto dell'art. 10 par. 2 Cedu, il quale richiede, come appena visto, che la limitazione alla libertà di espressione debba essere "prevista dalla legge". Presupposto necessario della prevedibilità degli effetti giuridici di una norma è poi la precisione del suo contenuto precettivo e sanzionatorio. Ora, se nel caso di specie non sussistono dubbi in merito alla conoscibilità della norma incriminatrice svizzera, qualche perplessità in più - evidenziata anche dai giudici Raimondi e Sajó nella loro opinione concordante - suscita l'effettiva precisione del contenuto della disposizione che, riferendosi genericamente a "un" genocidio e a "d'autres" crimini contro l'umanità, potrebbe, secondo la Corte europea, apparire eccessivamente vaga. In realtà, nonostante quest'ultima considerazione, il requisito della "previsione legale" viene ritenuto integrato, soprattutto a causa della particolare conoscenza della normativa elvetica posseduta - per sua stessa ammissione - dal ricorrente, laureato tra l'altro in giurisprudenza.

 

9. Nessun problema pone il secondo requisito. Il giudice di Strasburgo, infatti, sottolinea come la limitazione alla libertà di espressione sia nel caso di specie finalizzata a proteggere i "diritti di altri" di cui al secondo paragrafo dell'art. 10 Cedu ed, in particolare, l'onore delle famiglie delle vittime delle atrocità commesse dall'Impero ottomano. Viene invece respinta la tesi sostenuta dal Governo svizzero, in base alla quale la sanzione dei discorsi pronunciati dal ricorrente sarebbe anche giustificata da esigenze di tutela dell'ordine pubblico.

 

10. Ritenuti così integrati i primi due requisiti contemplati dall'art. 10 par. 2 Cedu, l'attenzione della Corte europea non può che concentrarsi sulla valutazione dell'esistenza dell'ultimo presupposto giustificante la limitazione alla libertà di espressione: la necessarietà di tale limitazione in una società democratica. Per svolgere questa indagine, il Giudice di Strasburgo cerca di bilanciare, da un lato, le esigenze di protezione dei terzi (e, dunque, le esigenze di protezione dell'onore delle famiglie delle vittime) e, dall'altro, la libertà di espressione del ricorrente. La Corte europea fonda la sua conclusione su una serie di argomentazioni che si vanno di seguito a riassumere:

- i discorsi del ricorrente - di natura storica, giuridica e politica ed incentrati su un tema "caldo" quale quello della qualificazione come "genocidio" delle atrocità commesse dall'Impero ottomano ai danni del popolo armeno - rivestono sicuramente un notevole interesse pubblico e, per tale motivo, implicano che il margine di valutazione delle autorità nazionali in materia sia ridotto;

- contrariamente a quanto sostenuto dalle autorità svizzere, difficilmente può ravvisarsi un "consenso generale" - soprattutto all'interno della comunità scientifica - in riferimento alla qualificazione giuridica di "genocidio" - la sola, lo si ricorda, contestata dal ricorrente, il quale non ha mai posto in dubbio l'effettiva verificazione delle stragi e delle deportazioni subite dal popolo armeno - dei fatti avvenuti a partire dal 1915 (ciò è tra l'altro testimoniato dalla circostanza che solamente una ventina di Stati hanno ufficialmente riconosciuto il genocidio armeno; tale problematica è ben riassunta nella opinione parzialmente dissenziente dei giudici Vučinić e Pinto de Albuquerque);

- i discorsi del ricorrente - a differenza di quelli volti a negare l'Olocausto, intrisi di antisemitismo e, cioè, di una tendenza razzista ancora oggi esistente - devono essere considerati come non idonei ad incitare all'odio o alla violenza. Inoltre, in una prospettiva comparatistica, la Corte europea evidenzia come - dopo i recenti, ricordati, interventi di modifica subiti dalle normative spagnola e francese - il solo Stato europeo (fra quelli considerati) che preveda una specifica norma incriminatrice del genocidio, non limitata a quello posto in essere dal regime nazista, sia il Lussemburgo. Il caso francese ben evidenzia come non sussista un rapporto di contraddizione tra il riconoscimento statale di eventi quali il genocidio armeno - avvenuto con la legge n. 70 del 29 gennaio 2001 - e l'incostituzionalità di sanzioni penali che puniscano quei soggetti che pongano in dubbio la versione ufficiale fatta propria dallo Stato, posto che uno degli scopi principali delle norme costituzionali a tutela della libertà di espressione è proprio quello di proteggere le opinioni minoritarie, suscettibili di animare il dibattito su questioni di interesse generale non ancora interamente definite. Inoltre, il Comitato dei Diritti dell'Uomo dell'Onu, nella citata osservazione generale n. 34 relativa all'art. 19 del Patto internazionale dei diritti civili e politici, ha evidenziato come le "laws that penalize the expression of opinions about historical facts are incompatible with the obligations that the Covenant imposes on States parties in relation to the respect for freedom of opinion and expression. The Covenant does not permit general prohibition of expressions of an erroneous opinion or an incorrect interpretation of past events". Sulla base di queste considerazioni, la Corte europea ritiene che la limitazione alla libertà di espressione del ricorrente non sia giustificata da un "bisogno sociale imperioso" tale da ritenerla necessaria in una società democratica;

- la limitazione del diritto del ricorrente è comunque sproporzionata rispetto al (legittimo) scopo di tutela dell'onore dei familiari delle vittime perseguito attraverso di essa. Infatti, la sanzione pecuniaria comminata dalla norma incriminatrice svizzera - pur se di severità relativa - potrebbe essere comunque idonea a dissuadere il condannato dal contribuire alla discussione pubblica su tematiche di interesse generale, quale è, appunto, quella relativa al genocidio armeno.

Sulla base di queste riflessioni, dunque, la Corte europea ritiene che la limitazione alla libertà di espressione posta in essere dalle autorità svizzere non sia "necessaria in una società democratica" e violi, pertanto, l'art. 10 Cedu.

 

11. I giudici Raimondi e Sajó hanno depositato un'articolata opinione concorrente, nella quale insistono sul principio secondo cui la verità sugli eventi del passato non può emergere né dal diritto, né dai tribunali, ma solamente dalla libera ricerca di storici e studiosi.

 

12. La conclusione della maggioranza non è tuttavia condivisa dai giudici Vučinić e Pinto de Albuquerque, che hanno depositato un'opinione parzialmente dissenziente. I due giudici ritengono in effetti che lo Stato elvetico, condannando il ricorrente, non abbia violato l'art. 10 Cedu, ed auspicano un riesame della questione da parte della Grande Camera.

I giudici dissenzienti sottolineano anzitutto l'ampiezza, a livello internazionale, del riconoscimento del genocidio del popolo armeno. Poco dopo i tragici avvenimenti, infatti, lo Stato turco già si era impugnato a punire i responsabili. Il genocidio armeno, inoltre, è stato ufficialmente riconosciuto - oltre che da varie organizzazioni internazionali, tra le quali la stessa Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa ed il Parlamento europeo - da Argentina, Belgio, Canada, Cile, Cipro, Città del Vaticano, Francia, Germania, Grecia, Libano, Lituania, Paesi Bassi, Polonia, Russia, Slovacchia, Stati Uniti d'America, Svezia, Uruguay, Venezuela, oltre che da alcune nazioni costitutive del Regno Unito (Galles, Irlanda del Nord e Scozia) e da alcune comunità autonome della Spagna (Paesi Baschi, Catalogna, Isole Baleari), oltre che dalla stessa Svizzera e dall'Italia (per consultare la risoluzione del 17 novembre 2000 con la quale la Camera dei deputati ha ufficialmente riconosciuto il genocidio armeno, clicca qui).

Proprio la generalità del riconoscimento giuridico delle atrocità commesse dall'Impero ottomano consente ai due giudici dissenzienti di ritenere sufficientemente precisa la norma incriminatrice elvetica: poiché la Svizzera ha ufficialmente riconosciuto il genocidio armeno, l'art. 261-bis co. 4 c.p. (che fa riferimento a "un génocide") non può che fare riferimento, appunto, anche al genocidio armeno.

L'incriminazione del negazionismo del genocidio armeno, oltre che precisa, viene considerata anche necessaria e proporzionata. Infatti, la Convenzione europea dei diritti dell'uomo impone agli Stati membri di vietare il razzismo in ogni sua forma, fra le quali può essere annoverata anche la negazione dei fatti di genocidio, come si legge nell'art. 6 del Protocollo addizionale alla Convenzione sulla Cibercriminalità del 28 gennaio 2003, oltre che - in riferimento all'Unione europea - nella citata decisione quadro 2008/913/GAI. Del resto, l'incriminazione del genocidio corrisponde ad una politica necessaria per gli Stati, in virtù dell'obbligo di prevenire e punire questo fenomeno imposto dall'art. 1 della ricordata Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio del 1948 e ribadito dalla risoluzione dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 26 gennaio 2007, che richiede a tutti gli Stati membri di "rejeter sans réserve tout déni de l'Holocauste en tant qu'événement historique, que ce déni soit total ou partiel, ou toute activité menée en ce sens".

Altrettanto netti i due giudici sul dovere, a carico degli Stati, di non differenziare la posizione del popolo armeno (così come quella delle vittime di ogni crimine riconosciuto come genocidio) da quella del popolo ebraico. Poiché nella decisione Garaudy c. Francia - nella quale, lo si ricorda, è stata affermata la legittimità dell'incriminazione della negazione della Shoah - si legge che "la contestation de crimes contre l'humanité apparaît comme l'une des formes les plus aiguës de diffamation raciale envers les Juifs et d'incitation à la haine à leur égard. La négation ou la révision de faits historiques de ce type remettent en cause les valeurs qui fondent la lutte contre le racisme et l'antisémitisme et sont de nature à troubler gravement l'ordre public. Portant atteinte aux droits d'autrui, de tels actes sont incompatibles avec la démocratie et les droits de l'homme", i due giudici dissenzienti rilevano come una simile considerazione non possa non valere anche per le atrocità commesse ai danni degli armeni, i quali - come gli ebrei - costituiscono una minoranza vulnerabile in alcuni Paesi che, in quanto tale, deve poter beneficiare di una speciale protezione, eventualmente anche di natura penale. Insomma, per questi giudici "les souffrances subies par un Arménien du fait de la politique génocidaire de l'Empire Ottoman ne valent pas moins que celles d'un Juif sous la politique génocidaire nazie. Et la négation du Hayots Tseghaspanutyun (Հայոց Õ‘Õ¥Õ²Õ¡Õ½ÕºÕ¡Õ¶Õ¸Ö‚Õ©Õ«Ö‚Õ¶) ou Meds Yeghern (Õ„Õ¥Õ® ÔµÕ²Õ¥Õ¼Õ¶) n'est pas moins dangereuse que la négation de la Shoah".

Infine, un ultimo accenno merita anche la critica mossa dai giudici dissenzienti - oltre che alla citata sentenza n. 647 del 28 febbraio 2012 del Conseil Constitutionnel francese, in relazione alla natura giuridica ed agli effetti delle lois mémorielles, finalizzate a commemorare e riconoscere un evento storico particolarmente drammatico - alla ricordata sentenza n. 235 del 2007 del Tribunal Constitucional spagnolo ed, in particolare, alla distinzione fra la negazione del genocidio (legittima) e la sua giustificazione (illegittima). Tale differenziazione risulta inammissibile, sia alla luce della citata normativa internazionale, sia, soprattutto, da un punto di vista etico, poiché tanto la negazione quanto la giustificazione di un genocidio umiliano ed offendono la memoria delle vittime e delle loro famiglie, deresponsabilizzano gli autori dei massacri ed incitano all'odio ed alla discriminazione.