ISSN 2039-1676


15 settembre 2011 |

Codice penale 1930: un passato (ancora) senza futuro

Testo dell'intervento svolto, col titolo "Un penalista del XXI secolo legge il codice penale del 1930", al Convegno organizzato dalla Facoltà  di Giurisprudenza di Torino nei giorni 21-23 ottobre 2010 sul tema "Scuola Positiva e Codice Rocco"

1. Chiamato a riflettere ancora una volta sul codice penale Rocco, con sguardo retrospettivo ma orientato al presente e all’immediato futuro, prenderei le mosse da una constatazione che mi parrebbe abbastanza ovvia. Non può non apparire davvero sorprendente al penalista del XXI secolo che il nostro vigente codice penale, che sarà anche – come si suole dire e tramandare – un monumento di perfezione tecnica ma certo non ha mai nascosto la sua fisionomia smaccatamente autoritaria, sia ancora oggi in vigore. Non stupisce naturalmente la longevità puramente cronologica, ché i codici sarebbero fatti per sfidare addirittura i secoli, ma piuttosto il fatto che esso sia sopravvissuto al mutamento istituzionale dal fascismo alla repubblica, al passaggio da un regime tutto centrato sullo Stato e la sua autorità ad un ordinamento costituzionale tutto fondato sulla persona, sulle sue libertà e sulla solidarietà sociale. E, del resto, la sopravvivenza del nostro codice Rocco si rivela un fenomeno sostanzialmente isolato nel panorama europeo, in cui nel dopoguerra sono stati rinnovati o sostituiti pressoché tutti i codici penali dell’Europa sia occidentale che orientale, seppure in tempi più o meno prossimi ai mutamenti costituzionali e in modo variamente condizionato dalle nuove costituzioni del dopoguerra e del dopo Muro di Berlino.
 
Naturale è dunque la sollecitazione ad interrogarsi sulle ragioni di questa perdurante longevità del codice Rocco, che per non pochi aspetti – ancora oggi non interamente cancellati perché “strutturali” – può ancora fondatamente dirsi “fascista”. Altre volte, anche di recente (ad esempio nel bel convegno bolognese sugli “Ottant’anni del codice Rocco”), ho avuto modo di intrattenermi su tali ragioni, partecipando ad una specie di rituale scientifico che tende ormai a ripetersi agli anniversari più significativi del nostro codice. Dunque, non indugerò più sul punto, limitandomi a riassumere in forma elencativa alcune delle cause della sua persistenza, soprattutto per rendere comprensibile il mio discorso ai più giovani che, per loro fortuna, non hanno ancora alle spalle i tanti anniversari di quel codice che ai loro studi si presenta dunque come qualcosa di ineluttabilmente nuovo.
 
Nell’immediato dopoguerra, cioè allorquando la spinta riformista avrebbe dovuto essere più intensa se non irresistibile, la riforma del codice non si pose mai nell’abbrivo ricostruttivo dell’Italia o comunque si smorzò presto la volontà di mutare il sistema penale. Vuoi perché non si seppe o non si poté cogliere tutta la carica innovativa sprigionata dalla Costituzione anche nel campo della penalità, vuoi perché – per ragioni storiche che qui non possono essere riassunte – ci si attardò a compiacersi dell’alto pregio tecnico-giuridico del codice così da far ritenere tutto sommato inessenziali le circoscritte modifiche tuttavia prospettate, fatto sta comunque che la riforma del codice penale non partecipò di quello sforzo ricostruttivo che l’Italia, e la sua classe politica, non mancò di compiere in altri campi. Ed, in effetti, fu forse l’impegno profuso nella ricostruzione prima di tutto materiale ed economica del Paese, anche socialmente arretrato, a collocare su un secondo piano la riforma della giustizia penale, a differenza di quanto invece aveva fatto il fascismo che degli strumenti repressivi intendeva fare largo uso secondo la più consolidata tradizione dei regimi autoritari.
 
Poi, certo, vi furono anche altre cause, cronologicamente successive e più direttamente pertinenti al sistema penale, che contribuirono ad allontanare sempre a tempi migliori la riforma del codice. Nell’ultimo quarto del secolo scorso il dilagare prima della criminalità organizzata e poi del terrorismo rese inattuale la riforma del codice, al quale d’altra parte venivano a fare da corona sempre più numerose leggi “complementari” non tutte nel senso di un rafforzamento della risposta punitiva nei confronti della criminalità montante nei sue diverse forme: in verità, non furono poche le leggi “speciali” alle quali il legislatore consegnò il compito di recare vere e proprie modifiche “di sistema” o addirittura di attuare taluni principi costituzionali del diritto penale (basti pensare alla legge dell’81 sulle “modifiche al sistema penale” o alla riforma penitenziaria del 1975).
 
 
2. Non è escluso che la sommaria diagnosi prima formulata abbia una certa sua plausibilità. Tuttavia, è probabile che vi siano anche ragioni più profonde all’origine di questa persistenza del codice Rocco; ragioni che, indubbiamente, non sono esaltanti per il penalista italiano. Anticipando subito le conclusioni del mio discorso, direi che, guardando indietro alla storia del nostro codice penale, sembra di cogliere come una fascinazione, un incantesimo “autoritaristico” (mi si passi questa aggettivazione ché altra non saprei trovarne) esercitato dal codice Rocco per tutto l’arco della sua esistenza. E che, paradossalmente, sembra addirittura ravvivarsi negli anni e nei giorni che stiamo vivendo. E’ un incantesimo che fa addirittura aggio, con inquietante disinvoltura, sul pur rilevantissimo sviluppo e progresso del pensiero e della cultura penalistica. Che si tratti del razionalismo liberale di origine ottocentesca, ma che tutt’oggi resta un patrimonio presente e da custodire nella nostra cultura penalistica; che si tratti dello scientismo positivistico ancora vivo nel primo novecento e tramutatosi poi nella fiducia in fondo pur sempre scientista di chi pensa ancora oggi di attingere utilmente al sapere psico-sociologico; che si tratti, infine ma soprattutto, del rigoglio del costituzionalismo penale dell’ultimo novecento, oggi integrato dal sistema dei diritti dell’uomo circolanti e protetti in ambito europeo, rimane comunque il fatto che la politica penale ha saputo fare del codice – forma razionale per eccellenza – la sua roccaforte, rimasta nel tempo scarsamente permeabile alle pressioni provenienti dalla civiltà dei princìpi come veniva via via modellata dalla moderna scienza penale, fattasi altresì scienza della politica penale.
 
Si badi bene: non voglio dire che il sistema penale italiano sia rimasto come bloccato nella politica penale del fascismo. Già ho ricordato come non poche leggi complementari – e ora vedremo anche taluni adattamenti dello stesso codice – rispondono ad un’esigenza di modernizzazione e di adeguamento costituzionale del complessivo sistema penale. Ma il codice, no. Almeno tendenzialmente, esso, che dovrebbe incarnare la quintessenza del progresso ‘civile’ della cultura penalistica, ha finito per essere il luogo in cui la ‘politica’ della penalità ha giocato le sue carte più significative. Sotto l’effetto della fascinazione autoritaristica originaria, il codice è bensì mutato ma sempre recependo contro la sua stessa natura le forzature più strutturali della politica penale.
 
Il discorso sarebbe ovviamente assai complesso e meriterebbe ben altra argomentazione di tipo storiografico di quella di cui sono capace. Mi limito qui a formulare l’ipotesi, fornendo al più qualche esemplificazione, più o meno nota, tratta da periodi storici diversi.
 
 
3. Com’è noto, il codice Rocco fu il risultato – un buon risultato, se si vuole – di un’imponente operazione di mistificazione strumentale della cultura penalistica tanto liberale quanto positivistica.
 
Relativamente alla prima, la cultura liberale, è arcinota l’ambivalenza della legalità nel codice Rocco, ove l’istanza liberal-garantistica è nella sostanza vanificata dall’assetto costituzionale delle fonti nello Stato fascista, mentre nella sostanza il predominio legalistico è coerente col principio autoritario della concentrazione del potere. Senza che per questo siano da bandire completamente aperture verso il giudice, laddove sia più utile affidarsi in concreto al giudice soprattutto essendo possibile contare sulla sua “fedeltà” al potere. Così come anche l’ampio universalismo riconosciuto all’efficacia spaziale della legge penale italiana, lungi dall’essere espressione di quell’umanitarismo universale dei giorni nostri, non è altro che un modo per affermare l’autoritarismo delle esigenze di tutela proprie dello Stato. La stessa idea di bene giuridico, già di per sé fin dall’origine ambigua nella sua valenza garantista, viene chiaramente piegata in chiave autoritaria dal codice Rocco che in effetti la usa per costruire intere categorie di delitti politici intorno a beni giuridici rigorosamente statalistici.
 
Quanto alla Scuola Positiva, sul suo rivoluzionario background culturale non solo fu edificato lo straordinariamente repressivo sistema delle misure di sicurezza e delle presunzioni di pericolosità, ma furono anche costruiti alcuni istituti solo apparentemente “minori”, e comunque non poco significativi per le forti deroghe in senso autoritario così introdotte al tessuto garantista della tradizione liberale. Così, ad esempio, al principio della incondizionata irrilevanza del c.d. tentativo inidoneo poté essere sostituita una disciplina che, attraverso la previsione della misura di sicurezza, rivelava tutte le potenzialità autoritarie della pericolosità sociale. E nella stessa direzione il nuovo e moderno istituto della capacità criminale poteva consentire, nella originaria prospettiva dell’art. 133 c.p., di portare la quantità della pena inflitta oltre la barriera della gravità del reato commesso e, dunque, oltre il limite desumibile dal sovraordinato principio di proporzione.
 
E’ ben vero che poi le cose cambieranno, nel corso di questi ottant’anni. Ma indubbiamente la suggestione autoritaristica del codice Rocco è dura a morire, anche perché le trasformazioni – pur indubbie – opereranno per così dire “dall’esterno”, intervenendo cioè su una struttura di fondo che rimane immutata. E così la legalità si riassesterà nel mutato quadro delle fonti delineato dalla Costituzione, ma sarà solo la giurisprudenza della Corte di Strasburgo a esaltare la componente c.d. “universale” della legalità in termini autenticamente garantistici di possibilità per il cittadino di accedere alla norma penale e di prevedere ragionevolmente le conseguenze giurdico-sanzionatorie del proprio comportamento. E così le misure di sicurezza finiranno per acquisire un ruolo del tutto marginale nell’esperienza applicativa, ma solo perché – dopo l’eliminazione delle presunzioni legali di pericolosità – la magistratura italiana ha assunto un atteggiamento di pressoché totale chiusura nei confronti di questo strumento sanzionatorio; ma in teoria sarebbe potuta andare anche diversamente. E così la colpevolezza ha fatto faticosamente ingresso nel sistema codicistico, segnatamente con la legge sul coefficiente d’imputazione soggettiva delle circostanze; ma sono rimaste non poche incongruenze in rapporto ad esempio ai reati aggravati dall’evento il cui requisito d’imputazione del risultato non voluto rischiava paradossalmente di restare meno pregnante di quello delle circostanze, e solo recentissimamente la giurisprudenza ha affermato l’esigenza della colpevolezza in rapporto all’art. 586 c.p. E così i venti della moderna politica criminale internazionale riuscirono a spezzare il monolitismo sanzionatorio della pena detentiva, ma l’innesto stratificato e asistematico delle nuove tipologie e strumenti sanzionatori è avvenuto al costo di una totale irrazionalità ed ingovernabilità del sistema con la conseguenza ultima paradossalmente contraddittoria di ineffettività della pena e sovraffollamento carcerario.
 
 
4. Le modifiche sopravvenute “dall’esterno” al codice Rocco ne hanno lasciato sopravvivere il virus autoritaristico, che non solo continua a circolare nelle parti più direttamente e platealmente esposte alle pressioni ed esigenze provenienti dalla montante criminalità organizzata (come, ad esempio, nei reati contro l’ordine pubblico o anche contro lo Stato ovvero nella disciplina del concorso di persone), ma continua a serpeggiare anche dentro le fibre più interne del codice, subendo peraltro una sorta di mutazione genetica che ne garantisce la sopravvivenza alle pur massicce dosi di liberalismo e costituzionalismo penale circolanti in vero più che altro nella cultura penalistica. La quale ultima ha finito dunque con l’essere espropriata dalla politica non solo della legislazione complementare ma anche dello stesso codice.
 
E si osservi bene che questa sopravvivenza mediante mutazione genetica non è ricollegabile esclusivamente ai fenomeni della incalzante modernità e complessità dell’èra presente, la quale certamente spinge con le sue esigenze di tutela verso possibili derive illiberali del diritto penale. Così, per fare solo una rapidissima esemplificazione elencativa, non si tratta solamente della proliferazione dei reati di pericolo astratto, oppure della rarefazione della causalità “moderna” in senso necessariamente ipotetico e probabilistico, oppure ancora della trasformazione subita in via giurisprudenziale dalle fattispecie di corruzione per far fronte alle trasformazioni criminologiche del fenomeno, ovvero infine del più generale e massiccio processo in atto di “amministrativizzazione” del diritto penale il quale in verità, da un lato, viene spesso piegato alle necessità della tutela di procedure amministrative (la disciplina dell’immigrazione è emblematica in proposito) e, dall’altro, viene sostituito dall’intervento di autorità amministrative col risultato finale della de-giurisdizionalizzazione della disciplina (come capita ad esempio con le autorità indipendenti). Si tratta di trasformazioni constatabili per la verità sia dentro che fuori del codice. Ma a parte ciò, preme piuttosto sottolineare che le componenti illiberali di queste mutazioni si presentano quasi come delle conseguenze accessorie di oggettive esigenze di tutela di “beni” refrattari ai tradizionali canoni della disciplina penale, più che come una deliberata utilizzazione di quel virus autoritaristico circolante nel codice per nuove finalità “di potere”.
 
Quando parlo di mutazione genetica del virus autoritaristico del codice Rocco, faccio piuttosto riferimento all’inclinazione in senso populistico-repressivo che soprattutto le recenti leggi sulla sicurezza hanno impresso al codice, perpetuando così quell’incantesimo di cui dicevo all’inizio. Si tratta di provvedimenti legislativi che, per un verso, hanno toccato istituti o discipline davvero centrali del codice ma, per un altro, si sono perfettamente inseriti nel solco antico del codice pur in vista di obiettivi repressivi diversi e meno “statalistici” e appunto più populistici. In estrema sintesi, sono state “ritoccate” fattispecie quasi fuori del tempo come il furto, l’estorsione, il danneggiamento, taluni reati contro la persona, in totale dispregio del fondamentale principio di tipicità: il tipo criminoso è stato frantumato senza il minimo scrupolo, andando ben oltre l’eccesso casistico proprio del codice Rocco, al solo fine di dare visibilità ad alcune concrete forme di manifestazione di quei reati nei cui confronti populisticamente e simbolicamente accreditare così la convinzione sociale di un’energica azione repressiva da parte delle forze di governo. Sono state introdotte nuove circostanze speciali e comuni, in parte nella stessa chiave politico-criminale di fornire un messaggio populistico-simbolico nei confronti di forme di criminalità che si suppone essere particolarmente allarmanti, ed in parte introducendo vistose deroghe alla disciplina del giudizio di bilanciamento tra circostanze eterogenee, così da comprimere il potere discrezionale del giudice attraverso forme più o meno rigide di “blindatura” delle nuove circostanze. Infine, il tormentato istituto della recidiva è stato ancora una volta riformato in senso fortemente “sfavorevole”, lasciando così intendere che uno dei più gravi problemi della giustizia penale, il recidivismo appunto, possa essere risolto costringendo il giudice all’automatismo di qualche maggiore aumento di pena o comunque rinforzando i vari effetti penali negativi della dichiarazione di recidiva.
 
 
5. Sulla recidiva conviene indugiare un po’ perché costituisce un ottimo esempio sia di questo filo autoritario che percorre la storia del codice Rocco dall’inizio fino ad oggi, sia e soprattutto della capacità che ha la politica di mistificare e strumentalizzare la scienza penale e i suoi prodotti culturali per i più contingenti fini di governo, potendo non di rado contare sulla remissività della penalistica (che “naturalmente” subisce la fascinazione della auctoritas legis, soprattutto quando prende la solenne forma codicistica).
 
Questo controverso istituto, tanto è caro al legislatore quanto è difficile da razionalizzare “scientificamente”. La recidiva mise in qualche modo a disagio già il sommo Carrara, costringendolo a derogare alla oggettiva proporzione tra reato e pena in nome di un funzionalismo soggettivisicamente orientato: «Il principio razionale di questo rincaro [di pena dovuto alla recidiva] si trova dunque non in un aumento di quantità nel delitto; ma soltanto nella dimostrata insufficienza relativa della pena ordinaria». Peraltro, l’“apertura soggettivistica” (l’insufficienza della pena relativa al soggetto recidivante) segna sì un’attenzione ai meccanismi psicologicamente intimidativi e disincentivanti della comminatoria legale, ma nel pensiero carrariano si tratta pur sempre di un’attenzione all’individuo astrattamente considerato, quale essere razionale e razionalmente motivabile secondo schemi sostanzialmente universali validi appunto in astratto e per tutti.
 
Ma anche la recidiva del codice Rocco nella sua versione originaria non ha invero molto a che vedere col pensiero scientifico e positivisticamente scientista della Scuola Positiva. In effetti, il codice Rocco, rifiutata in generale l’adesione al principio positivistico della differenziazione di trattamento tra delinquenti primari od occasionali e delinquenti abituali, costruisce una disciplina della recidiva che non ha molto di positivo e di “scientifico”. Non è positivo il rigido sistema presuntivo per cui essa è sempre obbligatoria; né rilevano altri indici sintomatici diversi ed ulteriori rispetto al precedente reato/condanna, essendo essa – come si dice – generica e perpetua. Così come non è per nulla positivo neppure la conseguenza giuridica derivante dalla recidiva, posto che l’aumento di pena per il recidivo accentua ulteriormente il distacco del codice dai postulati positivistici in tema di trattamento dei delinquenti. Toccherà al Manzini razionalizzare questo oggettivismo repressivo della recidiva del codice, nel quadro di quel suo tipico eclettismo capace di accreditare qualunque soluzione “politicamente” utile. Secondo il grande trattatista la recidiva mostra bensì la «volontà ricorrente di non uniformarsi all’ordine giuridico generale penalmente sanzionato», ma va anche considerato che «l’aggravamento […] della recidiva è determinato dal dovere che ha lo Stato, nell’esercizio della sua funzione di tutela giuridica, di provvedere a che la tutela stessa sia diretta non solo alla reintegrazione di quel particolare interesse che il nuovo reato ha aggredito, ma pur anche alla protezione dell’intero ordinamento giuridico che con particolare intensità viene turbato dall’attività del recidivo». Il processo di oggettivizzazione della recidiva è compiuto, e di più non potrebbe essere, pervenendo addirittura a conferire all’istituto accenti che si potrebbero dire vagamente “idealistici”.
 
A questa recidiva “idealistica” così rarefatta nel suo fondamento realmente repressivo e di difesa sociale corrisponde una reazione in certo senso eguale e contraria con la riforma del 1974, che com’è noto la rese del tutto facoltativa. In effetti, solo in apparenza la generale facoltatività del 1974 ripristina l’orientamento di matrice positivistica di una recidiva da adeguare alle specificità personologiche del delinquente. Sono altre le reali finalità della riforma e sono ancora una volta tutte “politiche”, perseguendo il legislatore del ’74 lo scopo di una generalizzata attenuazione della risposta sanzionatoria tramite la congiunta e cumulativa revisione di plurimi istituti tutti rivisti nella stessa identica, univoca e più prosaica prospettiva politico-criminale.
 
La riforma del 2005 s’inserisce nel solco di questa storia senza pace della recidiva, in cui le esigenze della “politica” riescono sempre a far aggio sulla razionalità della “scienza” (quale che sia il sapere scientifico dominante in quel momento). E ciò nonostante che l’istituto sia – come del resto non pochi altri – tra quelli in qualche modo identificativi del “volto” complessivo del codice. Anzi, proprio la recidiva sembra essere uno dei luoghi codicistici in cui quel persistente incantesimo autoritaristico, quella linea di continuità di cui si diceva, arriva fino ai giorni nostri. Certamente, la recidiva di oggi mostra, nonostante tutto, un volto meno truce ed implacabile di quello originario, visto e considerato che rimane (grazie anche alla Corte costituzionale) una larga discrezionalità del giudice nel dichiararla. Ma ciò nondimeno l’istituto rivela tutto il rigore di una disciplina che il legislatore sembra aver delineato al prevalente fine di dare una risposta visibile all’allarme sociale montante – realmente o no – nella collettività. Proprio quell’allarme sociale, che lo stesso Manzini aveva escluso potesse essere fra le ragioni ispiratrici dell’istituto, preferendo proporne una ricostruzione teleologica certo razionalmente più sofisticata nel suo franco autoritarismo statalistico. Dunque, oggi come ieri, anzi forse più di prima, una disciplina la cui sede codicistica non riesce a mettere le ragioni della scienza al riparo da quelle della politica. Se ne ha la conferma chiara in almeno due punti fondamentali.
 
In primo luogo, la selezione dei reati per cui è prevista la (limitata) obbligatorietà della recidiva non presenta alcuna omogeneità tipologica degli illeciti che possa dirsi ragionevolmente indicativa di una particolare pericolosità del soggetto, rivelandosi invece scelta largamente influenzata da contingenti valutazioni di allarme sociale (come sono un po’ tutte quelle sottostanti agli elenchi di titoli criminosi da cui far derivare conseguenze aggravatrici del trattamento sanzionatorio). In secondo luogo, lo spettro delle conseguenze sfavorevoli derivanti oggi per il reo dalla recidiva non hanno niente a che fare con la finalità di differenziare il trattamento sanzionatorio in ragione di peculiari esigenze specialpreventive messe in luce dalla ricaduta nel reato, ma esprimono solo l’intento del legislatore di stigmatizzare complessivamente il tipo d’autore del recidivo ponendolo per così dire al di fuori dell’area di “regolare” applicazione di svariati istituti penalistici ai delinquenti “comuni”.
 
 
6. Lo sguardo retrospettivo del “penalista del XXI secolo” – almeno di questo penalista che scrive – non è purtroppo molto confortante. Da osservatore del XXI secolo, appunto, non è tanto il codice Rocco quale esso si pose ai suoi tempi a suscitare inquietudine. Esso fu quale non poteva in fondo non essere: cioè un prodotto legislativo, più o meno tecnicamente riuscito, del regime. E’ piuttosto l’incantesimo che esso è riuscito ad esercitare per quasi un secolo di storia penale italiana a lasciare sorpreso l’odierno osservatore. In fondo, nonostante gli indubbi progressi della penalistica italiana, la razionalità scientifica e la Costituzione non sono a tutt’oggi riuscite ad appropriarsi nemmeno del codice, non sono riuscite a consegnare all’archivio proprio quel codice. Anzi, le ragioni della politica hanno finito per continuare a disporre del codice, di quel codice che evidentemente continua a parlare un linguaggio familiare alla politica criminale, se non alla cultura penalistica. E i tempi odierni non sembrano i più adatti per invertire la rotta. Forse, alla radice, v’è un rapporto da rivedere tra razionalità penale e politica criminale, tra scienza e politica del diritto penale: e il codice dovrebbe essere il terreno di elezione su cui condurre questa riflessione.