ISSN 2039-1676


28 giugno 2011 |

In tema di confisca per equivalente e associazione per delinquere transnazionale

Nota a Cass. pen., sez. III, 27.1.2011 (dep. 17 febbraio 2011), n. 173, Pres. De Maio, Est. Ramacci, ric. Scaglia

Con la pronuncia che può leggersi in allegato, la Suprema Corte afferma che è legittimo il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente prevista dagli artt. 3 e 11 l. 146/2006 (Legge di ratifica ed esecuzione della Convenzione ONU firmata a Palermo il 15 dicembre 2000 contro il crimine organizzato transazionale) anche se i reati-fine dell’associazione per delinquere transnazionale (nella specie, reati tributari) non possiedono tale carattere, poiché nell’ambito del delitto associativo il profitto di quest’ultimo coincide con il complesso dei benefici che gli associati traggono dai reati-fine; inoltre, il provvedimento di sequestro può essere disposto per l’intero valore del profitto ricavato dall’associazione anche a carico di uno solo tra gli associati.
 
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SOMMARIO:
 
 
 
 
 
 
1. Il caso sottoposto all’esame della Corte.
 
Il ricorrente – amministratore di un’importante compagnia telefonica operante in Italia – è accusato di avere preso parte ad un’associazione per delinquere a carattere transnazionale finalizzata alla commissione di una serie indeterminata di reati fiscali (di cui però, a differenza del delitto associativo, non è contestato il carattere della transnazionalità), i quali avevano consentito agli associati di conseguire profitti di “entità davvero straordinaria”, per i quali la Procura procedente aveva chiesto ed ottenuto il sequestro per equivalente di svariati beni riconducibili alla sfera di signoria del ricorrente per un valore complessivamente pari al profitto derivato all’intera associazione.
 
 
2. Le censure mosse al provvedimento del Tribunale del Riesame confermativo del sequestro disposto da GIP.
 
Secondo il ricorrente, l’ordinanza con la quale il Tribunale del Riesame aveva confermato il decreto di sequestro emesso dal GIP si espone ad un quadruplice ordine di censure. In particolare:
 
a) la confisca per equivalente del profitto connesso ad un reato transazionale può essere disposta solo laddove detto profitto promani in via immediata dal reato transnazionale contestato, poiché è proprio quest’ultimo– ex artt. 3 e 11 l. 146/2006 – il presupposto oggettivo di tale peculiare strumento ablativo. Nel caso in esame, però, il profitto sottoposto (per equivalente) a sequestro è conseguenza diretta non del contestato reato transnazionale (cioè l’associazione per delinquere ex art. 416 c.p.), bensì dei reati fiscali non transnazionali per la cui commissione il delitto associativo era stato costituito; non potendo dunque farsi luogo alla confisca, ne discende l’illegittimità del sequestro disposto in vista della stessa;
 
b) i fatti delittuosi a fondamento del postulato accusatorio sono cronologicamente collocabili in un’epoca precedente l’entrata in vigore della legge 146/2006 la quale, essendo successiva e meno favorevole, non può avere efficacia retroattiva. Nel caso in esame, inoltre, non sono stati nemmeno indicati specificamente i contributi causali che il ricorrente avrebbe fornito al sodalizio criminale successivamente all’entrata in vigore della legge;
 
c) la possibilità di confisca del tantundem non esime il giudice dall’onere di provare che il profitto direttamente ricavato dal reato, e di cui è impossibile la confisca, effettivamente derivi ex crimine. Detta tipologia di confisca consente infatti solo di sostituire l’oggetto originario della pretesa ablatoria con beni diversi, ma non scalfisce affatto il presupposto oggettivo appena evidenziato, anche perché, diversamente opinando, si finirebbe con il proiettare surrettiziamente una presunzione di illiceità sull’intero patrimonio accumulato dal reo. Non avendo però i giudici del riesame dato tale prova, ne deriva che il sequestro non poteva essere disposto;
 
d) da ultimo, è illegittimo disporre il sequestro a carico di un solo associato per un valore corrispondente all’intero profitto che l’attività illecita ha procurato all’associazione, in quanto, non potendo la confisca a suo carico superare la quota di profitto da lui concretamente percepita, il sequestro disposto in previsione non può concernere un valore superiore.
 
 
3. Il dictum della Cassazione: il sequestro è stato legittimamente disposto.
 
La Corte ritiene infondate tutte le censure mosse e rigetta il ricorso.
 
In particolare, con riguardo alla prima obiezione, secondo la quale il profitto su cui è stato apposto il vincolo reale deriva non dal reato associativo transnazionale, bensì dai reati-fine, privi di tale carattere, il Supremo Collegio afferma che l’argomento non coglie nel segno. La Corte, infatti, ha modo di precisare che, nell’ambito della fattispecie di cui all’art. 416 c.p., “il profitto, inteso come l’insieme dei benefici tratti dall’illecito ed a questo intimamente attinenti, può consistere [...] nel complesso dei vantaggi direttamente conseguenti dall’insieme dei reati-fine, dai quali è del tutto autonomo e la cui esecuzione è agevolata proprio dall’esistenza di una stabile struttura organizzata e da un comune progetto delinquenziale”.
Non ha pregio poi, ad avviso della Corte, la doglianza con cui si è denunciata l’applicazione retroattiva della l. 146/2006. Sotto questo profilo, infatti, osservano i giudici di legittimità che il delitto associativo era ancora in essere alla data di entrata in vigore della legge in esame e pertanto, trattandosi di reato permanente, non è violato il principio di irretroattività della legge penale sfavorevole. Del pari irrilevante è l’argomento secondo cui non vi sarebbe stata specificazione dei contributi riconducibili al ricorrente in epoca successiva alla data di entrata in vigore della legge 146/2006: la Corte esclude ogni violazione del principio di irretroattività, limitandosi a prendere atto che il vincolo associativo permaneva alla predetta data e che di esso il ricorrente era parte, e ciò è senz’altro sufficiente per ritenere intergrato il presupposto oggettivo delle misure cautelari reali rappresentato dal fumus commissi delicti.
 
Infondato è anche il terzo argomento speso dal ricorrente per censurare il provvedimento impugnato nella parte in cui si afferma che non sarebbe stato provato il carattere illecito del profitto di cui è impossibile la confisca in via diretta (e che, per questa ragione, è stato confiscato per equivalente). A parte la considerazione che il provvedimento – rileva la terza Sezione – aveva comunque motivato sul punto, ancorché per relationem, richiamandosi cioè ai rilievi operati dal GIP nel decreto di sequestro, osserva la Corte che l’origine lecita dei beni sequestrati, così come la data della relativa acquisizione ed il rapporto di pertinenzialità con il reato, sono del tutto irrilevanti, perché la confisca di valore, per definizione, cade su beni che con il reato non hanno connessione alcuna e proprio in ciò sta il fondamento della natura sanzionatoria comunemente riconosciuta a tale speciale forma di ablazione patrimoniale.
 
Da ultimo, rileva la Cassazione che l’ordinanza impugnata è immune da vizi anche nella parte in cui afferma la legittimità del sequestro di denaro e beni appartenenti o riconducibili al solo ricorrente, anche se disposto per un valore pari non al profitto da quest’ultimo tratto nell’esecuzione della contestata attività criminosa, ma all’intero profitto derivato al sodalizio criminale. Conformemente ad un orientamento giurisprudenziale già maggioritario in tema di concorso di persone nel reato, infatti, il sequestro finalizzato alla confisca per equivalente può essere disposto per l’intero valore del profitto del reato a carico di un solo associato, con il solo limite rappresentato dal divieto di “duplicazione” della confisca, e di superamento, da parte della stessa, dell’ammontare complessivo del profitto tratto dal reato.
 
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4. Osservazioni critiche.
 
La rigorosa presa di posizione che la Suprema Corte opera con tale sentenza se, per alcuni versi, risulta difficilmente contestabile, anche in ragione della carenza di informazioni dettagliate sulle caratteristiche oggettive e soggettive dei fatti desumibili di sentenza, per altri contiene invece affermazioni che possono sollevare alcune perplessità.
 
Due, in particolare, le questioni trattate nella decisione in commento che appaiono meritevoli di essere quanto meno segnalate, pur essendo preclusa in questa sede una trattazione approfondita ed completa di esse: a) la definizione della nozione di “profitto” in relazione alla fattispecie associativa ex art. 416 c.p.; b) la possibilità di sottoporre a sequestro finalizzato alla confisca per equivalente beni di valore pari all’intero profitto dell’associazione a carico di un solo associato, anziché limitatamente alla quota di esso a lui riconducibile.
 
4.1 Quanto al primo aspetto, si può rilevare come non sia agevole sostenere che, in materia di associazione per delinquere, il profitto derivante dai reati fine sia qualificabile – senza soluzione di continuità – anche come profitto del delitto associativo e come più di un dubbio si profili in ordine all’affermazione secondo cui dai reati-fine tale profitto sia “del tutto autonomo”.
In verità, il principio così espresso avrebbe forse meritato, per la sua notevole importanza, una disamina più approfondita, nell’ambito della quale non sarebbe stato inopportuno provvedere ad un temperamento del rigore di tale principio.
In primo luogo, si può osservare come tale principio sembri supporre, con riferimento al profitto, una relazione tra reato-mezzo (l’associazione) e reati-fine (nella specie, i delitti tributari) “capovolta” rispetto a quella che invece intercorre, tra gli stessi reati, dal punto di vista logico e criminologico. Infatti, mentre da un lato è pacifico come sia l’associazione il mezzo attraverso cui i partecipi della stessa commettono i reati-fine, dai quali ricavano i profitti, dall’altro allorquando si tratta di provvedere in ordine alla confisca dei medesimi la pronuncia in esame sembra affermare che l’associazione sia invece il fine cui i profitti normalmente tendono ed i reati-fine soltanto il mezzo attraverso cui realizzare questi ultimi.
 
Tale assunto, però, non persuade del tutto.
 
Oltre a non essere condiviso da alcune autorevoli voci dottrinali, che hanno ritenuto, seppur con riguardo alla confisca prevista dall’art. 416-bis, c. 7, c.p., che le cose suscettibili di confisca ai sensi di tale disposizione sembrano connesse più ai reati-fine che non all’associazione in quanto tale (Alessandri, Confisca, in Dig. disc. pen., 1989, p. 49; Fiandaca, Sub art. 1Commento alla l. 13 settembre 1982 n. 646 (norme “antimafia”), in Leg pen., 1983 p. 268), esso presta il fianco a più di una critica nella parte in cui oblitera un dato di fatto oggettivamente non contestabile, cioè che il profitto, quand’anche lo si volesse qualificare come riferito all’associazione criminale, deriverebbe comunque in via immediata e diretta dall’esecuzione dei delitti-scopo e non dal delitto associativo in sé considerato. Nella presa di posizione espressa dalla Cassazione in questa pronuncia sembra quindi potersi individuare un mutamento della nozione di profitto inteso come “vantaggio economico ricavato in via immediata e diretta dal reato” (cfr. Cass., Sez. Un. 25 giugno 2009, n. 38691), poiché di essa si sta di fatto prospettando un’interpretazione più lata, che imputa il profitto non solo ai reati dalla cui esecuzione esso deriva, ma anche a quelli che, come l’associazione per delinquere, semplicemente ne agevolano la commissione.
 
Non può escludersi che la diversa declinazione del concetto di profitto in relazione al reato di associazione per delinquere sia stata indotta dalla circostanza – obiettivamente problematica – per cui, se si fosse ritenuto che il profitto derivasse dai soli reati tributari, il sequestro ai fini di confisca verosimilmente non avrebbe potuto essere disposto: in relazione a tali reati, infatti, non era stato contestato il carattere della “transnazionalità” e quindi era inibita l’applicazione della confisca per equivalente disciplinata dall’art. 11 della l. 146/2006; né questa era applicabile ai sensi dell’art. 322-ter c.p., poiché quest’ultimo è stato reso applicabile anche ai delitti tributari in epoca successiva al tempo del commesso reato e, stante la natura sanzionatoria comunemente riconosciuta a tale forma di confisca, è esclusa la sua applicabilità in via retroattiva. Solo ritenendo che il profitto promani direttamente dal reato di associazione per delinquere, da un lato, e contestualmente rilevando il carattere permanente di quest’ultimo, dall’altro, entrambi questi ostacoli cadono.
 
In tal modo, però, si sta ponendo rimedio in via giurisprudenziale ad un problema che trova la propria origine nella difettosa tecnica redazionale con cui la legge 146/2006 ha dato attuazione alla Convenzione ONU in esame. Infatti, come puntualmente segnalato in dottrina (Di Martino, Commento alla l. 146/2006, in Dir. pen. proc., n. 1, 2007, pp. 19-20), la Convenzione (art. 12) richiedeva agli Stati di adottare ogni e più ampio strumento di acquisizione coattiva dei proventi del reato, ma il legislatore interno ha previsto la possibilità di confisca per equivalente solo “per i reati di cui all’art. 3 della presente legge”, cioè solo per i reati transnazionali, omettendo così di specificare che il “provento del reato” (secondo la terminologia più diffusa nel contesto legislativo internazionale  in materia di confisca) avrebbe dovuto essere oggetto di confisca anche se fosse derivato da un reato semplicemente connesso ad un reato transnazionale, ma privo di tale carattere. Chiare esigenze di legalità e tassatività, però, impongono di ritenere che sul punto possa intervenire il solo legislatore.
 
4.2 Per quanto riguarda, invece, il secondo punto problematico della sentenza in esame, quello cioè dell’ammissibilità che il sequestro possa essere disposto per l’intero valore del profitto del reato a carico di un solo associato, va rilevato come esso non costituisca una questione del tutto nuova in giurisprudenza. Da diverso tempo, infatti, in ordine all’ampiezza del sequestro per equivalente in caso di realizzazione plurisoggettiva del fatto (in forma concorsuale o associativa) persistono due distinti indirizzi interpretativi.
 
Secondo l’orientamento maggioritario (Cass., sez. II, 21 gennaio 2007, in CED 235842; sez. II, 20 dicembre 2006, CED 235832), cui aderisce la sentenza in esame, il principio solidaristico che informa la disciplina della pena per i concorrenti nel reato (tutti debbono soggiacere alla medesima pena edittale, poiché l’intera azione che realizza il fatto di reato è imputata ad ogni concorrente) consente di affermare che la pena della confisca per equivalente possa essere applicata per l’intero anche ad uno solo degli stessi concorrenti, non essendo un fatto giuridicamente e penalmente rilevante la ripartizione interna delle utilità economica derivanti dal reato. In base ad un diverso, ma minoritario, indirizzo (Cass., sez. VI, 09 luglio 2007, n. 35120), il sequestro andrebbe invece limitato alla quota di profitto effettivamente attribuibile al singolo associato o concorrente e non potrebbe superare tale soglia, salvo il caso in cui non sia possibile determinare la misura di tale quota.
 
Nonostante quello maggioritario sia ormai divenuto di fatto dominante, si deve rilevare che gli argomenti posti a fondamento dello stesso non risultino condivisibili.
 
In particolare, l’assunto secondo cui al singolo correo vada imputata l’intera azione criminosa non può avere come effetto quello di pervenire ad una sostanziale nullificazione del principio di colpevolezza e di personalità della responsabilità penale in relazione alla confisca per equivalente. Detto assunto infatti, così come – intuitivamente – non implica che lo Stato possa disporre (il sequestro e) la confisca per l’intero profitto dell’associazione a carico di tutti i correi, allo stesso modo non può comportare che si assoggetti a (sequestro e) confisca l’intero profitto a carico di uno solo. L’esclusione di tale eventualità emerge con chiarezza, se si esaminano le possibili determinazioni che il giudice può assumere allorquando dovrà commutare il sequestro in confisca. Infatti, se il giudice sottopone a sequestro l’intero profitto del reato, traendolo dal patrimonio di uno solo tra i correi, in sede di condanna può operare in tre modi: a) non esercita la pretese ablativa nei confronti degli altri correi, ma, così facendo, questi non subiranno la pena della confisca, pur legalmente prevista (anche) a loro a carico; b) le esercita aggredendo anche i patrimoni dei restanti correi (in tal modo, però, confisca più di quanto la legge penale sostanziale consenta); c) le esercita proporzionalmente alla quota di profitto percepita da ogni correo (cioè libera dal vincolo cautelare una parte della quota di beni di proprietà del correo che erano stati oggetto di sequestro e sottopone proporzionalmente a confisca i beni degli altri; soluzione, questa, del tutto carente sotto il profilo logico, anche in relazione ai rischi di non rinvenire più alcun bene di valore significativo nella disponibilità degli altri correi, potendo essere nel frattempo trascorsi anche diversi anni.
 
Da quanto sopra visto, emerge chiaramente che in tutti i casi ipotizzabili, se si sottopone a sequestro più di quanto è poi suscettibile di essere confiscato, si perviene a risultati del tutto illogici o, peggio, contrari ai principi costituzionali.
Inoltre, giova evidenziare un secondo, ma non meno importante, aspetto che corrobora la tesi qui sostenuta: si può ragionevolmente affermare che l’assimilazione della confisca per equivalente ad una vera e propria sanzione penale non può avvenire “parzialmente”, cioè solo per alcuni principi e non per altri. Se si ritiene che tale tipologia di confisca vada equiparata ad una pena, essa automaticamente soggiace anche al principio che vuole la pena tesa alla rieducazione del reo (art. 27, c. 3, Cost.), il quale nel caso, come quello in esame, di una sanzione ablativa, si traduce nell’obiettivo di riaffermare il principio per cui dalla commissione di un reato non può trarsi giovamento economico. Tuttavia, se si confisca interamente il profitto del reato a carico di un solo soggetto, risulta chiaro che l’obiettivo del legislatore non è più rieducare il reo al valore della legalità, bensì garantire in ogni caso la purificazione del circuito economico dai capitali di derivazione illecita, anche a costo di far patire al reo una sanzione patrimoniale maggiore di quella a lui legalmente (colpevolmente) irrogabile.
 
Ancora una volta, quindi, dietro l’esegesi di istituti fondamentali del diritto e della procedura penale si intravede la decisiva questione circa l’equilibro tra l’esigenza, da un lato, di fare in modo che in ogni caso sia provvisoriamente congelato l’intero profitto del reato,indipendentemente dalla ricerca (certo non agevole) dell’individuazione delle singole quote attribuibili ai correi, e di assicurare, dall’altro, il rispetto dei diritti fondamentali dell’imputato, non da ultimo la necessaria proporzionalità negli interventi penali di limitazione della sfera patrimoniale, cui si dà oggi ampio risalto anche nell’ambito della giurisprudenza della Corte di Strasburgo.
 
Con ciò non si vuole certo negare la fondatezza della prima tra le segnalate esigenze, ma non possono condividersi – specie in una materia che diviene sempre più delicata, quale riflesso del progressivo assurgere dello strumento ablativo a sanzione penale di prim’ordine nella lotta alla criminalità di ogni genere (mafiosa, economica, ambientale, finanziaria, etc.) – affermazioni giurisprudenziali estremamente tranchant e prive di un significativo sforzo verso il contemperamento tra gli interessi costituzionali in gioco; la totale obliterazione della necessità di distribuire i costi della tutela cautelare reale tra i vari concorrenti del reato, di cui è latore l’indirizzo giurisprudenziale maggioritario, rischia infatti di condurre a patenti ed inaccettabili violazioni dei principi di legalità, proporzionalità e rieducazione.
 
Va dunque cercato un nuovo e diverso punto di equilibrio che, pur salvaguardando gli interessi generali, sia comunque orientato ad imporre il minor sacrificio possibile ai diritti dell’imputato; sul punto, una strada che appare senz’altro auspicabile seguire è quella di graduare il sequestro preventivo in base alla quota imputabile ai singoli correi e, nei soli casi in cui ciò non sia possibile, procedere al sequestro non dell’intero profitto a carico di uno solo tra essi, ma di una eguale quota di esso a carico di tutti, ben potendosi in simili ipotesi presumere, se non emergono elementi per ipotizzare una diversa ripartizione interna del profitto, che quest’ultimo fosse ripartito in uguale misura.