9 aprile 2019 |
Colpa medica e legge Gelli-Bianco: una prima applicazione giurisprudenziale dell'art. 590-sexies, co. 2, c.p.
Trib. Parma, sent. 18 dicembre 2018 (dep. 4 marzo 2019), n. 1584, Giud. Agostini
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1. La sentenza che si annota rappresenta uno dei primissimi casi[1] di applicazione della controversa disciplina di esclusione della responsabilità penale prevista dall’art. 590-sexies, 2° c., c.p. (introdotto dall’art. 6 della l. 8 marzo 2017, n. 24, la nota riforma “Gelli-Bianco”): «Qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto»[2].
La decisione è del Tribunale di Parma in composizione monocratica, che ha assolto un medico di Pronto Soccorso che non era pervenuto tempestivamente alla diagnosi di un ictus ischemico che aveva colpito una donna, la quale, proprio per effetto di tale patologia, ha riportato danni permanenti e molto significativi indicati nel capo di imputazione per lesioni personali colpose gravissime: «inservibile l’arto superiore destro e gravemente deficitaria la postura e la deambulazione […] grave forma di afasia che ostacola notevolmente l’espressione verbale con elevatissima probabilità di una permanente e grave difficoltà della favella».
2. Una breve descrizione dei fatti (basandosi sulle pp. 4-8) è indispensabile per poi poter prendere in considerazione con maggior consapevolezza il ragionamento giuridico che ha condotto all’applicazione dell’art. 590-sexies, 2° c., c.p.
Nel marzo del 2011, una donna di ventotto anni si trovava in un bar per fare colazione quando all’improvviso svenne e, chiamati i soccorsi, fu portata in autoambulanza al Pronto Soccorso dell’Ospedale Maggiore di Parma, dove arrivò circa 45 minuti dopo la sincope. Lì, l’infermiera in servizio al Triage prese subito in carico la paziente, raccogliendo dalla stessa alcune informazioni sull’accaduto e sulle sue condizioni di salute generali e specifiche di quel momento, dalle quali emerse, tra l’altro, una ipostenia marcata dell’arto superiore destro. Fu ritenuta opportuna l’assegnazione alla paziente di un codice giallo, che le consentì di essere visitata dall’imputato, in qualità di medico di Pronto Soccorso, dopo pochi minuti di attesa. L’imputato proseguì l’anamnesi già iniziata in fase di “accettazione” e dispose, tra l’altro, una TAC all’encefalo, all’esito della quale non si palesò però alcuna particolare anomalia. Ciò nonostante, fu deciso dallo stesso medico di attivare una consulenza neurologica. La visita neurologica avvenne nel primo pomeriggio (a poco meno di 5 ore dall’episodio sincopale), quando la specialista, prendendo visione della TAC del mattino e valutando l’evoluzione dei sintomi della paziente (che era vigile e poté quindi comunicare), non percepì concreti segnali d’allarme rispetto alla presenza della patologia ischemica che invece era in corso, orientandosi piuttosto verso l’ipotesi di una semplice indigestione, disponendo comunque accertamenti volti ad escludere la presenza di sclerosi multipla o dell’origine cardiaca della sincope. La paziente fece ritorno in Pronto Soccorso, dove l’imputato fu sostituito nel turno da un altro medico, il quale pure non collegò la sincope alla patologia ischemica. Prima del ricovero a fini di osservazione presso il reparto di Medicina Generale, che avvenne in serata, in ospedale si recò anche l’endocrinologo che seguiva la donna per problemi di tiroide e anch’egli, di fatto, contribuì a sviare l’attenzione dalla reale problematica in corso, confrontandosi con la neurologa e suggerendole che la sintomatologia potesse essere ricondotta ad un farmaco che la ragazza assumeva per il suo problema metabolico. I medici che ebbero in carico la paziente nelle ore serali, non avendo le idee chiare sulla causa delle sue condizioni, disposero verso mezzanotte una TAC dalla quale il quadro risultò finalmente più eloquente, riscontrandosi l’occlusione della carotide interna sinistra che determinò l’ischemia cerebrale. La donna entrò in coma il mattino successivo mentre si stava sottoponendo ad una ulteriore TAC e fu portata al reparto di Rianimazione, dove rimase per 20 giorni, per poi essere trasferita in neurochirurgia e dopo circa una ulteriore settimana raggiunse un padiglione dove si dedicò ad attività riabilitative per alcuni mesi, comunque non in grado di scongiurare un calvario destinato a durare per il resto della vita.
3. Rivolgendo lo sguardo al piano dell’inquadramento giuridico della vicenda, va subito detto che ci si trova di fronte ad una sentenza particolarmente accurata nell’analisi del caso e ordinata nel soddisfare l’obbligo motivazionale, presentando una struttura divisa in paragrafi con relativa intitolazione e riferimenti dettagliati a piè di pagina. Le analogie con lo stile dottrinale non si limitano a questi ultimi aspetti di carattere formale, perché, andando ai contenuti, è possibile rinvenire l’impiego di una sistematica aggiornata della responsabilità penale colposa, con riferimenti, ad esempio, alla necessità:
- di assumere una prospettiva ex ante, sviluppando un giudizio di prognosi postuma (pp. 8-9 e 27);
- di individuare la regola cautelare secondo il parametro dell’agente modello (p. 27);
- di comprendere lo scopo della regola cautelare violata e verificare se l’evento concreto rientri nel suo fuoco preventivo (p. 28);
- di accertare la c.d. causalità della colpa, consistente nell’efficacia del comportamento conforme a cautela non osservato (in questo caso sono anche stati opportunamente colti i profili di sovrapposizione strutturale di questo giudizio con quello di accertamento della causalità, stante la natura omissiva della responsabilità) (p. 28);
- di non trascurare la misura soggettiva della colpa (p. 28).
Si tratta, dunque, di una sentenza, che, a prescindere dalla condivisibilità delle conclusioni, mostra di parlare lo stesso linguaggio della dottrina, alla quale, pur non potendo fare riferimento tramite citazioni esplicite, allude comunque in più passaggi cercando conforto per le proprie argomentazioni. È forse superfluo sottolineare come questo aspetto sia importante al fine di sviluppare un dialogo reale e proficuo tra diverse categorie di interpreti del diritto, peraltro in un settore nel quale l’oscurità del dato legislativo – considerando anche la disciplina penale della riforma “Balduzzi” del 2012 – non ha certo posto una premessa a ciò favorevole, finendo anzi per dividere internamente sia dottrina che giurisprudenza, come è noto.
4. Il caso risulta attratto nell’ambito applicativo dell’art. 590-sexies, 2° c., c.p. perché la correttezza del comportamento del medico di Pronto Soccorso è stata misurata alla luce di un documento adottato dall’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Parma nel luglio del 2009: il «Percorso trombolisi E.V.», di cui la sentenza passa in rassegna i vari passaggi, particolarmente concatenati e richiedenti, in caso di progressiva conferma dei sintomi ischemici, il coinvolgimento di diversi sanitari – è peraltro disciplinato anche ciò che dovrebbe fare già l’equipaggio dell’autoambulanza – e, in termini di contrasto diretto della patologia, la somministrazione di un farmaco trombolitico entro le 3 ore dai primi sintomi (pp. 12-13).
Secondo il Giudice (in particolare, pp. 16, 25-26 e 30), che aderisce ampiamente alla lettura del consulente tecnico del Pubblico Ministero (pp. 14-16), l’imputato avrebbe violato una regola di cautela – inosservanza a cui vengono attribuite sicure implicazioni causali in concreto: su questo si tornerà però più avanti con brevi considerazioni problematiche (§ 11) – nel non attenersi alla perfezione a tale iter diagnostico-trattamentale, la cui opportunità sarebbe stata indiziata dal sintomo percepito e verbalizzato dallo stesso medico nel referto di Pronto Soccorso: «deficit di forza arto superiore destro» (p. 5). Tale sintomo avrebbe dovuto indurre ad indagare più esplicitamente l’ictus ischemico, collocandolo e comunque mantenendolo in diagnosi differenziale.
Potrebbe sorgere il dubbio che, a prescindere dalla riconducibilità alle linea guida oppure alle buone pratiche del «Percorso trombolisi E.V.», quest’ultimo non possa affatto ritenersi rispettato, mettendo così “fuori gioco” l’applicazione dell’art. 590-sexies, 2° c., c.p. Di diverso avviso è però il Giudice, che ritiene soddisfatti anche tutti gli altri requisiti della disciplina penale introdotta con la riforma “Gelli-Bianco” del 2017. È quindi opportuno passare a prendere in considerazione, per punti, le argomentazioni su ciascuno di tali requisiti.
5. Partendo proprio dal requisito del rispetto del documento assunto come punto di riferimento, va notato che il Giudice sviluppa considerazioni volte ad evidenziare sì l’errore consistente nel non aver immediatamente attivato in modo esplicito e con assoluta fedeltà il «Percorso trombolisi E.V.» (che avrebbe consentito – viene detto in più punti della sentenza – di incidere sull’evento concreto), ma, allo stesso tempo, un approccio diagnostico del medico a ben vedere non così distante da quello indicato dalla stessa fonte comportamentale “codificata”. Alcune prescrizioni vennero effettivamente assecondate, mentre altre no: in particolare, furono svolti, come prescritto, un elettrocardiogramma urgente a dodici derivazioni, esami del sangue nonché controlli della glicemia e dei parametri vitali; fu pure disposta una TAC all’encefalo, ancorché non contestualmente alla convocazione del neurologo di guardia per ottenere una consulenza entro venticinque minuti, come invece doveroso (p. 13).
Si legge inoltre – ed è un profilo a cui viene attribuito speciale peso – che è plausibile che l’imputato «abbia effettivamente scartato l’ipotesi diagnostica corretta seguendo i criteri di esclusione dettati dal “Percorso trombolisi E.V.”, che verosimilmente aveva introiettato nel corso della sua lunga carriera di medico di Pronto Soccorso» (p. 25). Poiché il documento è del 2009 e i fatti sono accaduti a soli due anni di distanza, l’esperienza pluriennale a cui il Giudice allude è evidentemente legata a pratiche corrispondenti che erano diffuse già da tempo e che indiziano anche l’adeguatezza dal punto di vista scientifico (almeno in astratto; sull’adeguatezza in concreto si arriverà a breve: § 6) quantomeno di buona parte dei passaggi poi “codificati”.
La sentenza considera anche che, da alcuni dettagli della refertazione dello stesso imputato (che dà conto di assenza di problemi analoghi nell’arto inferiore omolaterale o di asimmetrie funzionali del volto), si evincerebbe che la vera causa della sintomatologia della paziente era stata ipotizzata per un momento ma poi esclusa (pp. 25-26). In questo il Giudice, nonostante l’errore, vede un approccio metodologico allineato a ciò che anche la fonte comportamentale ufficialmente adottata suggeriva di valutare: «tale errore diagnostico fu verosimilmente dovuto all’applicazione dei criteri di esclusione del “Percorso trombolisi E.V.”» (p. 26), cioè un elenco di cause ostative al proseguimento del percorso stesso (riportate nel dettaglio a p. 14).
Nella medesima direzione, ancorché in chiave comprensibilmente più favorevole all’imputato, il consulente tecnico di questo ha persino ritenuto che, siccome il medico riscontrò «anamnesticamente un miglioramento della paresi» e soprattutto «un deficit neurologico lieve», si potesse concludere che egli tenne un comportamento «strettamente aderente alle linee guida (protocollo aziendale) all’epoca disponibili» (p. 19).
In definitiva, sembra potersi dire che questa sentenza abbia recepito una chiave di lettura del requisito del rispetto in linea con quella proposta dalle Sezioni unite della Cassazione, che si erano così pronunciate: «Le fasi della individuazione, selezione ed esecuzione delle raccomandazioni contenute nelle linee-guida adeguate sono, infatti, articolate al punto che la mancata realizzazione di un segmento del relativo percorso giustifica ed è compatibile tanto con l’affermazione che le linee-guida sono state nel loro complesso osservate, quanto con la contestuale rilevazione di un errore parziale che, nonostante ciò, si sia verificato, con valenza addirittura decisiva per la realizzazione di uno degli eventi descritti dagli artt. 589 e/o 590 cod. pen.»[3]. Trattasi di un comprensibile sforzo ermeneutico che le stesse Sezioni unite hanno compiuto per non arrendersi ad una prospettiva sterilizzante per cui «la formulazione lessicale del precetto creerebbe un corto circuito capace di renderlo inservibile». Anche chi scrive si era pronunciato in senso analogo già nel commentare la sentenza Tarabori (il primo sforzo interpretativo della Cassazione sulla riforma del 2017): se l’errore, «pur risultando decisivo per la verificazione dell’evento, consiste in una minima divergenza dal miglior paradigma attuativo della linea guida alla quale opportunamente è comunque rimasto idealmente fedele il sanitario, quest’ultimo non dovrebbe essere giudicato con estrema severità, potendosi ugualmente ritenere rispettata la linea guida»[4].
6. L’analisi deve ora passare a valutare se l’errore medico rilevato dalla sentenza possa considerarsi di natura esecutiva e non si tratti di un errore nella scelta di una fonte comportamentale inadeguata. L’opportunità di tale verifica emerge ancora una volta da una chiara presa di posizione delle Sezioni unite: «L’errore non punibile non può, però, alla stregua della novella del 2017, riguardare – data la chiarezza dell’articolo al riguardo – la fase della selezione delle linee-guida […], dipendendo il “rispetto” di esse dalla scelta di quelle “adeguate”»[5]. Va quindi letto in termini sistematici e contestualizzato il riferimento che le stesse Sezioni unite fanno poche righe dopo (nello stesso paragrafo) all’errore diagnostico, richiedendo che il medico sia «impeccabile nelle diagnosi anche differenziali», perché tale riferimento ha evidentemente (ed esclusivamente) il senso di richiamare l’attenzione sulla necessità che l’errore del sanitario maturi nell’attuazione di una linea guida correttamente individuata, cioè adeguata alle caratteristiche del paziente concreto. Se la fonte comportamentale da seguire si sostanzia in un percorso di contenuto ampiamente diagnostico, come nella vicenda che si sta commentando, si può ben considerare errore esecutivo anche l’imprecisione commessa nell’«adeguamento» – che è aspetto da non confondersi con l’adeguatezza[6] – delle prescrizioni al caso concreto. Coerentemente, dunque, la sentenza in commento, dopo aver dato conto dell’adeguatezza del «Percorso trombolisi E.V.» per fronteggiare la patologia concreta (in particolare, pp. 28-29, dove emerge che non c’era l’opportunità di discostarsene, ma, al contrario, quella di attenervisi fino in fondo), conclude nel senso che il medico intuì che la donna «poteva essere stata colpita da un ictus e nel perseguire una possibile diagnosi differenziale individuò correttamente le linee guida/buone prassi da seguire, ma peccò nell’esecuzione di quanto esse prescrivevano» (p. 30).
7. Altro requisito da valutare è quello relativo all’imperizia, di cui si trova menzione esplicita nell’art. 590-sexies, 2° c., c.p. Su questo presupposto applicativo, spesso compresso entro spazi troppo angusti (e che, peraltro, non dovrebbero nemmeno essere vincolati rigidamente alla possibilità di riscontrare una colpa generica in senso stretto, posto che imperizia, negligenza ed imprudenza sembrano caratteri “sostanziali” attribuibili anche alle ipotesi in cui la regola cautelare risulta “positivizzata”), il richiamo dell’autorevole precedente di legittimità è nella sentenza in commento del tutto esplicito, rilevandosi che «anche per le Sezioni Unite l’erronea valutazione del sintomo e la conseguente omessa o ritardata diagnosi è da ascrivere all’imperizia per inosservanza delle leges artis» (p. 30). Proprio questo ambito casistico è stato frequentemente ricondotto alla negligenza (ravvisando peraltro profili di imprudenza nelle conseguenti dimissioni anzitempo del paziente), esclusa invece in concreto dalla sentenza osservando, nel seguito della frase appena sopra riportata (e ancora in linea con le Sezioni unite), che non risulta che il comportamento dell’imputato sia stato «improntato ad indifferenza, scelleratezza o comunque assoluta superficialità e lassismo, che lo condurrebbero nel campo (attiguo) della negligenza» (p. 30).
8. Nel proseguire nel percorso di allineamento ai principi di diritto dettati dalle Sezioni unite, la sentenza si occupa pure del grado della colpa, rilevando che «la colpa dell’imputato fu lieve, considerato che, anche rifacendosi al canone di razionalità e alla massima di esperienza cristallizzate nell’art. 2236 del codice civile, egli:
- intervenne in un contesto emergenziale, come si evince dal codice giallo assegnato alla paziente dall’infermiera del triage del Pronto Soccorso dell’Ospedale Maggiore di Parma;
- visitò [la paziente] con urgenza, dato che doveva occuparsi anche di altri ventisei malati (circostanza non messa in dubbio dal Pubblico Ministero, né dal difensore della parte civile);
- fronteggiò un quadro clinico piuttosto oscuro, per la contestuale presenza di sintomi confondenti, vale a dire la sincope [della paziente] e, in misura minore, le sue patologie metaboliche, difficili da collegare tra loro;
- non aveva specializzazioni in neurologia, tant’è che chiese un consulto alla [neurologa]».
Effettivamente, gli elementi passati in rassegna sono tali da non consentire di ravvisare sussistente più che una colpa lieve.
9. Uno degli aspetti più interessanti di questa sentenza, insieme al raffinato ragionamento sviluppato intorno alla declinazione del requisito del rispetto della fonte comportamentale adottata nel contesto sanitario concreto, consiste nel tentativo di superare un limite operativo che potrebbe imporsi all’art. 590-sexies, 2° c., c.p. in ragione dell’ancora scarsa implementazione della procedura di accreditamento formale delle linee guida, la quale, secondo quanto previsto dall’art. 5 della l. “Gelli-Bianco”, culmina con la pubblicazione nel sito internet dell’Istituto Superiore di Sanità; stadio conclusivo al momento raggiunto solo da 3 linee guida.
Ancorché l’accento sia spesso posto proprio sulle linee guida, indubbiamente collocate in una posizione di primo piano dalla riforma “Gelli-Bianco”, è però vero che la disciplina normativa fa anche riferimento, in via sussidiaria, alle buone pratiche clinico-assistenziali, rispetto alle quali l’art. 3 della legge Gelli-Bianco prevede che siano raccolte a fini di monitoraggio e poi divulgate dall’«Osservatorio nazionale delle buone pratiche sulla sicurezza nella sanità», istituito presso l’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali (AGENAS), senza però assegnare formalmente a tale monitoraggio alcun valore paragonabile a quello della procedura di accreditamento prevista per le linee guida. Più nel merito, trattasi di concetto di non semplice inquadramento e di cui si dispone di una definizione (solo) ufficiosa, perché non contenuta direttamente nella legge o nel decreto istitutivo del predetto Osservatorio, bensì nella pagina internet del preesistente «Osservatorio Buone Pratiche», sempre collegato ad AGENAS e che già dal 2008 svolge un’attività rispetto alla quale l’osservatorio previsto dalla legge “Gelli-Bianco” si pone in sostanziale continuità: «quelle pratiche per la sicurezza dei pazienti – basate su, e realizzate in conformità ai principi della scienza della sicurezza, dell’EBP (Evidence Based Practice), dell’ergonomia o del MCQ (Miglioramento Continuo della Qualità) – la cui efficacia nel migliorare la sicurezza e/o nel ridurre i rischi e i danni al paziente derivanti dall’assistenza sanitaria, sia dimostrata in più di un contesto, previo adattamento alla situazione locale. Sono pratiche sostenibili (i costi di implementazione devono essere dichiarati) e rappresentate in accordo ai principi su cui si basano. Devono inoltre rispettare ed essere rispondenti alle preferenze, ai bisogni e ai valori della persona».
Riprendendo gradualmente aderenza con il ragionamento sviluppato dalla sentenza che si commenta, ciò che sembra importante mettere in evidenza è che quello di buone pratiche è un concetto che pare di portata ampia, tale da ricomprendere non solo prassi per nulla “codificate”, ma anche, ad esempio, protocolli e checklist e probabilmente non è distinguibile proficuamente sul piano ontologico da quello di linee guida, al punto che risulta legittimo chiedersi se si possano “far passare” per buone pratiche anche documenti espressamente nominati linee guida, ma che non abbiano ricevuto un formale accreditamento.
Inutile nascondere che un’obiezione è pronta dietro l’angolo: se linee guida non accreditate potessero filtrare comunque come buone pratiche, non avrebbe forse senso richiedere una procedura formale di accreditamento per selezionare le linee guida da porre alla base della non punibilità prevista dall’art. 590-sexies, 2° c., c.p. Questa obiezione sembra però superabile sostenendo che il legislatore non avrebbe necessariamente voluto escludere del tutto la rilevanza delle linee guida non accreditate; semplicemente avrebbe voluto dare la priorità a quelle accreditate laddove esistenti. In questo senso si potrebbe intendere la sussidiarietà richiamata nell’art. 5, 1° c., della l. “Gelli-Bianco” e anche nel testo dell’art. 590-sexies, 2° c., c.p.
La praticabilità dell’operazione non solo non pare preclusa dal testo normativo, ma è accreditata implicitamente da autorevole dottrina medico-legale, che sembra appunto concepire queste fonti secondo un rapporto genere-specie: cioè le buone pratiche includerebbero le linee guida[7].
Un’ulteriore conferma si ricava dalle pagine internet dell’«Osservatorio Buone Pratiche» attivo dal 2008, nel cui «database delle buone pratiche» sono raccolti non pochi documenti classificati proprio come linee guida[8].
Vi sono inoltre sentenze di Cassazione, citate dalla pronuncia in commento (p. 29, nota 66), che non escludono esplicitamente la percorribilità della strada qui ipotizzata: esprimono alcune perplessità, ritenendo linee guida e buone pratiche differenti concettualmente, ma chiudono comunque con toni possibilisti[9].
In definitiva, se il sanitario indagato ha rispettato una linea guida non accreditata, così come un altro documento diversamente classificato oppure ancora una prassi non “codificata”, non sembrano esserci ostacoli alla ricerca della non punibilità ex art. 590-sexies, 2° c., c.p. sotto il “cappello” delle buone pratiche[10]. Ed è proprio ciò che ha fatto il Tribunale di Parma nella vicenda giuridica di cui ci si sta occupando.
Guardando al «Percorso trombolisi E.V.», il Giudice rileva prima che «dal punto di vista dogmatico i criteri di esclusione dettati in tale atto avevano un carattere così stringente da integrare forse un vero e proprio protocollo o addirittura una cosiddetta check list, poiché […] andavano verificati necessariamente e in modo sistematico, spuntando dalla lista quelli già controllati prima di procedere con il successivo e, se uno soltanto avesse prodotto un risultato di segno negativo, non era consentito proseguire alla fase seguente» (p. 29). Poche righe dopo, viene detto che, nonostante non si tratti di un documento accreditato formalmente nei termini previsti dalla riforma “Gelli-Bianco”, «a parere dello scrivente esso integra comunque una codificazione di una buona pratica clinico assistenziale. Infatti, come è stato acutamente osservato in dottrina, il legislatore ha utilizzato nella disposizione ora citata una formula evocativa della sussidiarietà delle buone pratiche, che consente di annoverarvi le linee guida non accreditate nonché i protocolli e le check list»[11]. È così che il Giudice ritiene possibile attrarre il caso concreto nell’ambito applicativo dell’art. 590-sexies, 2° c., c.p.
10. La sentenza, nelle battute conclusive, si misura con i profili intertemporali e dà conto della riconducibilità del caso, quantomeno in astratto, anche al previgente d.l. “Balduzzi”. Il Giudice dimostra ancora una volta di ragionare secondo i criteri interpretativi delineati dalle Sezioni unite, che avevano infatti individuato un ambito casistico comune alle discipline penali del 2012 e del 2017 (entrambe sopravvenute rispetto a quella ordinaria vigente al momento dei fatti), nel quale pure la vicenda sotto giudizio, per le sue caratteristiche, viene collocata. Ritenendo che anche ai fini della responsabilità civile non ci sarebbero particolari implicazioni nella preferenza di una delle due discipline, la sentenza conclude affermando che «va privilegiata la norma attualmente vigente, non essendovi motivo perché abbia luogo l’ultrattività del citato art. 3 del D.L. 158 del 2012» (p. 31).
11. Cercando di trarre un bilancio conclusivo su questa pronuncia, si deve subito rilevarne la speciale importanza, percepibile anche solo in termini di “cronaca”, perché è tutt’altro che comune avere notizia di applicazioni dell’art. 590-sexies, 2° c., c.p. Si tratta di una sentenza giuridicamente colta ed in più accezioni aggiornata, anche in quanto ampiamente allineata alle Sezioni unite, come detto in vari passaggi del commento, e che potrebbe dunque effettivamente rappresentare una sorta di prototipo, nella giurisprudenza di merito, sull’applicazione della disciplina di esclusione della responsabilità penale introdotta dalla l. “Gelli-Bianco”.
Al di là della soluzione, non sono pochi i dettagli del percorso intrapreso per giungervi a meritare attenzione. Si è infatti segnalato un particolare sforzo argomentativo nel dimostrare la sussistenza del problematico requisito del rispetto di una fonte comportamentale opportunamente presa come riferimento ma non perfettamente attuata. A tale parte della sentenza si può senz’altro riconoscere quella valenza esemplificativa di cui la dottrina, spesso impegnata in ragionamenti di carattere più astratto, ha bisogno per poter contribuire realmente al “collaudo” di una disciplina che si temeva persino potesse rimanere del tutto inapplicata, come di fatto indiziava l’esperienza della disposizione penale del previgente d.l. “Balduzzi”. La strada prescelta è stata, inevitabilmente (alla luce del più che limitato catalogo attuale delle linee guida formalmente accreditate), quella di ricorrere al concetto dalle maglie larghe di buone pratiche, capace di attrarre le più diverse declinazioni del sapere scientifico di comprovata validità, comprese le stesse linee guida, accreditate (e in tal caso dotate di un elemento per così dire specializzante) o meno.
Da non sottovalutare è anche il corretto riferimento all’imperizia in un caso che – dice bene il Giudice – «è emblematico della responsabilità medica» (p. 26).
L’“entusiasmo” potrebbe essere in parte attenuato considerando che il dispositivo della sentenza è comunque meno favorevole al medico rispetto alla richiesta del Pubblico Ministero, che aveva concluso per un’assoluzione ex art. 530, 2° c., c.p.p. A ben vedere, al di là dell’affermazione della colpa in condizioni particolarmente complesse e dal giudice valutate solo in fase di graduazione della stessa ed escludendo rilievo a qualsiasi profilo basato sul principio di affidamento, l’accertamento del nesso causale, pur largamente impostato in termini metodologicamente corretti, ad esempio alludendo ad una causalità omissiva (trattandosi di fronteggiare un rischio promanante aliunde)[12], lascia qualche perplessità, forse superabile solo con una più piena conoscenza del fascicolo processuale. Il Giudice ritiene che se fosse stato attivato subito il «Percorso trombolisi E.V.» sarebbe quindi stato presto somministrato il farmaco trombolitico «ed è del tutto ragionevole ipotizzare che (con un grado di probabilità logica prossimo alla certezza) ciò avrebbe ridotto l’entità delle lesioni riportate» (p. 17; ma si vedano anche, ad esempio, pp. 20-21 e 26-27). Non è però del tutto chiaro come maturi tale certezza a fronte di indicazioni un po’ meno ottimistiche di tutti i consulenti intervenuti nello scenario processuale (in particolare, pp. 16-18).
Trattandosi di vicenda giudiziaria potenzialmente destinata a svilupparsi ulteriormente, saranno le parti, che certamente si trovano in una prospettiva conoscitiva del processo privilegiata rispetto a quella (ben più limitata) di chi scrive, a giocarsi le proprie carte.
In ogni caso, per lo studioso oggi è bene, decisamente, vedere il bicchiere (più che) mezzo pieno.
[1] Leggendo Cass. pen., sez. IV, 9 gennaio 2019, n. 8115, in http://www.rivistaresponsabilitamedica.it, 19 marzo 2019, si apprende di un’assoluzione pronunciata dalla Corte d’Appello di Messina proprio richiamando l’art. 590-sexies, 2° c., c.p., ma la Corte di legittimità ha annullato tale sentenza, osservando, tra l’altro, che la soluzione è stata raggiunta «omettendo qualsiasi valutazione di merito sulle numerose problematiche che si agitano sulla natura giuridica e sui presupposti applicativi della causa di non punibilità di lesione colposa determinata da imperizia di colui che esercita la professione sanitaria».
[2] Come è noto, la produzione scientifica sull’argomento è particolarmente ampia. In questa sede, sia consentito limitarsi a riferimenti bibliografici (e giurisprudenziali) concernenti specifiche questioni affrontate nel testo.
[3] Cass. pen., Sez. un., 21 dicembre 2017, n. 8770, (§ 9), in questa Rivista, 1° marzo 2018, con nota di C. Cupelli, L’art. 590-sexies c.p. nelle motivazioni delle Sezioni Unite: un’interpretazione ‘costituzionalmente conforme’ dell’imperizia medica (ancora) punibile (fasc. 3/2018, p. 246 ss.). La sentenza è stata commentata da non pochi autorevoli esponenti della dottrina e della stessa magistratura. Rimanendo ai contributi pubblicati in questa Rivista, anche chi scrive ha avuto modo di esprimersi direttamente sulla pronuncia in G.M. Caletti, M.L. Mattheudakis, La fisionomia dell’art. 590-sexies c.p. dopo le Sezioni unite tra “nuovi” spazi di graduazione dell’imperizia e “antiche” incertezze, fasc. 4/2018, pp. 25 ss. Per un’interessante e assai utile ricognizione della giurisprudenza di legittimità successiva alla pronuncia delle Sezioni unite, si veda P. Piras, L’accertamento della colpa medica nella giurisprudenza post Mariotti, in questa Rivista, 18 gennaio 2019.
[4] G.M. Caletti, M.L. Mattheudakis, La Cassazione e il grado della colpa penale del sanitario dopo la riforma “Gelli-Bianco”, in Dir. pen. proc., 2017, p. 1374, di commento di Cass. pen., sez. IV, 7 giugno 2017, n. 28187, annotata anche, tra gli altri, da M. Caputo, ‘Promossa con riserva’. La legge Gelli-Bianco passa l’esame della Cassazione e viene ‘rimandata a settembre’ per i decreti attuativi, in Riv. it. med. leg. dir. san., 2017, pp. 724 ss.; C. Cupelli, La legge Gelli-Bianco e il primo vaglio della Cassazione: linee guida sì, ma con giudizio, in questa Rivista, fasc. 6/2017, p. 280 ss.; L. Risicato, Colpa dello psichiatra e legge Gelli-Bianco: la prima stroncatura della Cassazione, in Giur. it., 2017, pp. 2201 ss.
[5] Cass. pen., Sez. un., 21 dicembre 2017, n. 8770, cit. (§ 9.1).
[6] Sia consentito il rinvio alle considerazioni sviluppate in modo più articolato e con gli opportuni riferimenti dottrinali in G.M. Caletti, M.L. Mattheudakis, La fisionomia dell’art. 590-sexies c.p., cit., pp. 36 ss.
[7] Si vedano A. Fiori, D. Marchetti, L’articolo 3 della legge Balduzzi n. 189/2012 ed i vecchi e nuovi problemi della medicina legale, in Riv. it. med. leg. dir. san., 2013, pp. 563 ss., riferendosi alla disciplina del 2012, che però già menzionava esplicitamente sia linee guida che buone pratiche: «La nuova normativa, se non sarà dichiarata incostituzionale, potrà agire ulteriormente in questa direzione, richiamando esplicitamente ad ogni esercente le professioni sanitarie la necessità di avvalersi delle “buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica” che includono ovviamente, quando esistano relativamente allo specifico caso, le linee guida, o altre autorevoli indicazioni tecnico-professionali» (p. 570).
[8] Vero è che quelli con tale classificazione risalgono a prima dell’entrata in vigore della disciplina attuale, ma è altrettanto incontestabile che è già dal 2012 che il legislatore si riferisce a linee guida e buone pratiche alimentando il dubbio che possano essere due entità diverse, quindi si può constatare che questa apparenza ha già trovato proprio nell’«Osservatorio buone pratiche» autorevole e smentita. Anche a testimonianza di una tendenza non confinata in una sola area geografica, è possibile menzionare, ad esempio: «Le nuove linee guida aziendali AOU Città della Salute e della Scienza di Torino» (Piemonte; anno 2017); «Linee Guida per la gestione della sepsi in gravidanza e puerperio» (Veneto; anno 2016); «Linee guida per la somministrazione di farmaci in ambito scolastico» (Lombardia; anno 2015); «Linea guida corretto uso dei disinfettanti» (Lazio; anno 2013); «L’igiene delle mani nell’assistenza sanitaria. Linee guida aziendali» (Sicilia; anno 2012).
[9] Per prima, Cass. pen., sez. IV, 13 aprile 2018, n. 33405, di cui l’estratto rilevante è ripreso letteralmente in Cass. pen., sez. IV, 22 giugno 2018, n. 47748 (entrambe in DeJure), dello stesso estensore (il Cons. Emanuele Di Salvo).
[10] Sembra invece da escludere, perché in più aperto contrasto con la legge, la plausibilità del tentativo di “far passare” per buona pratica una linea guida diversa da quella che regoli la stessa materia e abbia ottenuto il formale accreditamento, culminato con la pubblicazione nel sito internet dell’Istituto superiore di sanità. Non è che in questo caso la linea guida non possa assolutamente essere considerata una buona pratica. Certo, il fatto che esistano indicazioni comportamentali di segno diverso e che siano formalmente accreditate secondo specifici standard di qualità porta ad interrogarsi sulla possibilità di considerare davvero “buona” una pratica che da quella ufficiale diverga, anche se occorre considerare, peraltro, che, come le persone, anche le linee guida invecchiano e possono risultare superate dal progresso delle conoscenze scientifiche. Il punto, però, è che qualsiasi buona pratica “soccomberebbe” di fronte ad una linea guida accreditata, a meno che non si riesca a dimostrare che tale linea guida accreditata fosse non adeguata alle specificità del caso concreto. In tal caso si potrebbe sostenere che la priorità normalmente accordata dalla legge alla linea guida accreditata venga meno e che la linea guida accreditata, in quanto non adeguata alle specificità del caso concreto, sia considerabile tamquam non esset. Così come tamquam non esset può forse essere considerata la linea guida accreditata messa “fuori gioco” dal rifiuto del paziente, vincolante per il medico per esplicita previsione di più punti dell’art. 1 della l. 22 dicembre 2017, n. 219: anche in tal caso, l’eventuale linea guida non accreditata che sia comunque concretamente adeguata e suggerisca un percorso trattamentale accettato dal paziente non dovrebbe essere estromessa da quelle fonti comportamentali in grado di rendere operativa la causa di esclusione della responsabilità penale.
[11] In mancanza di un riferimento bibliografico diretto (come è normale per le sentenze italiane) e considerata la speciale vastità della produzione dottrinale sul tema, ancorché l’argomento specifico non sembra sia stato ancora sviluppato in termini articolati, sembra prudente non sbilanciarsi nell’attribuzione di paternità alla tesi richiamata dalla sentenza. Per un ampio ragionamento sulle buone pratiche e sulla possibilità di attribuire loro una lettura estensiva, per tutti, M. Caputo, Colpa penale del medico e sicurezza delle cure, Torino, 2017, pp. 276 ss., in particolare p. 280 (ancorché con riferimento soprattutto alla disciplina del 2012) e pp. 368 ss. Chi scrive può rilevare di avere quantomeno contribuito a porre la questione: in particolare in G.M. Caletti, M.L. Mattheudakis, Una prima lettura della legge “Gelli-Bianco” nella prospettiva del diritto penale, in Dir. pen. Cont. – Riv. trim., 2017, 2, p. 104; G.M. Caletti, M.L. Mattheudakis, La fisionomia dell’art. 590-sexies c.p., cit., p. 46; da ultimo e con ulteriori dettagli, in parte ripresi prima nel testo, in M.L. Mattheudakis, Prospettive e limiti del principio di affidamento nella “stagione delle riforme” della responsabilità penale colposa del sanitario, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, p. 1247 (comprese le note 69 e 70).
[12] È qui riconoscibile il riferimento alla terminologia impiegata, in particolare, da P. Veneziani, Il nesso tra omissione ed evento nel settore medico: struttura sostanziale ed accertamento processuale, in E. Dolcini, C.E. Paliero (a cura di), Studi in onore di Giorgio Marinucci, Milano, 2006, pp. 1970-1971; più di recente, Id., Causalità della colpa e comportamento alternativo lecito, in Cass. pen., 2013, p. 1228.