ISSN 2039-1676


14 settembre 2011 |

Tra i presupposti del sequestro preventivo "per equivalente" anche l'accertamento del collegamento tra bene sequestrato e profitto del reato

Nota a Cass. pen., sez. III, 11.5.2011 (dep. 13.6.2011), n. 23667, Pres. Teresi, Rel. Mulliri, - P.G. Izzo (concl. diff.)

Misure cautelari reali – Sequestro preventivo a fine di confisca per equivalente – Presupposti – Pericolosità della cosa – Valutazione del collegamento tra il bene di valore equivalente e il profitto del reato – Necessità.
 
Nel disporre il sequestro preventivo a fine di confisca di beni di valore corrispondente al profitto del reato il giudice deve accertare il collegamento tra il bene e il profitto, derivando da tale collegamento la pericolosità dell’oggetto del sequestro.
 
Misure cautelari reali – Sequestro preventivo a fine di confisca per equivalente – Presupposti – Fumus commissi delicti – Sufficienza di una mera ipotetica attribuzione del reato a taluno – Esclusione - Valutazione in concreto della sussistenza di condotte criminose legittimanti la misura, anche con riferimento all’eventuale difetto dell’elemento soggettivo - Necessità.
 
Ai fini dell’applicazione del sequestro per equivalente non occorrono gravi indizi di reità, ma non può neppure ritenersi sufficiente la mera attribuzione ipotetica di un reato a taluno, essendo invece necessario verificare funditus la sussistenza delle condotte criminose legittimanti l’intervento cautelare; tale controllo non deve risolversi in un mero controllo formale e cartolare ma, al contrario, deve essere concreto e condotto secondo il parametro del fumus del reato ipotizzato, anche con riferimento all’eventuale difetto dell’elemento soggettivo.
 
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Con la sentenza pubblicata la terza sezione della Corte di cassazione affronta il tema della valutazione dei presupposti del sequestro preventivo finalizzato ad anticipare la confisca “per equivalente” del profitto del reato.
 
Sollecitata a valutare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 322-ter c.p. (in relazione, si direbbe, all’art. 321 c.p.p.) per ritenuto contrasto con gli artt. 24 e 27 Cost., il Collegio esclude la fondatezza dei rilievi del ricorrente fornendo una lettura della norma costituzionalmente orientata.
 
L’eccezione traeva origine dalla constatazione che il tribunale del riesame, sebbene fosse stata denunciata l’assenza di riferimenti individualizzanti delle condotte ipotizzate, aveva respinto la richiesta difensiva, confermando il sequestro, senza fornire alcuna risposta sullo specifico punto. Il provvedimento, inoltre, risultava alquanto evasivo in relazione alla verifica del fumus delicti, limitandosi a richiamare l’ordinanza del giudice per le indagini preliminari che a sua volta faceva riferimento all’informativa della polizia giudiziaria, senza, quindi, particolari specificazioni per raccordare le emergenze investigative alle ipotesi criminose formulate in concreto. Proprio queste carenze del titolo cautelare, laddove ritenute incensurabili sul piano della conformità alla disciplina codicistica (processuale), facevano dubitare della compatibilità costituzionale della stessa normativa: essendo ormai indiscutibile la natura sanzionatoria della misura patrimoniale, la previsione di una sua esecuzione anticipata, svincolata dal concreto riscontro tanto della riferibilità soggettiva quanto della plausibilità dell’accusa, e senza quindi la possibilità di una effettiva difesa su entrambi i punti, finisce ad avviso del ricorrente non solo per contrastare con la presunzione costituzionale di non colpevolezza, ma anche per ledere il diritto di difesa dichiarato inviolabile dalla Carta fondamentale.
 
La Corte respinge l’ipotesi di incostituzionalità della disciplina de qua, osservando innanzitutto che anche nel sequestro “per equivalente” va accertata la sussistenza del periculum in mora: nel disporre la misura preventiva finalizzata ad assicurare la futura confisca di beni di valore corrispondente al profitto del reato, il giudice è tenuto ad accertare il collegamento tra il bene sottoposto a cautela ed il profitto del reato, derivando da tale collegamento la pericolosità dell’oggetto del sequestro; talché la persona nei cui confronti si procede dovrà e potrà rispondere proprio su tale collegamento tra il bene e il profitto.
 
Inoltre, il supremo Collegio, pur ribadendo – in adesione all’ormai costante orientamento della giurisprudenza di legittimità – che ai fini dell’applicazione della misura cautelare reale non occorre la dimostrazione della sussistenza di gravi indizi di reità, esclude che possa ritenersi sufficiente a legittimare l’adozione del provvedimento preventivo la mera attribuzione ipotetica di un reato a taluno, ritenendo invece necessaria l’approfondita verifica della sussistenza delle condotte criminose legittimanti l’intervento cautelare; una verifica che, proprio per non contrastare con il principio di cui all’art. 24 Cost., non deve risolversi in un mero controllo formale e cartolare ma, al contrario, deve essere concreta e condotta secondo il parametro del fumus del reato ipotizzato, anche con riferimento all’eventuale difetto dell’elemento soggettivo, ove di immediato rilievo.
 
 
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La decisione, pur nella marcata sintesi argomentativa, risulta per taluni aspetti interessante.
 
Intanto, sembra attestare il consolidarsi del condivisibile indirizzo interpretativo, già espresso in alcune precedenti pronunce della cassazione, secondo cui l’art. 321 c.p.p. impone il riscontro in concreto - e non, dunque, un puro e semplice giudizio di astratta configurabilità del reato ipotizzato dal pubblico ministero in sede di richiesta della misura - del presupposto fattuale legittimante l’adozione del provvedimento cautelare.
 
Da questo punto di vista, l’aver rimarcato che il controllo giudiziale (e, dunque, anche i rilievi difensivi ed il dovere motivazionale del giudice dell’impugnazione) si può estendere anche all’eventuale difetto dell’elemento soggettivo, non fa che confermare il ripudio dell’opposta tesi, secondo la quale il profilo della attribuzione soggettiva del preteso reato sarebbe in questa sede sempre irrilevante.
 
E’ ben vero che nella stessa sentenza si legge che “il sistema delle misure cautelari reali prescinde da qualsiasi profilo di colpevolezza”. Ma la contraddizione è solo apparente. Il richiamo alla nota sentenza C. cost. 17 febbraio 1994, n. 48 (che quasi sempre si ritrova acriticamente citata nelle decisioni in materia), per una volta è operato in termini corretti, ossia per inferire dal decisum della Consulta non già una regola generale volta ad escludere tout court la valutazione del profilo soggettivo, ma semplicemente la constatazione che “la funzione cautelare non si proietta necessariamente sull’autore del fatto criminoso”. Il che vuol dire, appunto, che la misura ben può trovare la sua ragion d’essere nella necessità di rendere indisponibile un bene in sé ed oggettivamente pericoloso, e in questi casi il provvedimento di sequestro prescinde del tutto legittimamente dalla valutazione del fumus commissi delicti (la cosa pericolosa, infatti, va resa indisponibile chiunque ne sia il detentore, e l’indagine circa la colpevolezza di quest’ultimo sarebbe addirittura fuorviante). Ma questo non significa che nel catalogo normativo non si ritrovino anche situazioni nelle quali la pericolosità del bene è apprezzabile solo in relazione alla sua disponibilità da parte del soggetto coinvolto nel reato, come nel caso del profitto del reato assoggettabile a confisca. In queste ipotesi, il ricorso al potere coercitivo potrà dirsi legittimo soltanto se, appunto, si sarà accertato (evidentemente in termini indiziari) non solo che il reato è stato commesso e che da questo è derivato un profitto, ma anche che il soggetto cui viene sottratta la ritenuta utilità dell’attività criminosa abbia a che fare con il reato (perché a chi è estraneo al reato la cosa non può essere confiscata, né sequestrata, neppure, evidentemente, “per equivalente”). Insomma, a seconda della connotazione oggettiva o soggettiva del sequestro, il presupposto della misura necessariamente varia, includendo, o meno, il profilo della colpevolezza.
 
Altro passaggio significativo della decisione è quello riferito alla ritenuta necessaria verifica del collegamento tra l’oggetto del sequestro “per equivalente” ed il profitto del reato. Ciò che la decisione del Giudice di legittimità apprezzabilmente sembra esigere è un controllo non solo quantitativo di corrispondenza tra beni da apprendere e valore dell’utilità derivata da reato, ma anche di tipo individuale: richiamandosi alla intrinseca pericolosità che il profitto del reato esprime (pericolosità che, evidentemente, non può che apprezzarsi con riferimento alla posizione soggettiva di chi abbia beneficiato dei risultati economici dell’attività illecita), la Corte esclude la denunciata “violazione dei dettami costituzionali” proprio in ragione della necessità di accertare che ciò che viene sequestrato corrisponde a ciò che il destinatario della misura ha effettivamente incamerato dal reato: “la proiezione di pericolosità che caratterizza nello specifico la misura del sequestro per equivalente deriva dal fatto che ciò che viene appreso è, per l’appunto, l’equivalente del profitto lucrato dal delitto”, ed è “tale equivalenza che proietta sul bene la sua pericolosità, sì che non è ravvisabile … alcuna lesione del diritto di difesa perché la persona nei cui confronti si procede dovrà e potrà rispondere proprio sul collegamento tra il bene e il profitto”. Il che vuol dire, appunto, che in tanto si potrà procedere a sequestrare l’”equivalente”, in quanto sia accertato (almeno sul piano prognostico) che il detentore dei beni abbia orginariamente incamerato il profitto. E non è poco, visto che in giurisprudenza il concetto di “equivalenza” è stato sino ad oggi piegato ad usi decisamente più disinvolti: come il legittimare sequestri per valore anche nei confronti di chi pure risulti non aver mai percepito alcun profitto dal reato, in ragione di una equazione puramente oggettiva, del tutto svincolata da qualsiasi riscontro soggettivo.